Shaesta Waiz
, la prima donna afgana a potersi fregiare del titolo di pilota civile, è atterrata, con il suo monomotore A36 Beechcraft Bonanza, nel caldissimo pomeriggio del 25 giugno, all’aeroporto di Cagliari.
Questa esile, ma molto determinata giovane donna afgana, sta compiendo un volo in solitaria in giro per il mondo per promuovere una missione quasi impossibile: promuovere l’importanza della cultura e della cultura scientifica, in particolare, le cosiddette STEM: scienza, tecnologia,ingegneria e matematica per l’affermazione delle donne, e non solo.
Sarà una sosta breve, già domani riprenderà il suo tour con destinazione Atene, per portare a termine questo viaggio che le farà toccare sino a metà settembre tutti e 5 i continenti. Questa tappa cagliaritana, l’unica in Italia, rientra nell’iniziativa Dreams Soar che vuole ispirare le donne in tutto il mondo a credere in loro stesse per poter realizzare i propri desideri e seguire le proprie attitudini, insomma per librarsi in volo senza aver paura.
Ad accoglierla Marco di Giugno, direttore regionale ENAC, Gabor Pinna, vicepresidente Sogaer, Marcella Sitzia, assessore alle pari opportunità del Comune di Elmas, una rappresentanza della Rete Heminas, che insieme alcune giornaliste di Giulia Giornaliste Sardegna e giornalisti della stampa locale le hanno dato il benvenuto e si sono intrattenuti con lei.
Ha mostrato grande disponibilità e affabilità, nonostante abbia pilotato per oltre 4 ore, prima di arrivare a Cagliari. Una donna molto meticolosa che prima di concedersi alle chiacchiere ha fatto un controllo al suo aereo che è il suo compagno di avventura, a volte, quando si è trovata sopra l’oceano, l’unico.
È cresciuta ed ha studiato in California a Richmond, pensava che il suo destino fosse sposarsi giovane e mettere su famiglia e invece la scoperta del volo e la volontà di proseguire gli studi sino alla laurea.
Alla domanda se si senta americana risponde: Io sono cresciuta in una famiglia di rifugiati che è fuggita dall’Afganistan senza portarsi dietro nulla e che in casa parlava la lingua afgana. Nella mia testa io sono afgana. Sino a 13 anni non sapevo leggere e non parlavo inglese, ma poi i miei genitori, che hanno fatto moltissimi sacrifici, hanno detto che bisognava cambiare e cercare di essere maggiormente coinvolta nella vita di quel paese che ci stava ospitando. E così ha fatto. Conclude ribadendo che: Mi sento profondamente afghana, ho imparato a vivere in USA, ma in realtà non so definire me stessa.
Ha parlato della situazione delle donne afgane per le quali si rattrista, ma ne parla con serenità e fermezza e racconta che tutto sommato crescere a Kabul o in altre città è meglio, mentre quando ci si allontana dai centri più grandi, a volte mancano anche i beni di prima necessità e ovviamente diminuiscono le opportunità di studio e di affermazione per le donne. La cosa che più la addolora e che se queste donne diventeranno madri, non avranno gli strumenti per educare i propri figli e soprattutto le proprie figlie. Non potranno loro insegnare che bisogna fare di tutto per realizzare i propri sogni.
Inevitabile la domanda sull’uso del burka, ma ci fa sperare in qualche cambiamento positivo la sua risposta: il capo viene coperto da un fazzoletto, ma dipende dalle famiglie.
L’attenzione di Shaesta Waiz è soprattutto per le nuove generazioni di donne alle quali vuole spiegare che non devono farsi dire cosa fare, che non sono diverse da lei, hanno la stessa pelle, gli stessi occhi, gli stessi capelli e come lei possono ottenere qualsiasi cosa. Che possono realizzarsi anche in professioni che sono di solito appannaggio maschile.
Ci lascia con un grande insegnamento: la cultura e le donne sono la grande soluzione.