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Siamo a Bacoli, il primo dei comuni posti a Nord Ovest della penisola flegrea, comprendente le antiche località greco-romane di Baia, Fusaro, col relativo lago e la casina vanvitelliana, Miseno, Miliscola, sede della flotta pretoria degli imperatori romani, ed una parte di Cuma, la città leggendaria fondata dagli Eubei di Calcide in cui è situato l’antro della sibilla, sacerdotessa votata ad Apollo e figura profetica sia della religione greca che romana. Bacoli, che oggi conta oltre 27 mila abitanti, fu fondata dapprima dai Greci nel VI secolo a.C. , i quali la adibirono a zona militare, distrutta da Annibale nel III secolo a.C.; venne ricostruita col nome di Bauli per mano dei Romani i quali, tra il II ed il IV secolo, la resero così fiorente da farne luogo di villeggiatura, innalzando ville lussuosissime, ricche di marmi e mosaici. Abbandonata nel periodo della caduta dell’Impero Romano, probabilmente anche a causa del fenomeno del bradisismo e dell’erosione, ha cominciato a riprendere vita grazie alla moda del Grand Tour, i viaggi intrapresi dall’aristocrazia europea a partire dal XVII secolo.

Del territorio bacolese è caratterizzante la conurbazione che fonde diverse aree moderne e zone rurali ad epoche storiche, questo a causa dell’aumento demografico e di una edilizia scriteriata che non ha tenuto conto dell’inestimabilità archeologica.

Al di là di tutto ciò Bacoli rimane un vero esempio di Terra del Mito per bellezza paesaggistica, culturale ed archeologica appunto.

Infatti sono da visitare assolutamente il Parco sommerso di Baia, il Lago Fusaro, un tempo identificato con l’Acherusia palus, il complesso termale delle Stufe di Nerone, il Lago Miseno con nei pressi la Chiesa di San Sossio, la Piscina Mirabilis, gli Scavi di Baia ed il Castello Aragonese con dentro la Chiesa della Madonna del Pilar, gli scavi archeologici di Cuma e molto altro ancora. Oltretutto in questi luoghi la viticoltura si conta in millenni e dai filari accarezzati dalla brezza marina, le cui radici spesso affondano in crateri vulcanici, è possibile ammirare le isole di Procida, di Ischia ed una buona parte del Golfo di Napoli.

È qui che nasce la società agricola La Sibilla.

La produzione di vino di questa realtà, da sempre a conduzione familiare, viene avviata oltre un secolo fa da Luigi Di Meo, detto ‘o spigone per via delle coltivazioni di grano nell’area del Lago Miseno, specchio d’acqua che i locali hanno soprannominato “maremorto”. Il figlio Vincenzo raccoglie l’eredità del padre Luigi e si struttura come casa vinicola, fino ad un momento cruciale: con il passaggio di consegna dell’attività vitivinicola a suo figlio Lugi ed alla moglie Restituta si decide di fare finalmente la bottiglia, anzi le bottiglie, vista la volontà di dare identità enologica ai vini ricavati dalle uve Piedirosso e Falanghina, allevate nei loro vigneti dall’inizio del ‘900. Siamo agli inizi del terzo millennio e l’avviamento alla vinificazione ed all’imbottigliamento dell’azienda avviene anche grazie alla collaborazione con Maurizio De Simone, primo enologo della famiglia Di Meo durante questo passaggio importante. Intanto Luigi Di Meo corrobora il potenziale della cantina, vede il coinvolgimento dei figli Mattia, Salvatore e Vincenzo, i quali si appassionano sempre di più al mestiere del vino, mentre lui comincia ad immergersi in via esclusiva nei vigneti, dedicandosi appieno alle pratiche agronomiche.

E siamo già alla quinta generazione!

Nel 2004 la Sibilla arriva ad un nuovo waypoint: con Roberto Cipresso a seguirne la conduzione enologica fino al 2009 la casa vinicola flegrea comincia ad assumere la sua vera identità, la visione sul futuro, la valorizzazione di vitigni come il Marsigliese, l’Annarella, il Calabrese e l’Olivella, ed un ulteriore radicamento alla storia dei luoghi con il recupero delle viti nei pressi di un’antica struttura romana, nota come Villa di Cesare. Vincenzo Di Meo, figlio di Luigi, laureatosi giovanissimo in enologia e viticultura all’università di Pisa, apre un nuovo capitolo incentrato tutto sullo studio del potenziale ampelografico e sulla micro-vinificazione,; l’azienda agricola si dota di una cucina, della sala degustazione, coltiva verdure e ortaggi ed alleva animali da cortile, dimostrando la sua vocazione all’enoturismo, alla gastronomia tutta sui sapori genuini del posto, sulle ricette della tradizione bacolese e quindi orientata al culto dell’ospitalità.

Proprio come la cruna di un ago, così chiamata poiché dapprincipio di forma ellittica e con l’estensione di poco più di un ettaro, la vigna Cruna DeLago è tra le più vetuste di quelle curate dalla famiglia Di Meo: infatti arriva a sfiorare ormai i settant’anni. Qui si pratica ciclicamente il sovescio e i nemici della vite si combattono con la lotta integrata.

 Sui dolci declivi collinari di Baia a 30 metri sul livello del mare i vitigni di Falanghina affondano le loro radici in suoli sabbiosi ricchissimi di potassio e di argille di origine vulcanica, orlati di tufo dal color ocra, con presenza di lapilli e cenere. Ora accarezzati, ora scossi dai venti di III e IV quadrante i filari, allevati a guyot bilaterale, qui noto come spalliera puteolana, sono esposti a Sud Ovest e, guardando al mare, ne ricevono l’imprinting, il quale senza la meticolosa attenzione del vignaiolo rischia di diventare una salatissima punticatura che danneggerebbe la buccia. La vendemmia è rigorosamente manuale, sei i mesi di affinamento in acciaio sulle fecce fini ed un anno di affinamento in vetro, per un totale di circa 4000 bottiglie.

La Cruna DeLago Falanghina Doc Campi Flegrei 2008 La Sibilla sfoggia un colore giallo oro leggero ma molto luminoso, lascia traccia della sua consistenza con archi piuttosto stretti e lacrime a discesa lenta. L’esperienza olfattiva è decisamente ricca e piacevole: fiori di camomilla, timo e salvia essiccati, l’agrumato dello yuzu, poi una nota burrosa, quella della nocciola tostata e quindi del tofu, del tartufo bianco, per un finale salmastro, da ostrica Tsarskaya. In bocca l’ingresso è tondo, una sottilissima astringenza alle mucose ci avverte della presenza dei leucoantociani, una presenza immediatamente dopo scordata e stravolta da un’acidità pazzesca. In retro olfattiva torna l’agrume, più mediterraneo stavolta, quello del cedro e della scorza candita di limone per intenderci, poi la pesca sciroppata o meglio il suo ricordo nel barattolo, note fungine e chiusura saporita a veicolare ancora quella sferzata di iodio marino, percepita alla via diretta, e che ne estende la persistenza.

Questa bottiglia è figlia di un’epoca che traccia di per sé una linea di demarcazione per la storia di questa bellissima realtà vitivinicola, in quanto costituisce l’ultima prodotta dalla sapiente mano di Luigi Di Meo e che riluce tuttavia del tocco cipressiano. Assaggiare questo nettare, dopo un’occasione davvero speciale e dopo aver bevuto tre rossi straordinari, fa letteralmente fondere le lancette dell’orologio: elegante, voluttuoso e freschissimo, Cruna DeLago riesce dopo 13 anni a sfidare il tempo, diventando traccia indelebile nella memoria storica dell’enologia flegrea come poche iconiche bottiglie sanno fare. Al termine di una bevuta ove non ce ne sarebbe mai stato abbastanza, il calice completamente asciutto lascia tracce olfattive che sanno di timo limonato e di idrocarburi. Spettacolare tanto con un piatto di tagliolini mantecati al Castelmagno, con battuto di gamberi a crudo e tartufo bianco, quanto con dei ziti al ragù di genovese.

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