Una scena del film "Su Re"
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La politicità di un’opera deve essere necessariamente esplicita? Solo le opere concepite e partorite ab initio come politiche possono fregiarsi di questo titolo? Oppure è possibile scorgere, nella labilità dei confini contemporanei, una zona fluida più sottile, nella quale un’opera, rifugiandosi da scopi e finalità altrui e attraverso un percorso introverso di contemplazione, si manifesta politica – non più non in quanto opera di denuncia sociale ma bensì come un forte atto di presa di posizione estetica – generando uno agorà aulica all’interno della quale la collettività interviene e partecipa mediante lo sguardo?

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Veemente e affatto timido Su Re di Giovanni Columbu si afferma sul panorama nazionale e internazionale ove il suo sguardo viene applaudito, stimato.

L’opera dimostra un invidiabile coraggio nell’esprimere e farsi portavoce di un punto di vista differente, veicolo d’immagini audaci e di narrazioni inconsuete.

Eppure, Su Re racconta “nient’altro” che la Passione di Gesù Cristo, forse solo la più celebre delle storie; ed è dunque in questo punto che risiede lo scarto, la différance Derridiana, pratica che il filosofo stesso accostò all’esecuzione artistica: l’interpretazione infinitamente libera di un testo, la cui perennità risiede nell’incapacità di colmarne il significato proprio in virtù della différance tra il segno e l’essere a cui esso stesso rimanda.

Columbu difatti opera magistralmente una duplice decostruzione: una sul testo, disarticolando dapprima la pluri-narrazione (tratta dai quattro vangeli) all’interno di un ribelle intreccio onirico e traspone poi quest’ultimo mediante un linguaggio cinematografico anch’esso decostruito che viola gran parte delle regole della regia da manuale.

La narrazione viene così disseminata nell’aspro paesaggio del Supramonte barbaricino, sublime fortezza atemporale, all’interno del quale il logos assume simbioticamente la stessa impenetrabile miticità, dove la volontà del regista si compie e dove l’essere giace credibile, sospeso nello spazio e nel tempo.

La macchina da presa è spesso instabile come ci suggerisce da subito la primissima inquadratura, dolorosa e grave, che si affaccia cieca su una valle spenta, e il nostro sguardo scavalca i pendii lontani per godere di una pallida coltre: “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”.

Ancor più forte della scelta di non puntare su un piacente Gesù è forse quella di eluderlo: nel costante fluttuare della macchina che cerca il proprio sguardo, che compie le proprie scelte durante il processo d’indagine sulla scena e che dunque non le afferma in quanto predeterminate, il regista relega all’oblio della quinta il volto del Cristo in una privazione aniconica, risparmiandone solo uno scorcio, risparmiandone la parola, il verbo.

A volte però, anche quest’ultimo sembra pletorico: è così che persiste il solo respiro, l’affanno o il singhiozzio a colmare l’intera scena. L’emotività sonora di Su Re riecheggia altresì nell’ambiente, ove la terra risuona aspra e severa, con colori gravi.

Il regista, attraverso quest’opera forte, valida e valorosa, sembra effettuare un atto politico, al pari delle tragedie di Eschilo o Sofocle, operando sul terreno solido di un tema arcinoto: Columbu contribuisce – da una parte – alla stratificazione iconografica; dall’altra, si discosta da qualsiasi modalità narrativa e rappresentativa finora esistente e dunque opponendo una personalissima visione “critica” circa un tema universale.

Probabilmente, con questo presupposto, gran parte delle opere d’arte si potrebbero considerare politiche, in quanto spesso veicolo di senso (estetico? / significato?), di immaginario, di idea o ideale – tuttavia – più dell’opera in sé, sono il processo, le scelte o le non scelte a costituirne la politicità.

La presa di posizione stilistico-narrativa di Giovanni Columbu è impetuosa e decisa; il perseguimento di un obiettivo così intimo e al contempo così ospitale conduce l’opera al di la di sé stessa, tramite una sensibile riflessione – non solo visiva- sul senso del creare immagini e – al contempo – sul mondo che l’immagine crea1.

Come scrive il filosofo e critico d’arte Federico Ferrari, la politicità di alcune opere – come in questo caso Su Re di Giovanni Columbu – risiede dunque nel loro riposizionamento all’interno della tradizione, nella reinvenzione, attraverso la trasformazione radicale dei generi e dell’iconografia: riappropriazione e invenzione continua dell’essenza dell’arte, stratificazione e ripetizione di un gesto, di uno sguardo, nell’infinita apertura ad altro da sé, nel più profondo amore per sé.

1 F.Ferrari, Il re è nudo, Aristocrazia e anarchia dell’arte, Luca Sossella Editore, 2011 Roma

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