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Probabilmente è il ricordo estivo che maggiormente perdura in questo autunno e che mette nostalgia al pensiero di una brezza marina che va al di là della semplice comprensione di un’esperienza balneare o comunque di una gita all’aperto. Un ricordo indelebile, fondato su un’esperienza indimenticabile, quella fatta al Contaminazioni Restaurant di Somma Vesuviana, ristorante stellato di proprietà dello chef Giuseppe Molaro che promette esperienze che vanno ben oltre l’edonismo.

Ricerca degli ingredienti, padronanza della tecnica, senso dell’estetica sono certo fondamentali ma temo la cucina non sia un’equazione semplice da estrapolare, nemmeno se celebrata in una location da urlo: non è il risultato della somma di ogni singolo elemento utile al suo svolgimento e non può semplicemente rifarsi ad una semplice strategia, per quanto estrinsecata dal più bravo dei food & beverage manager. Occorre qualcosa in più, di non necessariamente codificabile semplicemente nell’ambito di una degustazione sensoriale o che debba essere scritto, per forza di cose, in qualche esoterico manuale di cucina.

L’esperienza culinaria deve poter essere completa, appagante ed edificante: scuotere possibilmente il palato mediante la concentrazione di sapori e l’appeal edonistico, destare l’intelletto grazie ad un arricchimento culturale incentrato sulla filosofia del piatto e far vibrare le corde emotive dell’assaggiatore è la conditio sine qua non a cui uno chef deve aspirare per esaudire le aspettative di palati sempre più colti ed esigenti. Un obiettivo difficilissimo che richiede sacrificio, studio, tecnica, dedizione e passione. Ma non è la naturale conseguenza del diventare chef, non basta. Certo il Territorio, la Tradizione, un Food Concept innovativo, ma non tralasciamo di ricordare quel detto biblico che afferma che nihil sub sole novum, altrimenti si rischia di scadere nell’ovvietà di pratiche meccanicistiche e story telling più che scontati.

Occorre ancora qualcosa in più, qualcosa che Giuseppe Molaro: la vocazione per l’alta cucina e quel suo 110% costante tra tecnica, sentimento, visione, istinto ed armonia. Lo riesce a trasmettere con gli occhi e col sorriso, a voce, soprattutto facendolo risuonare al palato mentre si assaggiano, senza accorgersene, i suoi personali ricordi, ricordi di un percorso che alla fine di un viaggio tra i suoi sapori, si rimescolano tra gli ingredienti e diventano anche i nostri, facendoci percepire la struttura materiale ed immateriale di piatti che concettualmente nascono in Giappone, fanno il giro del mondo e diventano Vesuviani.

È il cocktail hibiscus ad aprire le danze: ottenuto dall’aceto dei fiori di ibisco con una soluzione di alcool ed acqua, zucchero di canna, olio al peperoncino, kombucha al tè verde e bitter d’agrume, questo drink originale, e per certi versi esotico, accarezza il senso dell’olfatto con le sue note odorose e predispone sin da subito il palato, grazie al sapore intrigante, una lievissima astringenza ed alla piacevole acidità che rende ancor più succoso il sorso.

Il pane fatto con lievito madre, semi di lino e di papavero arriva a tavola caldo e con tutte le sue fragranze, assieme alla carta musica aromatizzata al rosmarino ed ai grissini al porro bruciato, accompagnati da un olio evo fruttato e di media struttura, dal burro di bufala e dal sale di Maldon. Insomma l’ospitalità mediterranea a tavola, celebrata da subito con bollicine di Caprettone Metodo Classico del Vesuvio Doc, perché il trittico della Dieta del Mare Nostrum sia soddisfatto.

Da qui arriva subito una svolta e ci ritroviamo a Tokyo assieme allo chef Molaro per condividere con lui la descrizione di un attimo tramite una delle pietanze ordinate, entrando in ristorante locale, dopo essersi perso tra le strade della metropoli, con tutte le sensazioni del momento e con un menu scritto esclusivamente in lingua giapponese davanti a sé… la melanzana cotta alla brace accompagnata da un brodo dashi leggero e del katsuobushi. Una preparazione semplicissima ma spettacolare che al Contaminazioni Restaurant è diventata più ricca nella sua elaborazione e nella complessità dei sapori: dapprima cotta sotto vuoto e poi grigliata, la melanzana presenzia anche nella versione cremosa per accompagnare il kamobushi di petto d’anatra, il dashi e lo yukari, la foglia di shiso usata normalmente nella fermentazione dell’umeboshi e qui essiccata e poi ridotta in polvere. Al termine la pelle di melanzana a guarnire la preparazione e a relegarle ulteriore consistenza.

Le squame soffiate di ricciola vengono servite con una salsa ricavata dalla soia, dal sesamo bianco tostato e poi pestato, dal mirin, ossia un tipo di sake dolce da cucina, e dal miele. Un componimento croccante e decisamente gustoso a cui segue il panino al collo di maiale con cipolla rossa caramellata e dressing di salsa tare, portata che omaggia la perizia di abile “paninaro” di suo padre. La pasta fillo ripiena di polpa di cosce di pollo cotte a bassa temperatura con timo, rosmarino, alloro e carote, poi servita con una salsa barbecue fatta in casa con in aggiunta un pizzico di curry, è davvero un bocconcino delicato e ricco di percezioni gustative per quanto bilanciato, perfettamente tenuto nella sua sfoglia.

Il battuto di ricciola con fragola fermentata, sedano ed acetosella stupisce non soltanto per l’intensità dei sapori ma persino per una sottilissima untuosità, per nulla impattante, nonostante sia composta da un blend di olio alla maggiorana sia fritto che ossidato. A seguire un succulentissimo sgombro waraiaki con emulsione di mare, limone e spinaci: in pratica il pesce viene dapprima marinato in aceto di riso e successivamente cotto con la tecnica giapponese waraiaki, ossia da un fuoco dolce alimentato dal fieno.

In perfetta linea di continuità ed in un crescendo di sapori e profumi, pur sempre bilanciati, ecco la trota salmonata. Appena scottata in padella, viene servita in salsa tom kha gai, lime e lattuga. Passaggi decisamente laboriosi per donare una esperienza decisamente tailandese, molto autentica: la salsa viene aromatizzata con verdure, lime, peperoncino, lemon grass, foglie di limone ed anice che veicolano nel brodo tutti i loro umori, per poi rafforzarli e condensarli con radice di curcuma, curry, latte di cocco e nuove note citriche rinverdite. Risultato? Un velluto per il palato ed un bilanciamento di spezie ed aromi pazzesco.

Lo spaghetto freddo con alghe e zenzero è stato un vero e proprio tuffo nel blu: soffritto di zenzero nel suo olio, sfumatura leggera con aceto di pomodoro home made ed un brodo di sedano, carote, cipolla, porro, funghi e finocchio, eseguito nella pentola a pressione, sono gli elementi caratterizzanti il liquido in cui cuocere la pasta. Si raffredda il tutto a bagnomaria una volta aggiunto altro olio di zenzero, alga nori ed alga wakame in sosta nell’aceto di chardonnay ed una purea di prezzemolo. Di una delicatezza così disarmante e tale da non lasciar sospettare una tale complessità di elaborazione, il piatto è un’immersione sui fondali marini, circondati da ostriche e foreste di alghe. Soprattutto crea dipendenza.

L’esperienza marinara continua con lo scorfano: le carni vengono fatte frollare per una settimana e quindi lasciate macerare per una giornata nell’alga kombu,idratata e tostata al forno. Il pescato viene appena scottato, servito con concentrato di pomodoro, rucola saltata, fagiolini, ravanelli e malto al pomodoro. Una salsa insospettabilmente fatta con lische di pesce tostate e cotte con acqua di pomodoro, filtrata a fine cottura, raffreddata ed emulsionata con succo di lime e olio evo, ha costituito il legante perfetto per imprimere la giusta coralità al piatto.

La mela verde al sorbetto di finocchio e la sua barba croccante, come pre-dessert, è stato un ulteriore elemento di valutazione che non lascia dubbio alcuno sul lavoro metodico di Giuseppe Molaro, svolto per ammansire l’anetolo ed il fenitolo, senza però privare le materie prime del loro autentico gusto. Il rotolo di mela verde è ricavato dalla centrifuga del frutto in osmosi e la comunione col finocchio, oltre che ad essere ben congeniata, è a prova di vino.

Il kinako, caffè e liquirizia è un dessert di tale eleganza, bilanciamento di dolcezza ed aromaticità da mettere in crisi gli amanti del tiramisù, tanto più che non è affatto un tiramisù ma convertirebbe chiunque: preparata una crema namelaka con polvere di fagioli di soia, viene disposta su un crumble al caffè ed adornata di cioccolato fondente, gelato al kinako, gelato alla liquirizia con polvere di caffè e liquirizia. A coronamento di un menu ricco, appagante e complesso il petit-four composto da marshmallows al fleur de bière e fragola, semifreddo al mango e verbena, semifreddo al pistacchio ed il suo croccante ed il mini cocco.

La cucina di Giuseppe Molaro rivela ingegno e passione, è un centro di gravità permanente sugli equilibri di ingredienti inediti nella loro combinazioni e che risultano sempre in perfetta armonia. Col suo cuore mediterraneo e la sua nipponica cura del dettaglio Molaro non è soltanto riuscito ad avvicinare due vulcani, il Vesuvio ed il Monte Fuji, lontani anni luce ma con la sua empatia riesce a trasmettere la matrice più intima della sua idea di ricetta, come in un viaggio condiviso tra sapori, scenari di vita vissuta e stati d’animo. Oggi possiamo ben dire che quando un piatto ha qualcosa da dire lo fa in bocca, lo trasmette alla testa e lo sussurra al cuore, facendo vibrare l’animo dell’assaggiatore.

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