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La genialità di Marcel Proust si riassume probabilmente nel suo più grande insegnamento: i valori più caratterizzanti e genuini dell’umana esistenza sono insiti nella ricerca e nel ritrovamento dell’essenza della vita, mediante un’attenta ed oggettiva analisi del passato rivissuto attraverso la memoria e la capacità di giudizio del presente, la conoscenza e la comprensione dell’opera d’arte, nonché grazie alla sensibilità occorrente ad apprezzare il buono ed il bello che ci circonda e ci ispira.

Il senso dell’olfatto, tutt’oggi il più sottovalutato tra i cinque sensi, è quello che forse incide di più sull’inconscio, il quale elabora e raccoglie un’infinità di informazioni al di là della nostra volontà ed immaginazione. È grazie all’olfatto, tra l’altro il senso più collegato alla vista ed al tatto, che riusciamo a rievocare dalla dimensione inconscia un evento o un’esperienza passata dopo aver sentito un determinato odore e per estensione, potremmo dire, dopo aver percepito un determinato sapore.

La percezione olfattivo-gustativa è la scintilla che innesca la miccia dentro la “Santa Barbara” della memoria e fa brillare il ricordo.

Infatti appena veniamo al mondo siamo subito investiti dagli odori i quali vengono elaborati, catalogati ed immagazzinati, consentendoci di sviluppare la nostra personale memoria olfattiva sulla cui base si crea la nostra scala percettiva, a sua volta fondata sul ricordo di ciò che riusciamo ad annusare: è in questi attimi che si formano le nostre preferenze olfattive e gustative, persino la nostra capacità istintuale di riconoscere le situazioni di pericolo… un processo inconsapevole, inconscio appunto, ma che influenza soggettivamente scelte e comportamenti quotidiani, persino del più esperto sensorialista.

Avere naso per certe cose, piuttosto che sentire puzza di bruciato sono modi di dire che rendono bene l’idea, no?

Tale fenomeno di cognizione sensoriale prende proprio il nome dal celebre scrittore francese e viene appunto chiamato “sindrome di Proust”, in onore a chi per primo ne descrisse puntualmente l’esperienza. Questa sindrome infatti definisce il complesso meccanismo mediante il quale gli odori sono in grado di evocare alla memoria situazioni che abbiamo vissuto all’improvviso e con folgorante chiarezza, esattamente come capitava ad Anton Ego in Ratatouille, attivando così la memoria episodica, grazie anche alla vicinanza del sistema olfattivo all’amigdala ed all’ippocampo, le aree del cervello deputate rispettivamente alle emozioni ed alla memoria appunto.

Capita anche a voi di non ricordare date importanti o ricorrenze particolari ma che le stesse diventino facili da evocare quando vi viene in mente proprio la bottiglia che avete stappato in quella occasione e tutti i profumi che si sprigionano da essa?

Potremmo definirla scherzosamente una sorta di tecnica dei locireloaded”, ovvero di come una persona, magari un amante del vino piuttosto che un appassionato di gastronomia, si reinventa il suo personale palazzo della memoria tanto inconsapevolmente, come sovente capita a tutti, quanto con la pratica della degustazione, la quale rafforza la sinapsi, proprio attraverso il ricordo di ciò che beve ed assaggia. I ricordi e le emozioni vivono di interconnessioni sottilissime ma anche di solidissime intrinsecità, costituite da una fitta rete di esperienze vissute, di informazioni filtrate dentro di noi attraverso l’ambiente, oltre che di frequentazioni: esperienze ed informazioni insomma di cui abbiamo sperimentato combinazioni e variabili.

Quello che riesce a fare il naso è qualcosa di portentoso che ci porta persino ad innescare il meccanismo che è alla base stessa dell’intuizione tanto più che l’ipotalamo, cui il tetto olfattivo è prossimo, contiene l’ipofisi, nota anche come ghiandola pineale o terzo occhio se preferite, ritenuta persino sede dell’animo umano secondo Cartesio, capace di produrre effetti sulla percezione delle cose, dello spazio e del tempo, oltre che deputata a produrre melatonina e dimetiltriptamina

Lo stesso ricordo olfattivo e gustativo ha in sé il potere di materializzare una visione nitida di una scena del nostro lontano passato: il metacronismo di mani che impastano la farina per il pane da cuocersi nei forni delle vecchie case, di piedi che pigiano le uve nei grossi tini nelle cantine, di mestoli di legno che ruotano nella pignatta di terracotta in cui vorticano fumanti pietanze.

Profumi e sapori che si sentono, si vedono e si toccano, affioranti da scene di altri tempi popolate di persone a noi care, persone che abbiamo imparato a sfogliare come libri, perché viene anche più facile conoscersi e riconoscersi a tavola, e di cui abbiamo ascoltato ed accolto i loro ricordi.

Questi ricordi, poi già facilitati dal senso dell’olfatto, che è dunque il senso della memoria, e quindi rafforzati dalle emozioni, riescono persino a fissarsi stabilmente nel nostro “hard disk” grazie ad un buon calice di vino, tanto si potrebbe affermare che coloro che bevono per dimenticare sbagliano approccio: infatti lo studio di un team di ricerca del dipartimento di Chimica, Cibo e Farmacia dell’Università di Reading in Inghilterra ha evidenziato, già qualche decennio fa, come gli acidi organici contenuti nello Champagne possano favorire le prestazioni del cervello, migliorando il ciclo cellulare in prossimità della corteccia cerebrale e l’apprendimento, accrescendo persino lo sviluppo della memoria spaziale; inoltre il resveratrolo, un potente antiossidante contenuto soprattutto nel vino rosso ed erroneamente ritenuto alla base del french paradox, costituisce un validissimo alleato nella prevenzione della perdita di memoria e di patologie come l’Alzheimer.

È forse puro e semplice edonismo il saper riconoscere il valore che si cela dietro un sorso o un morso di territorio vero e di sana convivialità? Rievocare un vino o un piatto significa rievocare profumi, sapori, luoghi del gusto, paesaggi e soprattutto incontri tra persone che condividono con noi passioni, esperienze, idee… quando la bottiglia si svuota c’è qualcosa di invisibile, una mano santa che ci mette dentro una pergamena con la descrizione di attimi indelebili che resteranno per sempre scolpiti nella nostra memoria…

Messaggi fluttuanti nei mari del tempo esistenziale.

Un flusso continuo su cui si innesta il pensiero dell’uomo” non è forse questo che diceva Marcel Proust in riferimento al tempo, elaborando con la sua letteratura il pensiero del filosofo intuizionista Henri Bergson?

Dunque non è lecito sostenere che dalla qualità del tempo che trascorriamo per evolverci e migliorare, di ciò che mangiamo e beviamo, delle persone che frequentiamo, imparando a prestare ascolto, dalla nostra intuizione nel percepire materialmente e spiritualmente il bello ed il buono di tutto ciò che è insito nel nostro personale universo, dipenda la qualità del nostro stesso pensiero, dei nostri ricordi e della capacità di analizzare, il più oggettivamente possibile, il senso della vita e ciò che la vita ci porta ad assaporare?

La vera bellezza non risiede necessariamente nell’oggetto contemplato, sarebbe futile e mal riposta venerazione, ma nell’atto della percezione di ciò che essa rappresenta e rievoca per davvero, fondamentale per l’insegnamento che potremmo trarne e per l’esempio che potrebbe costituire.

Alla base del buon ricordo c’è sempre un pensiero virtuoso a sorreggerlo e l’onestà intellettuale di narrarlo sì con enfasi ma senza deformazioni, tradurlo tal quale così come affiora a chi ha il bene di rammentare ed a chi il piacere di ascoltare e la volontà di comprendere. Ecco perché la pratica intellettuale della degustazione tecnica ha sempre più bisogno di un codice deontologico che favorisca valutazioni nitide e non opinioni, un’onestà intellettuale che sappia imbrigliare la componente emotiva e sensoriale attraverso la ragione e l’oggettività, al fine di evitare di incappare nel gusto personale, nel pregiudizio, nel provincialismo ed in qualsiasi forma di interesse o movente personale che distorca la comunicazione di ciò che è degno di essere trasmesso per ciò che è, poiché quel che è buono e bello in sé non necessita di ulteriori belletti, specie da parte della critica enogastronomica e soprattutto quando non vale la pena di tessere elogi fuorvianti.

Attenzione ai miraggi olfattivi e gustativi, guai alla comunicazione artefatta o alla recensione a tutti i costi, poiché è anche da una critica sincera che ciò che non è ancora buono ha facoltà di diventarlo.

Soltanto dall’esistenza del nostro pensiero dipende, ancora per un po’, la loro sopravvivenza, il bagliore delle lampade che si sono spente, il profumo delle pergole che non fioriranno più…” e dei profumi e dei sapori della tradizione enogastronomica che, per sopravvivere alla contraffazione industriale ed alla sopraffazione della globalizzazione, hanno bisogno essere ricordati e narrati per ciò di cui davvero sanno, per ciò che davvero li rende autentici.

Non si riesce dunque a far meno di pensare che il pensiero proustiano abbia anche in sé il concetto di kalokagathia, un concetto di cui l’assaggiatore dovrà tener conto se vorrà essere un valutatore scrupoloso, un comunicatore leale ed un testimone fedele di ciò che effettivamente è bello, è buono ed è anche giusto, poiché il suo responso altro non deve essere che un flusso di coscienza, di pensiero ed emozioni coordinati dall’oggettività, affinata col tempo, col metodo e con l’esperienza.

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