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Negli ultimi anni le segnalazioni di bambini che presentano difficoltà negli apprendimenti hanno avuto un notevole incremento. I disturbi specifici di apprendimento (DSA) vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti in test standardizzati su lettura, scrittura e calcolo, risultano inferiori a quanto previsto in base a età del soggetto, grado di istruzione e livello di intelligenza.

Nella macroarea dei DSA rientrano la dislessia, difficoltà nella lettura, la disgrafia, difficoltà nella realizzazione grafica, la disortografia, difficoltà della transcodifica scrittoria, la discalculia, difficoltà nel calcolo e nell’elaborazione dei numeri. La principale caratteristica di queste “categorie nosografiche” è la specificità, nel senso che la difficoltà interessa uno specifico dominio di abilità in modo significativo ma circoscritto, senza compromettere il funzionamento intellettivo generale.

Per questo motivo il criterio necessario per stabilire la diagnosi di DSA è quello della “discrepanza” tra abilità nel dominio specifico interessato (che risulterà deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata) e l’intelligenza generale (che sarà adeguata per l’età cronologica).

L’ approccio pedagogico non vede lo scolaro il cui sviluppo è aggravato da una difficoltà di apprendimento, come un bambino meno sviluppato, ma – come afferma Vygotskij – un bambino che si è sviluppato in maniera diversa, il cui processo evolutivo va osservato dal punto di vista qualitativo e non quantitativo.

Vygotskij (1930) denigrava ogni diagnosi nosografica in quanto per lui si trattava solo di “elenchi” frutto di una vecchia impostazione di tipo esclusivamente quantitativo. Le idee di Vygotskij sono profondamente educative e vanno nella direzione di un’integrazione globale fondata sull’ottimismo pedagogico, anticipando le indicazioni proposte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, tramite l’International Classification of Functioning (ICF): “L’unico principio rimane il superamento o la compensazione dei deficit corrispondenti e la pedagogia deve orientarsi non tanto sull’insufficienza e sulla malattia, quanto sulla normalità e sulla salute rimaste intatte nel bambino”.

Per Vygotskij, dunque, oggetto di analisi e di intervento non è il deficit, ma quanto l’individuo fa al fine di superarlo.

Definire una persona con una etichetta diagnostica comporta che essa si identifichi con quella diagnosi, l’ambiente chieda sempre meno in termini di impegno e l’individuo si adagi pensando di non avere strumenti validi per trovare soluzioni efficaci alla sua difficoltà.

La scuola per prima si è uniformata all’opinione comune che i bambini in difficoltà sono dei “diversi”, attuando una spesso involontaria discriminazione tra alunni capaci ed alunni incapaci. Oltre a ciò, la pratica sempre più diffusa nelle scuole di attivare screening, parlare di fattori di rischio e di diagnosi, stanno portando ad una crescente frettolosità ad etichettare le difficoltà di alcuni bambini come “disturbi”, senza indagare a fondo su quali siano i contesti in cui i bambini sono inseriti.

La scuola e la sanità, conformate al sistema quantitativo e classificatorio, si adattano all’opinione comune di malattia e disturbo, il suffisso Dis- è utilizzato per identificare il deficit e la terapia trova spazio all’interno degli istituti scolastici che predispongono così appositi PDP (Piani Didattici Personalizzati). Fino a quando la scuola resterà ancorata a queste etichette vedrà in quei bambini o ragazzi solo le carenze e i limiti, e mai le risorse e le potenzialità, vere promotrici di una pedagogia positiva e capace di organizzare una scuola che si interessi alle persone più che ai loro deficit.

La medicalizzazione eccessiva messa in atto negli ultimi decenni ha deresponsabilizzato molti adulti, in primis gli insegnanti, dalle loro funzioni educative, indispensabili per una crescita armonica dei bambini.

Affinché si verifichi un adeguato processo di crescita è indispensabile che ogni aspetto dello sviluppo cognitivo sia sostenuto da un’adeguata maturità affettiva. Lo sviluppo è la risultante dell’interazione costante tra più fattori e l’adulto è parte integrante del processo di apprendimento del bambino.

Sapere che un bambino è intelligente, conoscere la sua modalità di lettura o scrittura, è solo una parte di un fenomeno molto più complesso che deve tenere conto anche del modo in cui il bambino attualizza le proprie capacità conoscitive, dei suoi comportamenti e dei vari contesti in cui egli si trova ad apprendere. L’attenzione all’istruzione – dal latino “instruere”, accatastare, inserire contenuti per l’intelletto – spesso predomina sull’educazione – “educere”, tirare fuori – che si riferisce a tutta la persona. Entrambe sono funzioni dell’insegnamento, e devono seguire un processo coerente di armonizzazione. Presupposto indispensabile per offrire opportunità di crescita è conoscere il bambino e il suo sviluppo.

Ci sono bambini che ancor prima di raggiungere un’età in cui lo sviluppo di tutte le abilità dovrebbe essere compiuto, hanno già raggiunto una loro piena abilità negli apprendimenti ed equilibri nei comportamenti. Ma ci sono anche bambini che non hanno ancora raggiunto quella maturazione per la quale invece gli occorrono dei tempi diversi necessari alla conquista degli stessi obiettivi. Per comprendere le difficoltà di apprendimento, soprattutto di quei bambini che manifestano demotivazione, scarsa applicazione, che non riescono a reggere i tempi della scuola, tempi spesso decisi sulla base delle esigenze degli adulti più che su quelle dei bambini, risulta quindi importante osservare gli alunni nella loro globalità.

La complessità dei processi di apprendimento rimanda all’importanza di un’osservazione globale perché permette di verificare la correlazione tra deficit di natura cognitiva e carenze di natura affettiva, utili per poter progettare un intervento su misura per ogni bambino. La pedagogia non si affida a diagnosi etichettanti, ma chiede una attenta e complessa analisi per procedere con strategie di aiuto che tengano conto di tutte le particolarità individuali.

Tornando alla complessità dei processi di apprendimento, dobbiamo considerare la crescita come un processo di strutturazione di competenze che seguono una cronologia dello sviluppo, per cui non ci può essere una adeguata acquisizione di strategie successive se non sono state acquisite ed interiorizzate quelle precedenti.

Le inadeguatezze ad apprendere possono inficiare l’autostima e la motivazione nei bambini. Un approccio di tipo pedagogico offrirà quindi l’opportunità di sperimentare le proprie capacità imparando gradualmente a tollerare la frustrazione data dagli insuccessi, senza però andare incontro al senso di impotenza e fallimento.

E’ nel tollerare la frustrazione che si costituisce la premessa fondamentale per lo sviluppo di un’autonomia mentale che aiuterà il bambino a sapersi confrontare con le difficoltà legate al processo di apprendimento. Così, l’aiuto per soddisfare le necessità dell’allievo, deve essere improntato alla raccolta di ogni espressività e disponibilità del bambino in un clima di serenità e fiducia.

Bibliografia

  • L. D’Alonzo, V. Mariani, G. Zampieri, S. Maggiolini (a cura di) La consulenza pedagogica. Pedagogisti in azione, Roma, Armando Editore, 2012
  • M. Di Renzo, F. Bianchi di Castelbianco (a cura di), Le dislessie. Conoscere la complessità per non medicalizzare, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.gi, 2013
  • G. Pesci, Teoria e pratica della psicomotricità funzionale. A scuola con Jean Le Boulch, Roma, Armando Editore, 2012
  • S. Pesci, V. Benoni Degli’Innocenti, G. Pesci, Disturbi Specifici di Apprendimento: un aiuto concreto, in Nuovi Orizzonti, Periodico semestrale anno IV n. 8 luglio-dicembre 2012.

1 thought on “L’approccio pedagogico in risposta ai disturbi specifici dell’apprendimento. L’educazione che cura

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