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Non solo la fama, ma anche il vero significato della filosofia vive in tutto ciò che essa non ha ancora raggiunto.” Georg Simmel

Se penso al socratico so di non sapere penso da un lato al limite che esso pone a ciò che sappiamo nel momento stesso in cui abbracciamo questa consapevolezza, e dall’altro alla condizione esistenziale che esso genera permettendoci di infrangere quello stesso limite, o meglio, di spostarlo sempre oltre, oltre la prospettiva da cui nel “qui ed ora” guardiamo a quel limite.
Un confine, quello tra ciò che si sa e ciò che non si sa (ma anche, ad esempio, tra ciò che si crede di essere e ciò che non si sa di essere) che viene annunciato per essere infranto.

La filosofia ci insegna che il pensiero non ha limiti, che il pensare riconosce i confini solo per allargarli fino a farli svanire. Non ci dice di ignorarli. Anzi. Ci invita a tenerli ben presenti, a saperli riconoscere nello spazio in cui prendono forma le idee, quello spazio in cui i nostri pensieri si mescolano a quelli dell’Altro. Ci costringe a diventare responsabili tanto delle nostre idee quanto di quelle degli altri, a farcene carico in un certo senso, perché è nel dialogo che quella forma che diamo alle nostre idee allarga i confini e ridisegna il limite, lo sposta oltre, lo prepara ad una nuova sfida, e così facendo ne misura anche le resistenze.

La filosofia si pone dunque come antidoto alla immobilità del limite e ai confini che diventano barriere, recinti di apparente serenità. E lo fa agendo su due equivoci: quello relativo alla filosofia stessa intesa come esercizio del pensiero astratto e fine a se stesso, e quello del concetto di semplicità nel suo rapporto con i confini. Occorre infatti distinguere la filosofia “accademica”, quella cioè che si insegna nelle scuole e nelle università, e che per buona parte coincide con lo studio dei filosofi e delle correnti di pensiero, dalla filosofia pratica ovvero quell’atteggiamento, quella predisposizione mentale, razionale ed emotiva al tempo stesso, ad interrogarci su noi stessi e sul mondo che ci circonda, quel desiderio di guardare alle cose da una prospettiva insolita, ponendosi idealmente proprio al di fuori di quei recinti che sembrano dirci: “Ecco, questo è il limite entro cui potrai vivere senza timore del nuovo, senza conflitti col diverso, senza l’angoscia della scelta”.

La filosofia, che pone e ci pone domande, ma che non fornisce risposte (definitive e rassicuranti), e che troppo spesso per questa ragione è stata etichettata come il luogo della complicazione (complici i termini ricercati dei narcisisti delle parole), ad una più attenta analisi si rivela il simbolo della dissoluzione di quei confini artificiali che noi stessi creiamo, cullati dall’illusione che semplificare equivalga a rassicurare. Ma una semplificazione che impoverisce, che riduce o addirittura annulla le possibilità, che mortifica l’imprevisto, che nasconde le sfumature solo perché non ne conosce i nomi, ha poco a che fare con la chiarezza e molto con la banalizzazione. La semplificazione che invece appartiene alla filosofia è resa perfettamente dall’immagine di un bambino che incontra per la prima volta un pezzetto di mondo e cerca di comprenderne il significato. Un semplice gesto come quello di stupirsi di ciò che normalmente passa inosservato, un atteggiamento di reale e sana curiosità nei confronti di quello che ci circonda è il primo necessario passo verso l’approfondimento e la consapevolezza. Un percorso, questo, mai scontato, fatto di momenti articolati e impegnativi, ma che possono restituirci una nuova visione di noi stessi e del nostro essere nel mondo. E’ proprio in questo percorso di scoperta e superamento del limite che ci accorgiamo che la filosofia non è soltanto il luogo della razionalità ma anche dell’emotività, perché, come ci suggerisce Julio Cabrera “per far proprio un pensiero filosofico non basta capirlo, ma bisogna viverlo, sentirlo su di sé, drammatizzarlo”. Il bambino che guarda per la prima volta le foglie che in autunno cadono dagli alberi, la neve o l’arcobaleno dopo un temporale, e l’adulto che guarda quello stesso pezzetto di mondo visto tante volte ma con occhi nuovi, con uno sguardo “sospeso”, hanno in comune l’assenza di confini artificiali, mentali e, perché no, anche fisici. Essi sono accomunati da uno sguardo libero dal “già dato”, uno sguardo che nasce dallo stupore, puro nel caso del bambino, ritrovato nel caso dell’adulto. “L’emotività, infatti, non scaccia la razionalità ma la ridefinisce”, ci dice ancora Cabrera. L’interesse a superare i nostri limiti, a non restare nei confini che a volte ci costruiamo da soli per il timore di non essere all’altezza delle aspettative degli altri, non può che venire da un sentire che ci chiama, che ci dice che quei confini sono diventati troppo stretti per noi, che i nostri pensieri hanno bisogno di più spazio, che quella semplificazione che sta nel nostro recinto non sta portando comprensione al senso che diamo alla nostra vita, ma la sta invece impoverendo.
Ed è allora che realizziamo che le foglie che cadono dall’albero del nostro pezzetto di mondo potrebbero rappresentare solo una piccola parte di tutte le foglie di tutti gli alberi di tutti i possibili mondi che esistono oltre quel recinto, oltre quel limite, oltre il confine che ci siamo costruiti o in cui ci siamo ritrovati quando abbiamo smesso di farci domande sul nostro esser-ci, che si è così trasformato in uno stare.

E’, questa, la filosofia che ha come fine la cura di sé.
E’, questa, la filosofia patica (come la definisce Cabrera) che ognuno di noi può scegliere di adottare per rendere liquidi i propri confini e invitare l’Altro ad abitare nuovi spazi senza il timore di perdere la propria identità, poiché questa si può costruire solo attraverso lo scambio e l’apertura che sospendono il giudizio.
E’, questa, la filosofia pratica che si riappropria del suo compito originario, ovvero la cura dell’animo umano (Psiche per i greci), che è poi il presupposto di ogni altro tipo di cura, e lo fa attraverso il dialogo, l’esame accurato dei significati che diamo alla nostra visione del mondo (Weltanschauung), l’esercizio critico del pensiero, la restituzione di un valore al nostro sentire.
E’, questo, il compito della consulenza filosofica, quella filosofia pratica, o sarebbe meglio dire quella pratica filosofica che, a dispetto del suo nome “nuovo”, non fa altro che restituire alla filosofia e al filosofare il suo compito originario, ossia occuparsi del ben-essere dell’individuo, senza adottare categorie psicologiche, poiché centrale nella visione filosofica è l’unicità della persona e la conseguente impossibilità di applicare un metodo che sottintenda “categorie di problemi”. Il dialogo che si costruisce e prende vita all’interno di quella relazione d’aiuto che è la pratica della consulenza filosofica sfugge alle oggettivazioni della mente, è una esperienza che può essere definita solo una volta conclusasi, restando comunque unica, non assimilabile ad una casistica che potrebbe affascinare per l’illusione del controllo. Sarebbe ingenuo però pensare che l’assenza di un metodo prestabilito equivalga ad un limite (restando in tema) di questa pratica filosofica. Il metodo della consulenza filosofica è un metodo con la “m” minuscola, un metodo che non ha confini, che viene ripensato di volta in volta perchè costruito nella relazione che si istaura tra consulente e cliente (due termini che subiscono anch’essi i limiti del linguaggio, ma che hanno allo stesso tempo l’urgenza di “essere detti”) nel rispetto dell’irripetibilità della persona e dunque anche della storia che porta con sé e del modo in cui questa storia si intreccia con quella del consulente.

Alla luce di questo sarebbe utile e interessante ripensare anche quella particolare urgenza di porre confini tra psicologia e filosofia, urgenza che spesso rivela più un bisogno degli addetti ai lavori di limitarsi reciprocamente che un reale desiderio di comprensione delle rispettive identità. Ma la filosofia pratica sa che in questo tipo di urgenza entrano in gioco le persone e, oltre tutti i confini, naturali, artificiali, reali o anche solo immaginati, sa anche che la varietà del genere umano continuerà comunque a sorprenderci. Filosoficamente parlando, si intende.

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