«Tutte le battaglie hanno le loro vittime. Quella delle donne continua a causarne molto più numerose e dolorose di quanto si immagini perché sono le vittime senza voce della più radicale e silenziosa rivoluzione nella storia del genere umano.» Così’, Vittorio Segre nell’articolo “Il mondo, un inferno rosa” che, firmato per La Voce nel 1994, riprende il supplemento de La Stampa dedicato alla donna nell’ottobre dello stesso anno.
E’ una galleria di personaggi del mondo della scienza, della religione, della politica, della cultura, dello sport e dell’avventura. Nel 1901 una donna – Else von Richtofen – poté diventare medico in Germania e solo nel 1905 un’altra donna – Bertha Sutter, austriaca – fu ritenuta degna di ricevere il premio nobel. Perché una donna potesse diventare ministro nel Canada si dovette attendere il 1921. Stesso anno in cui la scrittrice Edith Wharton fu la prima donna nella storia a vincere il premio Pulitzer con L’età dell’innocenza.
Grazia Deledda è stata l’unica donna italiana a vincere nel 1926 il Premio Nobel per la letteratura. Premio che, ricorda Gianmarco Murru direttore del mensile mediterraneaonline.eu nel numero monografico interamente dedicato alla scrittrice, “arriva a coronare una carriera lunghissima e costante nel tempo, con una produzione sterminata: oltre 30 romanzi, più di 400 racconti, opere teatrali e poesie, novelle, fiabe e produzione giornalistica.”
«Più che problemi della Sardegna», scrive Licia Roncarati ne L’arte di Grazia Deledda «essa volle esprimere problemi eminentemente umani, più che pittrice d’ambiente essa volle essere poetessa di quel travaglio morale che non ha confini ma è di tutti gli uomini. Dalla Sardegna essa attinse situazioni, spunti, figure, però non volle fare della rappresentazione di queste situazioni e figure il primo oggetto della sua arte, ma valersene semmai come dei mezzi più sicuramente in suo possesso per rendere il particolare l’universale , vale a dire quella grave visione morale che stava alla base della sua ispiratrice di scrittrice. Essa fece dei paesetti sardi il teatro di drammi che sono d’ogni paese; dei pastori e dei principali sardi i protagonisti di quel travaglio interiore che è di tutti gli uomini e a quei drammi e a questo travaglio si tese principalmente la sua attenzione, cosicché non è a meravigliarsi che essa non si sia preoccupata di una rappresentazione più geograficamente esatta degli sfondi, e più vicina anche da un punto di vista psicologico ed etnico al popolo sardo.»
L’arte della Deledda è più che mai aderente alla vita contemporanea per la sua scarsa fiducia nelle energie morali dell’uomo che sembra declinare quasi ad un fatalismo rassegnato.
Nel romanzo “Elias Portolu”, la scrittrice tratteggia la disperazione di un pastore che, dopo aver scontato ingiustamente alcuni anni di carcere, ritorna in famiglia innamorandosi della fidanzata di suo fratello. Elias, appena ventitreenne, ritrova nella sua terra sarda la religione, ma avviluppato dalla ribellione che innesta radici profonde nella sua anima tormentata per l’amore provato per Maddalena. Tentato di portarla via a suo fratello “gli sembrava di essere diventato un ladro”.
Per Deledda la tentazione non è soltanto la provocazione dei sensi , ma la prova dell’anima: il fatto decisivo. La tentazione: il peccato sensuale o il delitto.
Elias non trova in se la forza di liberarsene neanche nella confessione, pur venendo ricambiato da Maddalena che non ama un marito violento. Per Umberto Panozzo, autore dell’Antologia “Belle Lettere”, il dialogo di stampo sardo porta la semplicità di un mondo isolato e lontano. E questo sembra il modo più adatto per rappresentare la lotta primordiale ed eterna che si combatte nell’anima del protagonista tra il bene e il peccato.
Per comprendere il motivo del romanzo come rappresentazione della coscienza di Elias nel quale si confondono tentazione, terrore del peccato desiderio del bene e abbandono del male, l’antologia del Panozzo suggerisce quanto recensisce il Momigliano: «La sua forza è nella misura con cui questi sentimenti sono fusi, nella verità con cui essi informano le vicende semplici del racconto, nella lucida e dolorosa coscienza con cui la scrittrice segue questa battaglia morale. Forse è questo» aggiunge Momigliano, «il libro di più alta e insieme solida moralità che sia stato scritto in Italia, dopo i Promessi Sposi: è quello che rispecchia meglio la severa e religiosa intelligenza della vita che ha la Deledda.» Per la scrittrice, la tentazione è il fatto decisivo.
Risorse bibliografiche citate
- L. Roncarati: “L’arte di Grazia Dledda”, Messina-Firenze, 1949
- A. Momigliano: “Storia della letteratura italiana”, Milano, 1934
- U. Panozzo: “Storia della letteratura italiana”, Torino, 1967
- Paolo Collo, Frediano Sessi: “Dizionario della tolleranza”, Milano, 1995
- Edith Wharton: “Anime attardate”, “La tragedia della musa”, Racconti d’autore, Il Sole 24 Ore, 2012
- Grazia Deledda: “Elias Portolu”,La nuova antologia, Firenze, 1900
- Mario Pazzaglia: “L’ottocento”, “Il novecento”, Bologna 1992
- Giovanni Scirocco: “Segre, Vittorio Dan”, Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 91 (2018) [treccani.it]