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Cristina Delunas & Carla Cossu

I romanzi della Deledda sono ricchi di nomi botanici. Una botanica che spesso è riferita a leggende, superstizioni, riti magici e propiziatori. Uno fra tutti, il rito della festa di San Giovanni, non solo trova più volte riferimenti, ma è l’incipit dell’intero romanzo Cenere del 1904.

“Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamoiada, e s’avviò pei campi”. Il rito, complice di Olì in una notte d’amore, condannerà la protagonista al suo triste destino. L’interazione dell’uomo con la Natura diventa, per la scrittrice, espressione religiosa mista di sapere popolare, di folklore e superstizioni che ancora oggi si perpetuano in una lunga notte d’estate.  

In Cenere il lettore è proiettato nei campi, tra Nuoro e Mamoiada, nella notte estiva del 23 giugno dedicata a S. Giovanni. È in quella notte che i fiori acquistano virtù soprannaturali e magiche i cui segreti si tramandano da generazioni nella storia millenaria del popolo sardo

Tra il 23 e il 24 giugno ricadono i festeggiamenti di San Giovanni Battista, una delle feste più affascinanti e sentite in tutta la Sardegna che trova radici profonde nei riti pagani del solstizio d’estate. I rituali che la caratterizzano sono affidati alla tradizione orale. Grazia Deledda mise nero su bianco non solo gli ambienti naturali, ma soprattutto le specie vegetali legate all’antica tradizione.

Il rito, oggi come allora, inizia nei campi con la ricerca delle erbe spontanee che in quella notte e solo in quella acquistano poteri magici e terapeutici. Una volta individuate sono segnate con nastrini colorati annodati agli steli. Poi, tra la mezzanotte del 23 e l’alba del 24 giugno, si raccolgono per la preparazione di medicine, per l’acqua de is froris o acqua dei fiori, una sorta di acqua benedetta, i falò, ma soprattutto per confezionare amuleti. Lo sa bene Olì, protagonista del romanzo Cenere “… Olì uscì… fra le dita…recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo, da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali e amuleti”.

Il verbasco, Verbascum L., detto trovòdda era noto sin dal Medioevo come Lumino delle streghe perché associato a pratiche magiche. Si racconta che, con la sua peluria, le streghe fabbricassero gli stoppini per le candele da usare nei loro riti. In Sardegna sono presenti 10 specie appartenenti al genere Verbascum, tra queste la specie endemica sardo-corsa, Verbascum conocarpum Moris detta verbasco di Sardegna e il Verbascum thapsus L.  o tasso barbasso, il più conosciuto. Si presenta come una pianta erbacea, ricoperta da una fitta peluria costituita da peli stellati rigidi. Alla base del fusto, eretto e semplice, si dipartono le foglie basali più o meno picciolate, riunite in una rosetta, con lamina fogliare ovale, mentre superiormente sono inserite le foglie senza picciolo. I fiori gialli, riuniti in infiorescenze, sono raccolti il 23 giugno, per preparare amuleti portafortuna contro il malocchio e le disgrazie. “… gli mise intorno al collo una catenella dalla quale pendeva un sacchettino di broccato verde, fortemente cucito… cosa c’è dentro? Chiese il bimbo, palpando il sacchettino. Una ricetta che ti porterà fortuna…”.

Fiori di Verbasco

Gli amuleti, detti retzèttas, sono sacchetti di stoffa lunghi circa 10 cm contenenti verbasco, valeriana ed erbe varie segnate nella notte della vigilia di San Giovanni, oltre a chicchi di sale e pietruzze. Tutte le specie di verbasco erano usate allo stesso modo.

Nella medicina popolare le foglie e i fiori di verbasco, raccolti la notte di San Giovanni, possono usarsi durante l’anno, in infuso, per curare la tosse e in decotto per i disturbi dello stomaco, mentre l’impasto delle foglie con il latte è utilizzato per curare i geloni e le dermatiti.

Il timo selvatico, Tymu vulgaris L. detto armidda è conosciuto come pianta magica sin dall’antichità. Gli Egizi lo usavano per le imbalsamazioni. I Romani ne facevano largo uso nelle battaglie perché ritenevano che infondesse loro forza e coraggio. I Greci lo bruciavano come incenso nei templi per purificarli. Il timo era conosciuto anche come erba delle Fate e, come l’incenso, non poteva mancare nei riti purificatori e di guarigione. In Sardegna sono presenti diverse specie tra le quali il Thymus herba-barona Loisel, endemismo sardo-corso, sempreverde dal portamento arbustivo, molto aromatico, munito di piccole foglie opposte, lineari, e ricche di ghiandole oleifere. I suoi piccoli fiori rosati sono inseriti nell’attaccatura delle foglie. Nella tradizione sarda il timo, raccolto la vigilia di San Giovanni, era usato a scopo magico per confezionare amuleti, sas pungas, contro la paura, la malasorte, il malocchio e per infondere coraggio. Posto sotto il cuscino facilitava il sonno, allontanava gli incubi e la malinconia. A scopo curativo veniva conservato tutto il resto dell’anno per sfruttarne le numerose proprietà medicinali. È usato anche oggi per curare la tosse, il mal di gola, il mal di testa e come calmante. I bagni a base di timo sono usati come rilassante e per combattere l’insonnia.

Fiori di Timo selvatico

L’asfodelo, Asphodelus L., detto iscraria, comprende diverse specie erbacee accomunate dal lungo stelo fiorale, molto ramificato, usato per realizzare sgabelli e sedie. Con le radici tuberose e fusiformi, si preparavano medicinali. Le sue lunghe foglie basali si utilizzavano per realizzare cestini, stuoie e fondi di sedia. I fiori bianchi a forma di stella, nervati di rosso-bruno, si usavano in forma di decotto per calmare la tosse e la bronchite. Tutta la pianta è considerata magica nell’allontanare il malocchio e gli spiriti cattivi. Con le altre erbe di San Giovanni alimenta tutt’oggi i falò della festa. I pastori lo consideravano benefico per curare le malattie degli animali. Era anche conosciuta come pianta dei morti, in quanto il suo tubero e i suoi fiori, usati per curarsi e nutrirsi in vita, si pensava potessero essere utili ai defunti nella vita dell’aldilà.

L’alloro, Laurus nobilis L., è più volte citato dalla Deledda come pianta speciale nel risolvere i problemi della vita rurale. “… L’alloro colto stanotte serve per medicina e per tante altre cose: se, per esempio, tu spargi le foglie di quest’alloro qua e là sui muri intorno ad una vigna o un ovile, gli animali rapaci non potranno penetrarvi, né rosicchiar l’uva, né rapire gli agnelli…”. È un sempreverde aromatico con portamento da arbustivo ad arboreo, tipica della macchia mediterranea. Conosciuto sin dall’antichità per le sue molteplici proprietà medicinali e magiche. Sin dal passato era considerata una pianta nobile, simbolo della gloria terrestre. Condottieri, eroi, imperatori, scrittori e artisti ricevevano un ramo d’alloro o una corona intrecciata dei suoi rami in segno di vittoria, forza e fama. Nella medicina popolare le foglie e i frutti maturi, contenenti olio essenziale, conferivano all’alloro proprietà aperitive, digestive, antispastiche e antinfiammatorie. Il profumo dei rami di alloro, raccolti per San Giovanni e appesi dietro la porta di casa o alle finestre, allontanava ogni tipo di avversità.

Anche la menta, nelle varie specie, soprattutto la menta puleggio, Menthapulegium L., è fra le specie del 24 giugno “… sedettero sull’erba ancora tiepida, accanto ad un fascio di puleggio e di alloro selvatico che esalava un forte profumo…” Si tratta di una pianta erbacea, dal fusto eretto e ramoso, ricoperto da una fitta peluria, le cui piccole foglie, lineari e lanceolate, sono ricoperte da peli ghiandolari, ricchi di olio essenziale, responsabili del caratteristico odore molto forte. I fiori, rosa-lilla, formano infiorescenze più o meno sferiche. Sia i fiori, sia le foglie si usavano a scopo magico nella preparazione degli amuleti portafortuna, mentre mazzetti di menta venivano appesi in casa per tenere lontana la malasorte. Nella medicina popolare il decotto delle foglie era usato per facilitare la digestione, per l’alitosi e per disinfettare la bocca. Per il suo odore intenso si usava per allontanare le pulci.

La leggenda narra che l’incontro tra due innamorati nella notte di San Giovanni li legherà per sempre. Un legame sventurato quello di Olì e Anani che segnerà il destino di lei fino alla morte…
Non solo le questioni di cuore sono legate al rito, ma anche l’onore, l’onore sacro, quello delle genti sarde. I patti, più forti di qualsiasi rapporto di parentela, fra compari e amici venivano suggellati nella notte dedicata al Santo intorno ai falò.  Il valore del patto è perfettamente descritto nel romanzo Marianna Sirca del 1915. “Ricordati che ci siamo giurati fede la notte di San Giovanni; e il compare di San Giovanni, quale io sono per te e tu per me, è più che la sposa, più che l’amante, più che il fratello, più ancora del figlio. Non c’è che il padre e la madre a superarlo”. Per questo vengo con te, oggi, anche contro la mia coscienza e con pericolo di vita”.

I riti magici legati alle piante fanno più volte da sfondo dei racconti di Grazia Deledda. Uno sfondo permeato dalla natura e dalla flora che la scrittrice descrisse con un’attenzione da autentica naturalista. L’amore per una Sardegna aspra e selvaggia la portarono a narrare le piante e i fiori della sua terra impregnando di colori e aromi la vita dei personaggi e gli ambienti in cui si snodano le loro storie. La testimonianza di Grazia Deledda sulla conoscenza a gli usi antichi del nostro patrimonio floristico può essere oggi più che mai spunto di conservazione del patrimonio ancestrale legato indissolubilmente alla Natura del territorio. Una Natura martoriata dagli incendi che ogni anno porta alla perdita importante di biodiversità.

“Anania palpò a lungo, con tutte e due le mani, quella cenere nera che forse era l’avanzo di qualche ricordo d’amore di sua madre; quella cenere che aveva posato lungamente sul petto, sentendone i palpiti più profondi”. Così come Anania tocca la cenere del suo amuleto sentendo l’amore della sua mamma, rileggere i romanzi di Grazie Deledda diventa un modo di riscoprire la nostra Terra, di innamoraci di questa grande Madre che dalla sua cenere può continuare a vivere.

Foto C. Cossu

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