Il pane - Antonio Ballero
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Nel 1927 Grazia Deledda ritira il premio Nobel per la letteratura (nel 1926 non venne assegnato e, da statuto del Nobel, il premio venne riservato. Grazia, quindi, ricevette il premio del 1926 un anno dopo). Unica donna italiana, a tutt’oggi, e seconda a livello mondiale dopo Selma Lagerlöf. La motivazione: “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi

Sebbene la sua prolifica produzione letteraria abbia, in effetti, incessantemente parlato dell’animo umano, del riscatto e delle difficoltà della vita, soprattutto nell’Isola, c’è un aspetto della sua narrazione che emerge meno, quando si parla dei suoi lavori. Nelle storie di Grazia Deledda, nei racconti soprattutto, ma un po’ in tutta l’opera, si respira un’aria quasi gotica, un velo nero e soprannaturale che ammanta storie di uomini e donne strettamente legati al mistero, al fantastico.

con quegli urli infernali, nella fonda oscurità della cameretta solitaria, le era assolutamente impossibile nonché riprender sonno, calmarsi.

Temeva tutti i fantasmi immaginabili: la morte, i vampiri, il padre dei venti, le fate nere e l’orco, tutti… tutti…

Si apre così il racconto “Di notte”, con una bimba che affronta l’ignoto e scopre che le paure possono avere fondamento e che i vampiri esistono, anche in forma umana. Infatti, uno dei personaggi viene in qualche modo sedotto e distolto dalle sue intenzioni, tramite una sorta di malìa, che non riuscirà a sciogliere. Questo legame lo allontanerà dai suoi veri affetti, finché non si scontrerà con la legge della vendetta, rischiando di perdere tutto. In questo racconto, contenuto nella raccolta “Racconti sardi” del 1894, si respira tutta l’esperienza del fantastico che si mescola alla realtà delle pulsioni umane, crudeli, assolute. I temi dell’amore e dell’intangibile si fondono così bene che è difficile distinguere cosa sia reale e possibile, e cosa non lo sia.

Temporali, lunghe nevicate, vento che ulula di notte. Forestieri soli in mulattiere che non portano in nessun luogo, malìe, pozioni, fantasmi, morti improvvise, maledizioni.

Grazia Deledda ha tutte le caratteristiche per chi ama le storie più nere, per chi ama il genere fantastico, forse anche un po’ horror.

La Sardegna è descritta non solo attraverso la sua natura incostante e spesso inclemente, ma anche grazie alla moltitudine di riti, credenze, superstizioni che fondano le radici nella notte dei tempi e che facevano parte della quotidianità di chi abitava l’isola. I racconti di Grazia Deledda non sono solo trasposizioni della sua immaginazione; attraverso le storie ascoltate attorno a lei, dai servi, dai parenti, da chi le sta intorno e che lei registra con meticolosa perizia, Grazia fa un lavoro quasi etnografico, descrivendo tradizioni e usi di un popolo che era, e in qualche modo è ancora, unico e fortemente legato alle sue radici pagane che, per forza di cose, si sono unite a quelle religiose. Una Sardegna descritta in chiave gotica, dove donne sole vagano la notte, come fantasmi, dove la vendetta si serve più che fredda, ma si serve; una terra in cui i sogni rivelano tesori nascosti, e se mancano solo i leprecauni di sicuro non mancano le monete occultate sotto terra. Il vento ulula come nella brughiera delle sorelle Brontë, la neve è capace di cadere per giorni, costringendo le persone a raccogliersi intorno al fuoco e ascoltare i racconti di chi ha vissuto esperienze al limite del credibile. I bambini osservano il mondo adulto con attenzione, paura e sgomento.

Sebbene sia conosciuta per i temi legati al destino degli esseri umani, ineluttabile a volte, per il suo essere inserita nella corrente del verismo – salvo poi escluderla e ammettere che faccia corrente a sé – acclamata grazie al Nobel, Grazia Deledda resta meno citata per quanto riguarda la sua vena gotica. Eppure, soprattutto nei racconti orali raccolti dalle persone a lei vicine, la natura fantastica è palpabile e penetra così a fondo nella vita di tutti i giorni che quasi si può dire ne costituisca l’ossatura. Il folklore non fa più solo da sfondo, ma intesse la trama della vita vera.

I personaggi che popolano le storie di Grazia Deledda sono espressione di questo mondo che mescola il fantastico con il reale, si trovano in un bivio della loro vita, fra bene e male, fra la scelta giusta e quella che potrebbe portarli pericolosamente a perdere la loro anima. Sono novelle spesso ambientate d’inverno, durante nevicate epiche, sotto il vento e la pioggia incessante. I protagonisti e le protagoniste si avvalgono dell’aiuto di forze misteriose e intangibili, attingendo a tutto l’immaginario della superstizione contadina, di una Nùoro che tende ad essere cittadina ma vive e si nutre della sua tradizione più agreste.

Anche i più forti, anche coloro che pensano di essere immuni dal potere dell’irreale, prima o poi si ricredono, come il protagonista della novella “Il mago” che un po’ per gioco, un po’seriamente, segue le indicazioni di un uomo che si dice capace di sciogliere una maledizione. Convinto che il rito di scioglimento sia tutta una farsa e che un fucile scarico non possa sparare, lo punta contro il mago e lo uccide involontariamente.

Sempre incredulo in fatto di magie, il forte pastore dai grandi occhi ardenti non seppe mai spiegarsi come la pietra avesse parlato, come i ceri eransi spenti e come il fucile aveva fatto fuoco.

Nel racconto “La potenza malefica” una bambina – forse la stessa Grazia? – sente un suo vicino di casa, un ciabattino, che “si vantava di avere la potenza di fare del male a chiunque volesse, col solo fortemente desiderarglielo”. Temendo per la serva di casa, donna a cui è affezionata e che aveva offeso l’uomo, la bambina desidera con forza di contrastare questo potere, decide di provare lei stessa a ostacolare il vecchio, “D’un tratto gli desiderai la morte. Sì, che egli morisse, quella notte, e così la donna si salvasse. Fu come un’allucinazione. Mi pareva che egli avesse gettato il suo laccio malefico sulla nostra casa: l’avevo colto io, però, e tiravo, com’egli aveva detto di fare per vincere il nemico.” E dopo quella notte la serva sta effettivamente meglio, ma l’uomo viene trovato morto, nella sua casa. “Io non mi spaventai molto: solo mi pareva d’essere andata troppo oltre. Ricordavo le parole di lui: « uccidere tocca solo a Dio ». Ma oramai la cosa era fatta; e mentre avevo paura della mia terribile responsabilità, in fondo, mi compiacevo a pensare che il laccio del vecchio era rimasto in mani mie. Potevo servirmene io, d’ora in avanti…

Grazia Deledda mescola sapientemente le vecchie leggende con le nuove paure, le coincidenze prendono forma reale. La tentazione di usare la magia, la divinazione, il potere derivato dall’odio, si fa forte e viene ascoltata, salvo poi scoprire che il vecchio è morto alcuni giorni prima e viene trovato solo dopo l’azione della bimba, che crede per una notte di avere quel potere.

In molte delle sue opere, soprattutto quelle che fanno riferimento alla vita in Sardegna, precedenti al cambiamento derivato dal matrimonio e conseguente cambio di residenza, si respira quest’aria cupa, da fiaba nera, in cui gli istinti umani sono esaltati e il fantastico s’infiltra nella quotidianità.

In questo mondo mitico e a contatto col fantastico non è esclusa una certa religiosità che è al confine con la superstizione, con presunte manifestazioni del divino. Accade in “La croce d’oro” dove durante una delle tappe del corteggiamento, a casa dei genitori della donna che il protagonista vorrebbe chiedere in sposa, arriva un uomo affascinante, sicuro di sé, che mette il dubbio all’uomo di essere lui colui che la donna ama più di tutti. Alla fine della narrazione si resta col dubbio che sia stato proprio il Cristo a fare visita ai fidanzati, come dice la madre del protagonista “Vive sempre, è nel mondo, con noi, e gira, gira, va nelle case, benedice e moltiplica il pane a chi gli fa l’elemosina, […] e a tutte le spose regala una croce: d’oro, sì, ma croce!

Insomma, attraverso le parole della scrittrice, camminiamo in un mondo dove non si può mai avere la certezza che non ci sia del magico. Vengono in mente certe storie cupe di vampiri e fantasmi. Polidori e Poe, le sorelle Brontë.

Come nella migliore tradizione, Grazia Deledda, sapientemente mescola nel suo calderone magico tutti quegli ingredienti che lasciano chi legge in uno stato d’inquietudine, a domandarsi cosa ci sia di vero e cosa, invece, affondi le radici nella fiaba, nei racconti orali tramandati con scopo educativo, con una missione di trasmissione della paura che permetteva, spesso, di regolare la vita senza ricorrere a leggi scritte. Che lo abbia fatto coscientemente o che la natura fantastica dei racconti orali abbia prevalso senza una scelta ponderata, è innegabile che Grazia Deledda abbia creato un ponte fra il passato e il presente, consegnandoci un’eredità fondamentale, utilissima per comprendere azioni, decisioni, vite del passato.

Non è necessario attraversare il mare e spostarsi nelle brughiere inglesi per trovarsi di fronte a storie dalle tinte scure, dagli amori tormentati e dall’incursione nel reale di figure ultraterrene. Basterà camminare fra le viuzze di Nùoro, nei paesi della Barbagia, fra le campagne disturbate dal vento, nei sentieri sterrati che si perdono fra i boschi, nelle case isolate, dove presenze indefinite vengono a trovare i vivi, la notte. Dove gli armadi sembrano avere coscienza e aprono le proprie ante per spaventare i moribondi e portarli alla confessione dei loro peccati.

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