Grazia Deledda
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Sono nata in un’isola tra vento e mare. Nessuno a quei tempi sperava di vivere a lungo; andavamo di fretta, divorando ogni istante prima che ci sorprendesse la fine, perciò non c’era tempo di stare a grattarsi la pancia e prendere appunti, come si usa adesso. E per di più sono cresciuta a Nuoro, dove qualunque naturale inclinazione auto contemplativa è stroncata sul nascere. Il motto per definire lo stile di vita di un’isola intera è: “Chi dorme non piglia pesci”.

Cominciai a scrivere a tredici anni, contrariata dai miei genitori.

Successivamente, negli anni, i miei racconti vennero pubblicati da diverse riviste locali e nazionali. Curiosità e storie di vita isolana giocarono a mio favore. Per la prima volta facevo parte di un gruppo ed ero autorizzata a fare domande indiscrete e a divulgare le mie idee, ma questo finì improvvisamente con il rendermi da un giorno all’altro come straniera nella mia stessa terra, al punto di dover alla fine partire, verso Roma. La causa del mio problema era sempre la stessa: l’incapacità di adeguarmi a ciò che gli altri consideravano normale.

Alla fine di un mio breve discorso, un giorno, qualche mese fa, si è alzata una mano tra il pubblico e un giovanotto mi ha domandato che ruolo giocasse la nostalgia nei miei romanzi.

Per un attimo sono rimasta in silenzio. Nostalgia… ecco, secondo il dizionario questa è “la tristezza di trovarsi lontano dalla propria terra, la malinconia causata dal ricordo di una gioia perduta”. La domanda mi ha quasi tolto il fiato, perché fino ad allora non mi ero resa conto che la scrittura rappresenta per me un esercizio costante della nostalgia. Sono stata forestiera per tanti anni della vita, condizione che ho accettato perché avevo un irresistibile miraggio del mondo, enon potevo fare altrimenti.

Scrivo le mie pagine dal cucuzzolo di un ripido colle, sotto lo sguardo vigile di querce nodose, mentre osservo Roma. Ma io vengo da un’altra terra e ho il vizio della nostalgia.

Certamente perché l’infanzia non è semplice ed è crudele. A quei tempi si pensava che il sistema migliore per educare i bambini fosse con la cinghia in una mano e la croce nell’altra, così come era scontato che l’uomo avesse il diritto di picchiare la moglie se gli serviva in tavola la minestra fredda.

Ma grazie all’esercizio costante della scrittura mi fu almeno possibile raccontare fatti arcaici con una veste dai colori forti e accesi. Non so se ci fu un momento preciso nel quale accettai l’idea del peccato, della morte, e dell’espiazione, forse fu un processo lungo, un lento consumarsi della realtà.

Mio padre era un uomo solido e forte come un guerriero ma non lo sentii mai lamentarsi dei suoi dolori o dei suoi problemi, anche se, da buon sardo, si lagnava di tutto il resto. Sulla scrivania in salotto, ho una sua fotografia.

È morto con i capelli bianchi e lo sguardo ancora vispo.

Quell’uomo formidabile mi trasmise il dono della disciplina e la passione per la lingua, senza le quali oggi non potrei dedicarmi alla scrittura. Mi insegnò anche a osservare la natura e ad amare il paesaggio.

Diceva che noi sardi abitiamo nell’isola più sorprendente del pianeta senza apprezzarla. Non percepiamo la quieta presenza delle montagne innevate, dei vulcani ormai assopiti e delle sconfinate colline che ci proteggono in un monumentale abbraccio. Non siamo sorpresi dalla furia spumosa del Mediterraneo, che si schianta sulle coste, né dai quieti paesaggi lunari del Nord, dove il tempo si è fermato. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo.

Chi sono i sardi? Mi risulta difficile descriverli a parole, ma mi basta un’occhiata per riconoscere un compatriota a cinquanta metri di distanza.

I sardi sono credenti, anche se alcune loro pratiche religiose sono decisamente più vicine al alla superstizione di quanto siano legate all’inquietudine spirituale o alla conoscenza teologica. Questa inclinazione spirituale deriva dalla terra stessa: quando un popolo vive tra terra e mare è normale che volga gli occhi al cielo. Accetto l’idea che qualunque cosa sia possibile. La nonna sosteneva che lo spazio è pieno di presenze, morte e vive, che si mescolano insieme. Esistono anche altri strumenti di percezione, come l’istinto, l’immaginazione, i sogni, le emozioni, le intuizioni.

Da uno sguardo approssimativo, alcuni pensano che in Sardegna viga il matriarcato, forse tratti in inganno dalla grande personalità delle donne, che sembrano reggere le fila della società. Sono indipendente, organizzate e amministrano la famiglia.

Sono più interessanti della maggior parte degli uomini, ma ciò non toglie che vivano in un patriarcato senza attenuanti.

Ma lasciamo stare questo argomento, perché mi sale la pressione. Gli uomini detengono il potere sia economico che politico, e se lo passano l’un l’altro come in una staffetta, mentre le donne, salvo rare eccezioni, restano escluse.

Quanto tempo ho vissuto, Dio mio! Invecchiare è un processo lento e subdolo. A volte mi dimentico che il tempo passa.

Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. E qui, seduta nell’ultima panca di questa cappella, sotto lo sguardo compassionevole di un enorme Cristo intagliato nel legno, io scrivo una lettera infinita alla mia terra.

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