Nemrut Dagi
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Chiunque abbia viaggiato in Turchia può raccontare storie sorprendenti sulla proverbiale ospitalità di questa terra. L’immancabile “Hos geldiniz!”, il benvenuto con cui anche i poliziotti del controllo passaporti accolgono gli stranieri, è una dichiarazione di disponibilità ed apertura che lascia stupiti.

Attraversando la Turchia in moto, d’estate, si raccolgono innumerevoli saluti da passanti, contadini e camionisti. Ma quando, tra Antalya e Kayseri, un fico secolare carico di frutti si para in maniera provocatoria davanti ai motociclisti affamati, cedere alla tentazione diventa inevitabile. Lo ammetto, con vergogna: parcheggiate le moto, cominciammo da pessimi Italiani a saccheggiare quel ben di dio… e sul più bello, si aprì la porta di una casa vicina, e un contadino venne correndo verso di noi.

Per un attimo ci balenarono in mente drammatici racconti d’infanzia, di doppiette caricate a sale e fughe vergognose… e quando il contadino ci raggiunse, ci porse non una, ma due buste di plastica, scusandosi perchè piccole, e ci aiutò a scegliere i fichi migliori, ringraziandoci di apprezzare i suoi frutti, e chiedendoci cosa pensavamo del suo Paese, e se in Italia avevamo fichi altrettanto buoni.

Probabilmente è accaduto migliaia di volte, in quello stesso posto: forse ai soldati di Alessandro, respinti da Termessos e in marcia verso Sagalassos, forse ai mercanti che percorrevano gli ultimi tratti della Via della Seta, reduci dalle steppe asiatiche, o ai profughi che arrivavano da innumerevoli paesi devastati a cercare ospitalità in questa terra.

Una terra squassata da terremoti, con escursioni climatiche estreme, eppure incredibilmente fertile, dove chi è stato abbastanza forte da viverci ha sempre avuto l’opportunità di prosperare. Anche un mero elenco di tutte le Civiltà che si sono sviluppate in Anatolia sarebbe troppo lungo: Hatti, Ittiti, Persiani, Greci, Romani, Bizantini, Selgiuchidi, Ottomani, si sono succeduti mescolandosi in un crogiolo di eredità raccolte e assorbite da culture successive, fino al catastrofico collasso dell’Impero Ottomano, nel XX secolo.

Fu per non disperdere questa eredità che il fondatore della nuova Repubblica Turca, Mustafa Kemal Atatürk, patrocinò la fondazione del Museo delle Civiltà Anatoliche, ad Ankara, dove è citata una sua frase: “Un popolo non può dire di avere una Patria se prima non conosce tutte le civiltà che vi si sono succedute.”
E’ un’esortazione a conservare il patrimonio storico e archeologico che è stata raccolta, e premiata: dei circa 30 milioni di turisti che hanno potuto apprezzare l’ospitalità della Turchia nel 2010, la maggior parte ha visitato i suoi siti e musei archeologici.

Ma non sono solo i turisti ad essere ospitati presso i siti archeologici.
Ogni anno, migliaia di giovani archeologi da tutto il mondo partecipano a campagne di scavo in Turchia, e tra le loro scoperte c’è quella di essere accolti come amici.
“I lavoratori degli scavi ci invitavano spesso a casa loro a colazione” ricorda Ben Irvine, un giovane archeologo britannico, ricercatore presso il British Institute At Ankara (BIAA), che ha lavorato al sito dell’antica capitale ittita di Hattusas, a Bogazköy.”Anche matrimoni o altre feste familiari erano occasioni per averci come ospiti, nonostante fossero riservate a parenti o amici intimi.” Ben è favorevolmente colpito dall’orgoglio dei Turchi per il loro patrimonio storico “E’ una mentalità che aiuta a creare un atteggiamento positivo per la conservazione dei siti. Certo, a volte può creare problemi, come per i permessi negati agli archeologi tedeschi, nel caso diplomatico della Sfinge di Hattusas…”

Infatti i doveri di ospitalità non sono mai a senso unico: una sfinge ittita, inviata in Germania nel 1915 per restauri, è stata restituita solo nel 2011, in seguito al braccio di ferro ricordato da Ben.

Ma di solito, i rapporti con gli archeologi stranieri sono calorosi. “Nonostante fossi al primo incarico, come responsabile dell’area di scavo, mi è stata data fiducia e assoluta indipendenza fin dal primo momento” afferma Enrico de Benedictis, archeologo italiano di 29 anni che ha lavorato ad Alalakh, nei pressi di Antakia “Ero responsabile nel bene e nel male, e nonostante non ci fosse indulgenza davanti agli errori, i più esperti erano sempre prodighi di consigli e chiarimenti, in una vera trasmissione di sapere. Non ho mai trovato tanta disponibilità in altri paesi dove ho lavorato, tanto meno in Italia!”

Vera Costantini, ricercatrice di Lingua e Letteratura Turca presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, ha vissuto per tre anni a Istanbul, svolgendo le proprie ricerche presso il Basbakanlik Osmanli Arsivi. “Gli archivi turchi funzionano secondo i più alti standards europei”, afferma. “L’accoglienza che è stata riservata dal personale archivistico e dai colleghi turchi a me e al mio interesse di ricerca è stata sempre autenticamente attenta, stimolante e al di sopra di ogni aspettativa.”

Anche Chiara Vitali, 36 anni, archeologa subacquea che ha lavorato sul porto sommerso di Liman Tepe, a Urla, presso Izmir, ha potuto godere della disponibilità verso gli ospiti, e sottolinea un aspetto curioso, specialmente per chi non conosce la condizione femminile in Turchia “Nel campus dell’Università di Ankara a Urla, dove vivevamo, la domenica era giorno di pulizie. Tutti avevano un compito, ma a me non era permesso fare nulla, in quanto ‘ospite’… poche volte sono riuscita a fare la mia parte.” Chiara ricorda la curiosità dei suoi colleghi turchi verso gli stranieri “Le domande che pongono sono sempre volte a capire il nostro stile di vita e la nostra mentalità, senza mai giudicare o criticare: a volte condividono, altre no, ma non ho mai sentito forme di biasimo o di chiusura culturale o religiosa”. Anche lei è impressionata dalla dedizione alla conservazione del patrimonio storico “Magari avessimo anche noi in Italia lo stesso spirito per tutto ciò che rappresenta il passato… non è solo cura, è proprio rispetto!”

Lo stesso rispetto dimostrato per l’eredità di qualsiasi straniero che ha condiviso la Terra su cui vivono, o in cui sono sepolti. Persino gli invasori ne hanno avuto diritto: il sito dove i Corpi Australiani e Neo Zelandesi (ANZAC) sbarcarono nel 1915, a Gallipoli, è stato ribattezzato “Anzak koyu”. Atatürk, che fu il comandante militare che respinse l’invasione, e cominciò così la sua ascesa, commemorò i caduti di tutte le parti con queste parole “Tutti gli eroi che hanno sparso il loro sangue, e sono morti in questa terra, riposino in pace. Sono in una terra amica, ora. Non c’è differenza tra i Johnny e i Mehmet quando giacciono fianco a fianco in questo nostro Paese. Madri, che avete mandato i vostri figli a morire in una terra lontana, non piangete: i vostri figli riposano nel nostro grembo, e sono in pace. Dopo aver perso la vita in questa terra, sono diventati anche figli nostri.”

E ogni 25 aprile, migliaia di Australiani e Neozelandesi vengono in pace a celebrare l'”Anzac day”, la commemorazione dei loro caduti, in una terra ormai amica, e sempre ospitale.

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