Santuario Madonna delle lacrime, Siracusa
Share

Per addentrarci, e quindi capire, la fenomenologia del ‘dono’ non possiamo prescindere da quello che è il suo significato etimologico. Il latino dònum indica “ciò che si dà altrui volontariamente senza esigerne una ricompensa”, un moto dell’anima che induce l’individuo a dare, offrire, qualcosa di sé agli altri senza che questo atto abbia un secondo fine. Un gesto di profonda liberalità, che non si aspetta niente in cambio. Il manifestarsi di questo rapporto di prodigalità fra gli individui comporta, però, una serie di sfaccettature e sfumature tali da imporre un’analisi più approfondita di un processo dalle molteplici valenze semantiche. Infatti, l’atto del donare qualcosa mette in moto una rete di comportamenti che sono presieduti da una verità socio-antropologica, filosofica, letteraria ed anche economica.

Partendo da questi presupposti, benché sembri un paradosso, proprio in seno alle società arcaiche che ci hanno preceduto, mediterranee ed extraeuropee, ha visto la luce -seppur ancora in forma embrionale- il mercato; prima che nascesse lo strumento di scambio che ne regola il funzionamento, la moneta. L’insigne antropologo Marcel Mauss (1872-1950), al riguardo, sostenne l’esistenza di una teoria economicadietro lo scambio dei doni, che divenne il caposaldo della Antropologia Economica. Egli spiegò come le idee che presiedono allo scambio siano fondamentali per capire la natura delle transazioni umane nelle società arcaiche, su cui agivano, unite, Morale ed Economia. E proprio quello che maussianamente è definito ‘comunismo primitivo’ può essere applicato ed assurto a principio fondante degli ancestrali rapporti di mutua reciprocità delle comunità agro-pastorali sarde, e non solo, fino ai primi decenni del secolo scorso.

La sopravvivenza di alcuni mores si spiega in parte col fatto che Sardegna, Sicilia e, più in generale, tutto il meridione d’Italia, in quanto aree altamente conservative, si siano fatte custodi di alcuni valori e tradizioni connotate sub alternamente e, per questo, ‘popolari’.

Le forme che il dono ha assunto nei secoli, in questi contesti socio-culturali, sono le più svariate. Così come complesse e variegate sono state le motivazioni intrinseche che li hanno generati.

Il Logudoro (con specifico riferimento al Nuorese e alla Barbagia) è stato sempre connotato da una certa conservatività culturale, venendo quasi a costituire un’isola nell’isola. All’interno di una simile società patriarcale fortemente gerarchizzata e quindi statica, fu pressoché impossibile aspirare ad un’ascesa sociale a titolo personale. Il dovere morale di ogni suo membro faceva sì che ci si adoperasse per conservare quello status di cose e che si creassero dei momenti e dei luoghi (parentesi momentanee) deputati al raggiungimento di una parità ideale, seppur solamente provvisoria, in cui ogni individuo si trovava, appunto, ‘alla pari’ con gli altri. Creare un luogo e un momento sacri permetteva non certo di essere uguali ma di conservare le rispettive differenze socioculturali essendo, però, messi in relazione mediante la condivisione. Un complesso mitico-rituale, questo, fondato su rapporti ed interscambi ‘obbligatori’ di reciprocità, il cui fulcro era s’ispinzu2(pegno), un oggetto simbolico con cui si attuava la norma della mutualità finalizzata alla condivisione dei propri averi. E’ importante sottolineare come si desse importanza al valore simbolico, morale e sociale di questo pegno concesso in regalo e, invece, si trascurasse completamente il suo valore economico. La festa, spesso legata alle ricorrenze del calendario liturgico cristiano come la Pasqua, il Natale e la Quaresima, ma anche le nascite, i matrimoni, i battesimi etc, consentiva di creare delle momentanee sospensioni degli antagonismi quotidiani e di donarsi reciprocamente tale pegno, augurio di benessere e prosperità. S’ispinzu poteva essere scambiato ma non acquistato. Era questa la sua prerogativa.

La solidarietà reciproca tra i membri delle società sarde arcaiche, si manifestava anche in altre occasioni della vita quotidiana. Ricordiamo infatti che c’era chi metteva al servizio degli altri la propria esperienza di vita, intrisa di empirismo volto a ricercare sempre e comunque la conoscenza. La pragmaticità acquisita anche con il lavoro nei campi e la conoscenza delle proprietà curative di alcune piante medicinali erano messe al servizio dei malati. Il medico popolare era infatti una figura indispensabile per la sopravvivenza dei membri di una comunità. Solitamente era una donna, sa meigadòra, a ‘donare’ gratuitamente la sua prestazione al malato. Mossa da un estremo gesto di solidarietà che non pretendeva ricompensa cui, però, seguiva un dono. Un’offerta (non in denaro) che il paziente elargiva per riconoscenza, per ringraziarla di un simile atto di generosità.

E’ evidente, quindi, come il dono chiamasse anche se inconsciamente -e in generale chiami tutt’ora- un ‘controdono’. E sviscerando le sue sfumature perveniamo alla constatazione che da sempre, la sua prerogativa è stata quella di esser inscindibilmente legato a rituali di imbonimento, alle condizioni di estrema indigenza in cui si trovavano le popolazioni primitive di secoli e secoli fa le quali, prostrandosi alle divinità, per colmare la propria precarietà e fragilità, compivano sacrifici d’ogni sorta per propiziarsele. Quest’uso propiziatorio che del dono si faceva, sebbene sia trascorso un enorme lasso di tempo, non è affatto scomparso. Ha cambiato il suo manifestarsi senza però mutare la sua sostanza. Quelli che un tempo erano i destinatari di sacrifici umani, gli dei, divennero nei vari corsi e ricorsi storici re, imperatori, potenti. L’atto del donare, quindi, contestualmente all’evoluzione storica, culturale e scientifica dell’umanità, ha subìto una metamorfosi. E quello che in origine era un gesto assolutamente disinteressato, subendo la ‘corruzione’ del tempo, ha acquisito uno scopo, a scapito della spontaneità. Così il Potere, in senso lato, si esplicò nelle varie sfere dell’esistenza anche attraverso il dono: regali fatti per ostentare la propria ricchezza, per legare a sé le persone creando una implicita e inconsapevole dipendenza, per stigmatizzare il proprio status rimarcando le gerarchie sociali che oggi più che mai conoscono nette distinzioni e distanze economiche e sociali. Il dono come arma di ‘ricatto’ è racchiuso tutto nell’espressione del “do ut des” (do affinchè tu dia), definizione latina dello scambio di un bene che ‘ormai’ ha già i connotati di un contratto tra chi dona qualcosa aspettandosi qualcos’altro in cambio.

Come ci insegnano l’antropologia, l’etnologia e le discipline affini, quando ci si addentra nello studio delle tradizioni di un popolo è difficile scindere le varie componenti che ne caratterizzano l’anima, la storia. E tra queste, quella religiosa ha una rilevanza notevole. L’avvento del Cristianesimo nel mondo occidentale soppiantò il paganesimo, non senza lasciarne sopravvivere dei substrati che, mescolandosi a vicenda, diedero vita a degli usi impropri del culto cattolico che il popolino metteva in pratica, non avendone i titoli, e da cui nacquero le superstizioni.

Il sacro e il profano si videro uniti in un amalgama, un sincretismo religioso, che impregnò ogni aspetto del vivere popolare, tale da spiegare la ragion d’essere di una realtà che costella tutt’oggi la nostra penisola: i pellegrinaggi.

Fiumane di uomini che si mettono in viaggio verso un luogo che considerano sacro, compiendo sacrificio ed espiazione dei propri peccati, cercando la redenzione in questa terra in virtù della devozione ad un santo, a Gesù Cristo, alla Madonna, cui vien chiesta la gratia in cambio di una ‘prova’ di devozione, un rendere grazie per il beneficio ricevuto.

La letteratura è ricca di viaggi mistici che vedono, ad esempio, il Boccadoro di Hermann Hesse andare alla ricerca di sé guidato da un’ideale figura femminile che ora assume le sembianze sfocate di sua madre, ora quelle della Mater per antonomasia, la Madonna; o Lucio-Asino, nel romanzo antico in lingua latina di Apuleio (II sec. d. C.), Metamorphoseon Libri, che ‘imbestialito’ nelle sembianze di un asino raziocinante percorrerà un lungo viaggio in cui sarà protagonista di tante ‘prove’ da superare, allegoria dell’espiazione dei suoi peccati, superate le quali, riacquisterà le sembianze umane. Il viaggio come redenzione, quindi, in un periodo storico a cavallo tra paganesimo e albori del cristianesimo.

Sono tante le località in Italia, sede di santuari, meta di pellegrinaggi da parte di persone che provengono da ogni parte del mondo, spinte dalla fede per un santo, che invocano la grazia per la guarigione da malattie incurabili e problemi di svariata natura.

In Sicilia, per riallacciarci a quell’ideale viaggio letterario tra le due Isole del Mediterraneo, il culto di alcuni santi è molto vivo, sentito e partecipato. Sant’Agata a Catania, Santa Rosalia a Palermo, Santa Lucia a Siracusa, San Biagio nella provincia di Agrigento, per citarne alcuni. E l’atto ultimo e conclusivo dei pellegrinaggi si materializza nei cosiddetti ex voto per grazia ricevuta; essi non son altro che dei doni fatti dai fedeli (non solo pellegrini venuti da lontano), una prova di gratitudine al santo per aver conferito loro la grazia richiesta.

Come tutto l’immenso materiale inerente la storia delle tradizioni del popolo siciliano, anche quello attinente agli ex voto, è stato sommamente ricercato, catalogato, classificato e raccolto dal famoso medico, demologo e folklorista palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916). Egli definisce gli ex voto come una forma d’arte minore, opera delle classi subalterne e contadine, testimonianza della fede popolare e quindi un’arte sacra a tutti gli effetti, seppur rudimentale per i materiali e il linguaggio iconico e scritto utilizzati. “Gli ex voto si chiamano miracoli […….] anticamente i miracoli erano dipinti su legno, e non di rado su tela; dopo il primo trentennio del secolo XIX cominciarono a democratizzarsi su latta..” 3.

Erano molto diffuse le tavolette votive in legno, raffiguranti incidenti sul lavoro come la caduta dagli alberi durante la potatura, incidenti con attrezzi agricoli e simili, e costituivano dei cliché, con un proprio formulario e impostazione scenica. Talvolta erano ex voto anatomici, fatti di cera, e riproducevano l’arto o gli organi ‘miracolati’ (braccia, gambe, cuori ..) e guariti dal santo. In ognuno di essi veniva incisa la data della grazia invocata e ricevuta e le iniziali V. F. G. A., ossia votum fecit, gratiam accepit.

Questi ed altri ‘doni’ i fedeli portavano, e portano tutt’ora, allegandovi lettere, dediche, ricami e dipinti per le guarigioni spirituali, stampelle e bende per le guarigioni fisiche. E’ pertanto degno di nota il fatto che, fino alla prima metà del ‘900, queste forme d’arte erano commissionate anche da committenze altoborghesi contestualmente alla produzione popolare per mano di artigiani locali, con una inevitabile e progressiva discesa dall’ambito colto a quello popolare che il Cirese definì “circolazione sociale di fatti culturali”4.

Certamente oggigiorno la donazione fatta da persone facoltose ha assunto la forma dell’offerta in denaro, mentre persiste tra i ceti medio bassi il ricorso agli ex voto. E’ palese, pertanto, che dietro al regalo di un bene, si cela un bisogno involontario di ‘parità’ che innesca un rapporto di scambio seppure differito. E’ un gesto che veste l’apparente abito di generosità gratuita ma, in realtà, si aspetta e quasi pretende un altro regalo in cambio. Siamo tutti testimoni e fautori di questa perversa e dissimulata logica del ricatto, la quale ha spogliato della spontanea e disinteressata generosità l’input a donare per il sol piacere di far del bene, senza ‘altri’ scopi.

Un tempo si asseriva che “non è il regalo che conta ma il pensiero che l’ha mosso”; ebbene, suonando così anacronisticamente lontano dalla nostra attualità, questo assunto è smentito dalla penosa invenzione degli articoli da regalo5, emblema della decadenza del ‘dono’ e della sua originaria accezione.

 


 

[1] Marcel Mauss, Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002.

[2] C. Gallini, Dono e malocchio, Flaccovio Palermo, 1973.

[3] G. Pitré, LA FAMIGLIA, LA CASA, LA VITA del popolo siciliano, Arnaldo Forni Editore, 1913.

[4] A.M.Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo Palermo, 1974.

[5] T. Adorno, Minima Moralia, 1951.

Leave a comment.