Lione
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di Manuela Martignano

Non sempre città è sinonimo di caos, e quando si arriva a Lione lo si percepisce all’istante. Ci si spoglia del cliché della vita stressata e velocissima delle metropoli, il tempo qui è ancora dalla nostra parte. Certo le strade sono affollate, ma il traffico è sempre gestibile – parliamo della seconda città più grande di Francia dopo Parigi – i bus sono sempre in orario e gli autisti hanno sempre qualche minuto per salutarti quando sali e per augurarti buona giornata. Lussi non da poco.

Certo il salto dalle “Puglie” alle Alpi non è di qualche metro, i chilometri che ci dividono culturalmente si sentono, ma la sorpresa di ritrovarmi catapultata in questa dimensione temporale, che se non è uguale a quella del sud da cui provengo di certo è lontana anni luce dal ritmo delle città italiane, c’è stata ed è stata piacevolissima.
A Lione la gente non sembra aver fretta, qualcuno corre nei corridoi della metropolitana, ma per il resto tutto sembra scorrere al riparo da particolari frenesie. I commercianti scaricano la merce di fronte ai loro locali, la gente sorseggia il caffè al posto di prosciugare la tazzina in un solo colpo, e un francese ha sempre tempo per il suo aperitivo. Sembra che l’agognato bicchiere prima dei pasti sia un diritto come quello allo sciopero, al lavoro e alla disoccupazione, inalienabile.
Lione ha tanti tempi che somigliano ai nostri, le grandi abbuffate domenicali nei casolari di campagna, i barbecue che si susseguono di settimana in settimana con l’arrivo della bella stagione, in fondo siamo a Lione e non a Oslo. Ma le differenze iniziano a farsi sentire, per esempio quando parliamo di scuola, il tempo degli studenti è dilatato, trascorrono tutta la loro giornata a scuola, e se perdono il pranzo in famiglia tutti i giorni, guadagnano spazio per la socializzazione fra di loro. Di tempo ridotto parliamo quando i giovani terminano il loro percorso di studi e si affacciano sul mercato del lavoro, un passaggio indolore che avviene ad un’età che ci dovrebbe far arrossire. In Francia non è mai stato tempo di “bamboccioni”, la maggior parte dei ragazzi vive fuori di casa una volta maggiorenne, i genitori riprendono in mano le proprie vite e i ragazzi hanno l’opportunità di mettere alla prova la propria indipendenza pur abitando nella stessa città dei loro genitori. Tempo guadagnato per tutta la famiglia e vissero per sempre felici e contenti.

C’è però una cosa che mi ha sempre affascinato di questo popolo, che non ha un filo diretto con il tempo, o almeno a un primo sguardo, una sottile particolarità che ha alla base un lavoro enorme sotto il profilo dello stato sociale. Vero è che anche oltralpe iniziano a stringere un po’ la cinghia, a tagliare a destra e a sinistra, a parlare di pensioni. I francesi però continuano ad essere meglio assistiti dallo stato rispetto a noi, e questo vuol dire disoccupazione garantita anche con requisiti minimi, corsi di formazione pagati nei momenti in cui si perde un lavoro e se ne cerca un altro, diritto allo studio, diritto a contributi sull’alloggio e sulle spese sanitarie se le condizioni economiche non permettono. In Francia non ci sono tassi alti di evasione, i cittadini pagano le imposte e ricevono servizi. Un popolo riesce a difendersi meglio in momenti come questo. Cosa c’entri questo con il tempo è presto detto: prendiamo un uomo, togliamogli lo stipendio o la possibilità di lavorare, riduciamolo a dover essere sempre in affanno per ovviare a tutte le sue necessità fondamentali, ebbene, gli avremo tolto del tempo. E non un tempo come tutti gli altri, ma un tempo che in questi anni a noi manca terribilmente, il tempo per indignarsi. Come farà un pover’uomo che deve badare alla sua vita in questa jungla e con fatica a dedicarsi ai discorsi sui massimi sistemi che governano il mondo?

I francesi sono riusciti a conquistare in anni di lotte e con un modello di cittadinanza molto attiva dei diritti che nessuno può toglier loro senza generare un’ulteriore rivolta, questo gli consente di occuparsi sempre di ciò che accade nei piani alti della politica, di vigilare sul corretto funzionamento delle cose che si riflettono sulla loro vita, di esserci insomma. Nel mio piccolo cantuccio di mediterraneo, dove il mare sbatte forte contro le rocce con il vento di maestrale, la vita ci scappa fra le mani in un continuo stato di emergenza, gli spazi per la riflessione e per le reazioni si restringono sempre di più. Il tempo civico s’infeltrisce in maniera del tutto sovversiva rispetto al canone dei lunghi tempi del sud. Il tempo per indignarsi è un tempo che sarebbe importantissimo recuperare o se necessario importare, prima che anche l’orrore diventi normalità.

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