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Nel momento in cui ci si avvede la vita di ogni giorno non concede neanche il tempo di annusare un fiore ed il quotidiano sembra piuttosto che il tentativo della ricerca del sé, o di un riscatto dalla caduta dell’uomo, un quadro scialbo tra il surreale, il grottesco e l’effimero, bisognerebbe riportare la realtà alla sua vera logica e, possibilmente, noi stessi verso una coscienza più umanistica che tendente all’asservimento alla rivoluzione industriale e al suo triste lascito.

Ci sono dei luoghi ove la fretta e il tentativo futile di imbrigliare il tempo in dei quadranti, per minuti o grandi che siano, non hanno mai trovato considerazione… lì gli orologi si fermano ed il Tempo comincia a fluire per davvero, estraneo alle illusioni che i più rincorrono.  Quando si ha la fortuna di passeggiare in certi luoghi ci si rende conto di quanto la loro ragion d’essere sia quella di restituire l’uomo alla sua stessa natura, alla considerazione per la giusta misura delle cose.

Ci sono dei luoghi che consegnano il visitatore al grembo della storia e lo aprono ad esperienze sensoriali che si rinnovano ciclicamente, anno dopo anno… qui i profumi del presente incrociano quelli del passato e vi si sovrappongono.

Ci sono dei luoghi che t’intridono l’anima di un tale senso di agostiniana “semantizzazione” del tempo da far percepire davvero cosa, di materiale o immateriale, si stia assaporando; immergendoci in essi non possiamo che captare una bellezza totale e compiuta, fatta di valori tangibili e inalterabili, di vibranti emozioni quasi dimenticate dagli spiriti affannati e distratti da un’innaturale velocità e che qui trovano ristoro.

Quanto segue è il modesto tentativo di descrivere uno di questi meravigliosi luoghi, la sua storia e il suo ideatore…

Giardino della MinervaMatteo Silvatico e Linneo Linnéträdgården

Da una vecchia pergamena custodita negli archivi della badia di Cava de’ Tirreni si apprende che la nobile famiglia Silvatico, di antiche origini, facoltosa ed iscritta al “Seggio del Campo“, proveniente da Tosciano Casale e trasferitasi a Salerno nella sua dimora  nei pressi della chiesa di “Santa Maria delle Grazie“, era già possidente, nel XXII secolo, del viridario ubicato vicino  ai bastioni occidentali della città “in loco Bosanola“, con i suoi orti cinti e i terrazzamenti proprio al di sotto del convento di “San Nicola De Palma“, in una zona chiamata “Plaium Montis” (Quartiere di “Canalone“)  presso il torrente Fusandola.

Per quanto il giardino fosse già, a quel tempo, un angolo verde e lussureggiante al riparo dal brusio delle genti d’oriente e d’occidente che s’affollavano in gran calca nella cittadina medievale di Salerno e ben lontano dalla confusione, presso il porto, delle attività mercantili e dal via vai di genti d’arme, marinai e crociati, esso era ancor lungi dall’essere quell’oasi di fronde rigogliose, di mistiche reminiscenze e dai profumi esotici, ordinata e pregna di armoniosa aristotelica precisione che presto sarebbe diventato.

Che mai tante varietà botaniche s’eran viste in terra cristiana…mai tutt’assieme!

Il Maestro Matteo Silvatico, degno esponente della sua dinastia, visse tra il XIII e il XIV secolo, presumibilmente nato nel 1285  e morto nel 1342 ca., fu un insigne rappresentante della Scuola Medica Salernitana, “regis phisicus” e profondo conoscitore delle proprietà curative delle piante (“Ostensio Simplicitum“).

Le date sono riconducibili a testi e documenti giunti ai giorni nostri grazie ai benedettini della vicina badia, mentre la scarsità di notizie biografiche sul maestro, imputabile alla prematura scomparsa della famiglia per assenza di eredi, è fortunatamente compensata  da innumerevoli citazioni di autori, contemporanei e non, che dimostrano la sua celebrità e l’importanza della sua vita di uomo di scienza attraverso l’attività professionale e letteraria svolta con profonda dedizione e spirito innovativo.

Infatti Giovanni Boccaccio, incontratosi col maestro presso la corte angioina  e che non mancava di ospitare nella sua dimora  altre illustri personalità  del tempo, come Giotto e Petrarca, gli dedicò nel Decamerone la X novella della IV giornata; il cavaliere e dottore in fisica salernitano viene  inoltre citato dal celebre Pietro d’Abano (Abano 1250- ? 1318 ca.) medico, astrologo e filosofo, viaggiatore instancabile, libero interprete dell’aristotelismo con influenze averroiste e docente in medicina presso l’università di Padova, accusato d’eresia e quindi condannato a morte nel 1315 a causa delle sue teorie in luogo di influenza astrologica sugli umani accadimenti e per aver ipotizzato la resurrezione di cristo in seguito a morte apparente; il nome di Matteo Silvatico compare anche nell’Opera “Iltaia Sacra” di  Ferdinando Ughelli (Firenze 1595- Roma 1670) monaco, abate e storico italiano, nella quale è data notizia di un atto pubblico salernitano del 1337 in cui venne trascritto un decreto del capitano di Salerno Bertoldo di Hohembachr, insediato su delega di Manfredi, e dichiarante le proprietà arcivescovili in presenza di illustri testimoni tra cui il Silvatico appunto;  di “Matthaeus Silvaticus” ( o “Salvaticus“) è fatta menzione anche in un documento del monastero di “Santa Maria della Porta“dei padri predicatori di Salerno, redatto dal notaio Nicola Tumino nel 1342, in cui SI enumeravano le sue donazioni in favore dell’istituto religioso; persino John Freind (Croton 1625- Londra 1728) studioso di filosofia, cattedratico di chimica a Oxford e membro della “Royal Society” nel 1712 (era anche medico personale della regina Carolina di Brandeburgo-Ansbach, moglie di Giorgio II) menziona il maestro Silvatico nel suo “Opera Omnia Medica” attribuendogli la paternità della botanica moderna e il riconoscimento dell’ampia rivelazione delle proprietà medicinali delle piante in tempi così bui come la difficile epoca in cui visse; altre citazioni sul maestro ci pervengono dal “De Scriptoribus Regni Neapoltani” di Enrico Baccio e via via fino ai giorni nostri da Cesare D’Engenio Caracciolo, da Gerolamo Tiraboschi (Bergamo 1731- Modena 1794), uomo erudito e storico della letteratura italiana a cui va il merito di aver dimostrato in questo contesto, contrariamente alle tesi di  Sitone, Fagnano e dell’Argelati, le indiscutibili origini salernitane del Silvatico; e ancora, dall’insigne priore della Scuola Antonio Mazza nel XVII secolo e dal professore di patologia generale e igiene presso l’unversità di Napoli, nonchè storico della medicina Salvatore De’ Renzi (Paternopoli 1800-Napoli 1872).

Erano davvero tempi duri quelli che inquadravano il periodo storico durante il quale Silvatico visse: infuriava la guerra tra Bolognesi e i Modenesi, fra i Fiorentini e Castruccio Castracane di Lucca; poi la spedizione del Duca di Calabria Carlo D’Angiò in Sicilia mentre Giovanni XXII dichiarava eresia il ghibellinismo scagliandovi contro il guelfo nero Cante Gabrielli e le Crociate; d’altronde anche salerno sanguinava per la brusca dipartita della dinastia sveva, pagando con soprusi, devastazioni e amari tributi di sangue agli angioini la fedeltà dimostrata a Manfredi di Hohenstaufen con la resistenza e la rivolta organizzata da Giovanni da Procida (Salerno 1210 – Roma 1298).

Il Silvatico era un  “familiares”  del re svevo e rappresentante della Scuola Medica Salernitana al suo cospetto e quando Roberto I d’Angiò divenne re di Napoli dovette riconoscerne la fama, tanto che lo volle a corte tra i suoi medici, insignendolo persino del titolo di “miles” per ringraziarlo dell’operato imparziale resogli in svariate situazioni.

…E con tale titolo il pioniere della botanica illuminata  verrà menzionato sia nei documenti della sede arcivescovile salernitana che da quelli della Confraternita dei Crociati.

Nel suo più famoso manoscritto, l “Opus Pandectarum Medicinae“, conosciuto anche come “Liber Cibalia et Medicinalia Pendottarum” (titolo col quale venne dedicato nel 1317 al re che lo insignì del titolo di “miles“, per quanto l’opera, accresciuta negli anni, fosse già nota ai tempi di Carlo II d’Angiò), si può riscontrare un modi di classificare i vegetali ascrivibile ad un vero e proprio trattato di botanica nell’accezione moderna: infatti i capitoli coi quali Silvatico suddivise le “Pandette” sono in ordine alfabetico, intitolati col nome del “simplex” a cui segue il sinonimo in lingua araba, greca e latina, prosegue con la descrizione morfologica tramandata sia dagli esimi autori del passato (tra gli arabi: Avicenna, Mesuè, Serapione il  Giovane“, Isacco Giudeo e Costantino l’Africano; tra i greci: Ippocrate, Galeno, Teofrasto di Ereso, Dioscoride e Democrito; tra i latini: Celso, Cassio Felice, Teodoro Prisciano e Gaio Plinio Secondoil Vecchio“) che desunta dallo studio e giudiziosa,  accorta osservazione oltre che dalla pratica che maturò tanta esperienza al  Silvatico, il quale, dedicando peculiare attenzione agli organi ipogei delle, proseguì nella stesura della sua opera con la “complessione” ossia l’identikit della struttura vegetale “in toto“, a volte descritta con minuzia altre paragonando gli organi del vegetale in questione ad altre piante simili e meglio conosciute, per concludere con elenco delle proprietà terapeutiche.

Il Giardino era una vera e propria fucina sapienziale di botanica e la sezione viva e pulsante della Scuola Medica Salernitana la cui dottrina venne tramandata in forma scritta col “Regimen Sanitatis Salernitanum”, fior fiore della letteratura medica occidentale; mediante il “Regimen” vennero gettate le basi della cultura farmacologica e fitoterapica, ma persino divulgate le buone norme sanitarie ed i dettami per una corretta alimentazione. Non è un caso che il primo studio erudito sulla natura del Vino, dopo il “Corpus Ippocraticum”, precetti straordinariamente validi ed attuali come “Vina probantur odore, sapore, nitore, colore. Si bona vina cupis, haec quinque probantur in illis, fortia, formosa, fragrantia, frigida, frisca” (Fan palese il vin sapore, limpidezza, odore, colore. Se il buon vino conoscer brami, cinque cose ei ti richiami: sia formoso, sia fragrante, forte sia, fresco e frizzante) e le raccomandazioni date ai medici del tempo, in modo che istruissero al bere in base alla malattia e alle qualità naturali del paziente e del vino da somministrare, fossero emanazione di questa fonte di medievale sapere.

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Desta attenzione nell’opera l’influenza che la cultura scientifica dell’Islam esercitò  sul Silvatico, il quale predilesse, nella parte dedicata alla trattazione delle piante, la nomenclatura araba ad esse corrispondenti in  233 capitoli su 487 (42,9% del totale) dissertando sovente sulla natura delle piante  allora considerate esotiche. L’erudizione di Silvatico, evidente in tutto il trattato, colpisce ulteriormente nel passaggio in cui definisce “Presillum lignum“, praticamente “legno del Brasile“, una pianta dell’ordine  delle leguminose,  il cui genere oggi è noto col nome di “caesalpinia“, prim’ancora che fossero scoperte le Americhe.

…..Nessun trattato di botanica in Europa terrà in considerazione tante definizioni in lingua araba per elencare e descrivere piante di origine mediterranea, dimostrando l’equanimità, l’onestà intellettuale e la profonda riconoscenza del dotto salernitano verso il progresso scientifico e il lavoro svolto dai colleghi musulmani, gratitudine palesata in maniera coraggiosa, senza tenere affatto conto del quadro politico-religioso dell’epoca e le possibili, gravi conseguenze!

L’ “Opus“, pregna anche di osservazioni mediche dedotte dal maestro salernitano già nel 1297, destò tanto interesse  per i suoi contenuti: la sua veste innovativa e la distinzione con cui essa descriveva  a scienza botanica, rispetto ai testi di autori precedenti, fu tale che il manoscritto venne stampato  Napoli ne 1474 sotto la curatela di  Angelo Catone Sepino, “regis phisicus” di Ferdinando D’Aragona e, successivamente, nel 1523 riprodotta nell’edizione a stampa veneziana ( stampata successivamente anche a Lione nel 1534, come riferiva lo scrittore e tipografo del XVII sec. Ottavio Beltrano nella sua “Breve Descrittione del Regno di Napoli…”); nell’ultima veste editoriale l’opera restò articolata in  721 capitoli di cui 487 trattanti i vegetali, denominati con una media di 4 sinonimi per pianta, 157 i minerali, 77 il regno animale  tre descriventi i “semplici” a cui gli studiosi moderni non sono stati in grado di dare una descrizione certa riguardo alla composizione ed, infine, corredata di indice e “additio“.

Il manoscritto redatto in lingua latina è tutt’ora conservato a Roma presso la Biblioteca Vaticana, presentandosi con una copertina anonima e il logorio dei suoi anni, con la mole dei volumi del passato (280 X 400 mm) e tutto il fascino della grafia di altri tempi.

A Matteo Silvatico va riconosciuto il merito di aver tenuto sempre fede al giuramento di Ippocrate, come la “Schola” insegnava, e di aver istituito nei giardini di famiglia il primo orto botanico d’europa, forse del mondo, intorno ai primi decenni del 1300, identificabile in quello che oggi è noto come “Giardino della Minerva“, officina di  medicamenti, palestra culturale e laboratorio didattico irrinunciabile per l’evoluto istituto di medicina salernitana che già vantava il primato di essere la prima università e di aver fondato il primo ospedale autonomo e laico della storia occidentale fondato da Matteo da Salerno (o d’Aiello) nel 1181.

Cospicue erano le fonti che alimentavano la vita Del giardino e zampillanti le fontane di cui il Silvatico lo volle adornare dando anche senso estetico e sfruttando oltre alle acque dei torrenti “Fusandola” e “Faustino” ( oggi Rafastìa) quelle prelevate da una sorgente nascente in un luogo chiamato “Acquarola“, vicino al monastero di “San Leo” presso la zona del “Canalone“, il tutto grazie agli acquedotti che formavano la rete idrica in quella zona della città, non ultimo quello costruito nel 1238 per il convento di “Santo Spirito” le cui acque in seguito vennero dispensate prima ai vicini monasteri e poi, tramite tributo, anche ai privati cittadini possidenti  attività di lavorazione della cera,terreni e orti nelle vicinanze; l’organizzazione dell’irrigazione del Giardino era capillare:  le canalette disciplinavano il corso delle acque raggiungenti i vari terrazzamenti del Giardino della Minerva richiamando molto il senso di “utile ed ornamentale” caratteristico dei giardini mediterranei  dell “Hortus Conclusus” dei monasteri, mentre l’abitato interno e le peschiere erano un chiaro richiamo alla cultura del giardino arabo, pertanto un riflesso del Paradiso e di vita felice in terra.

L’intricato sistema di canalizzazione delle acque del giardino è stato individuato soltanto grazie ai lavori di archeologia e restauro che a partire dal 2000 hanno fornito preziose informazioni sulle diverse fasi storiche che ne hanno mutato il volto nei secoli, svelando le stratificazioni più vetuste, le geometrie delle aiuole, la funzione delle nove fontane installate e le condotte per le acque affluenti e defluenti. il tutto rinvenuto a circa due metri di profondità rispetto all’attuale planimetria.

il Giardino non si nutriva soltanto del sapere del Silvatico e delle amorevoli cure sue e dei suoi allievi e, più certo, non solamente delle acque che l’architettura e l’ingegno del tempo vi convogliarono; il Giardino della Minerva venne fondato su una conoscenza molto più antica e profonda, ricavando linfa vitale dalle teorie raccolte e praticate dalla scuola medica salernitana, divenutane detentrice e divulgatrice del pensiero ippocratico, della dottrina aristotelica oltre che punto di incontro dello scibile arabo, ebraico e latino; fondamenta di questo sapere e del giardino stesso era la teoria ippocratica dei quattro umori, già trattata da Empedocle di Agrigento nel V secolo attraverso gli elementi base (aria, acqua, terra e fuoco) e da Zenone di Elea che ne arricchì la tesi attraverso l’introduzione delle “qualità primarie” (caldo/freddo, umido/secco) a cui vennero associati, nel “De Natura Hominis” di Pòlibio, gli umori corporei; tale concetto armonico che regola e governa la composizione della materia come tramandò Pitagora di Samo venne ulteriormente arricchito e perfezionato da Aristotele, che alle qualità primarie abbinò due elementi, e da galeno con la scala dei “gradi“.

In pratica seguendo il principio del “contraria contrariis curantur” la vita dipenderebbe dai quattro elementi e dalle loro “qualità primarie” associate agli “umori” del corpo umano (“sangue” umido e caldo, “”flemma” freddo e umido, “bile gialla” calda e secca e “bile nera” secca e fredda) i quali determinano, stando agli antichi studiosi, il “temperamento” dell’essere umano; le malattie deriverebbero pertanto dal disequilibrio degli umori, o meglio dal “surplus” di uno rispetto agli altri, e dovrebbe essere curate con preparati “semplici” e “composti”   di natura opposta a quella dell’umore eccedente, tenendo in considerazione la gradazione correlata alle “qualità primarie”  che  disciplina posologia e potenza d’azione fisiologica del medicinale da impiegare con cautela ( dal “De Simpliciti Medicamine“, noto anche col nome di “Graduum Simplicitum” appunto, scritto da Costantino l’africano si legge: “… il iv grado è quello in cui la medicina è così calda che non si può agire senza rischiare di uccidere”); non a caso le aiuole del primo terrazzamento del giardino, suddivise in quattro quadranti da viali ortogonali tra loro, formate da quarti di cerchio concentrici, rappresentano schematicamente questa teoria che di conseguenza associava anche alle piante principi medicinali in base all’umore da curare e  alle qualità primarie insite nel vegetale stesso, espresse altresì col “virtus“, la potenzialità efficace.

Quasi come in un gioco di concordanze e contrapposizione cadenzato dai ritmi incontrovertibili del Creato e dell’umana natura dunque. 

Contraria Contrarii Curantur

 

Prima per la scomparsa dei Silvatico senza discendenti e successivamente a causa del declino della “Scuola medica salernitana” il giardino cadde in uno stato di abbandono;  nel 1666 venne acquistato il palazzo con giardino annesso da don Diego del Core e dall’atto notarile è stato possibile risalire ad una delle descrizioni del terrazzo e del giardino stesso, dando prova che già allora conservasse parte di quello che è il suo attuale sembiante; ultimo privato cittadino ad averne goduto la proprietà fu il prof. Giovanni Capasso che nel secondo dopoguerra decise di farne dono all’asilo di mendicità a Salerno, affidando il passaggio all’avv. Gaetano Nunziante, allora presidente di quell’ente di beneficenza; dopo un altro mezzo secolo d’abbandono l’importanza del giardino della minerva e la necessità di un tributo al suo ideatore e fondatore sono affiorate finalmente nel 1991 durante il tavolo di lavoro “pensare il giardino” da cui sono scaturiti, dopo quasi dieci anni, il restauro e la riqualificazione grazie ai finanziamenti del programma europeo “urban” e all’amministrazione comunale di Salerno, detentrice del bene che probabilmente, negli ultimi tempi, non ne valorizza il messaggio in maniera adeguata.

Inserito oggi tra i 100 parchi più belli d’italia il Giardino della Minerva, baciato da condizioni pedoclimatiche favorite da esposizione al sole, inclinazione dei terreni, protezione dai venti freddi e grazie alla presenza di acqua, appare dopo il suo recupero, terminato nel 2001, più rigoglioso che mai:  un nuovo sistema di canalizzazioni, vasche e fontane, originari del  1600, si sovrappone all’antico giardino medievale; di particolare pregio la fontana sormontata dal mascherone a testa di gorgòne di orgine tardo antica (rinvenuta tra le fronde della colocasia, pianta della famiglia delle “araceae” di origine indo-orientale) e la fontana della conchiglia, del ‘700, posta sul terrazzo panoramico del palazzoCapasso“, anch’esso in parte incluso nel sito; suddiviso in terrazzamenti ospitanti circa 300 specie botaniche, piantate su quattro livelli collegati da una scalea con pilastri che accolgono una pergola con una vite il giardino sembra, da questa prospettiva, voler inerpicarsi sino al Castello d’Arechi, lì sulle alture del colle Bonadies, offrendo una splendida veduta dall’alto della città vecchia, del porto commerciale e del golfo di Salerno.

Dagli antichissimi culti della dea Artemide, reminiscenza della “Grande Madre” così influente nella sfera vegetale ed umana, della medicina e della magia, venerata in tutto il bacino del “Mare Nostrum“, all’arte di preparare col vino ed altri ingredienti l’acqua teriacale, ricostituente portentoso (sobria rielaborazione della “triaca” tramandata dagli egizi ed usata allora come antidoto contro il morso di animali feroci) la Scuola Medica Salernitana studiò e stabilì scientificamente sia le proprietà salubri del vino tal quale che ad uso terapeutico, come anzidetto, tramandandone gli insegnamenti anche ad allievi del calibro di Arnaldo De’ Villanova; dai precetti delle discipline botaniche di Nicola di Damasco, successivamente rielaborate e trasmessi da Aristotele, a Teofrasto di Ereso, al quale si deve l’ “Historia Plantarum”; dall’evoluzione della tradizione botanica greca innescata da Dioscuride Pedanio di Anazarbe col suo “Erbario“, ( o “Codice di Giuliana Anicia“, dal nome della principessa bizantina che ne commissionò la stesura intorno al 512 d.c.), contenente le prime norme sulle preparazioni erboristiche all’ingegno di Galeno di Pergamo, enciclopedista della medicina antica e pioniere nella classificazione dei rimedi derivanti dai “semplici” inquadrandoli nel suo trattato “De Simplicitum Medicamentorum Temperamentis ac Facultatibus” (opera irrinunciabile da cui partire per la ricerca di una corretta tassonomia come fece Gariponto per il suo “Dynamidia“); un sapere a cui Costantino l’Africano poté attingere e successivamente trasmettere grazie alle sue traduzioni effettuate su tantissimi manuali di medicina araba e alle opere scritte da Al Kindi, primo filosofo musulmano al quale si va ad aggiungere la conoscenza degli autori latini, Plinio fra tutti….insomma, una sorta di grande ghirlanda sapienziale, idealmente intrecciata con magia antica, scienza, pensiero filosofico e alchimia,  fluttuante nel mare del tempo e raccolta da Matteo Silvatico per arricchire di pura, efficace bellezza lo spirito stesso del giardino sin quando il testimone, per il miglior esito del progresso, non è passato nelle mani di Linneo, padre della moderna nomenclatura scientifica, con cui sono classificati gli esseri viventi, e  fautore dell’introduzione del metodo della “nomenclatura binominale” nel 1735, a cui il governo svedese ha dedicato il” Linnéträdgården“, l’orto botanico di Uppsala gemellato appunto col  giardino salernitano.

Chi si addentra nel Giardino sappia che solo chi non si ferma è perduto e si conceda almeno il tempo di annusarne la storia, le infiorescenze e gli aromi. Facendo capolino tra il fogliame della colocasia si avvertono miriadi di profumi che durante l’anno si avvicendano assieme ai colori della vegetazione… dal cumino tedesco ai frutti del carrubo, del cetrangolo e del cotogno, dal gelsomino d’Arabia al giglio martagone, dal mirto tarantino al corbezzolo e all’assenzio, dall’erba limoncina sino alla rara mandragora, per autunnale o primaverile che sia, in un inebriante gioco che accattiva tutt’e cinque i sensi.

Il Giardino della Minerva è la porta di accesso per un viaggio a ritroso nella storia e nella memoria di una natura d’altri tempi e felicemente rivelata, qui disponibile e mai mortificata dall’uomo, che si apre, passo a passo e di stagione in stagione, nelle diverse sfumature cromatiche e olfattive; è uno dei tesori più preziosi, un’eredità irrinunciabile rappresentata da ciò che meglio incarna: la sintesi dei biotipi e dei paesaggi più significativi del Mediterraneo, una dimostrazione efficace di medicina della terra e di quanto sia necessario non lasciare alla dimenticanza l’esperienza e la conoscenza del passato altrimenti perdute e a noi restituite per poterne condividerne ancora la bellezza e l’insegnamento, ma soprattutto un luogo di raccoglimento interiore e a misura d’uomo.

link utili:

http://www.giardinodellaminerva.it/

 

 

1 thought on “Terra in fiore: storia dei Giardini della Minerva

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