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Quando entrai era lì, appoggiata al letto, il capo leggermente inclinato concentrata a esaminare il vassoio che conteneva il suo pranzo.
“Guarda cosa mi fanno mangiare!”

Mi fece indicandomi il freddo piatto di plastica bianca nel quale giacevano una manciata di penne mal condite.
“Non ha sapore! Niente ha sapore qua, non riesco a mangiare”
Mi disse disgustata lasciando trapelare la frustrazione e l’assurdità che trasudava quel momento.

Lei che per anni aveva sfamato la mia famiglia, i cui sforzi in cucina avevano fatto da cornice per ogni festività e celebrazione era li riversa su quel piatto di miseria a contare i pezzi di pasta che la separavano alla fine di quello strazio che definivano pasto.
Non riuscivo a vederla così, non lei. Nervosamente osservavo l’orologio cercando di spingere le lancette con lo sguardo, convincendo il tempo a passare più velocemente per poter fuggire da quella realtà così assurda.
Tornato a casa i pensieri mi raggiunsero, quella fuga momentanea non aveva che rimandato il mio confronto con la sua malattia, con la sua fragilità, con la sua mortalità.
“Ci deve essere qualcosa che posso fare” “Non è possibile che proprio lei debba finire emaciata su un letto d’ospedale”.
Mi concentrai mi sedetti e ricercai tra i miei numerosi libri di ricette. Provai a riportare alla mente i ricordi di pietanze e pasti passati.
Nella mia presunzione credevo che i miei anni di esperienza tra le cucine di mezzo mondo potessero aiutarmi a dare a quella persona a cui debbo alcuni dei più bei ricordi alimentari un pasto degno di tale nome.
Comprendevo che ai più questi sforzi potevano sembrare sciocchi o quantomeno singolari ma non riuscivo a pensare che quel vassoio spoglio fosse per lei una condanna a vita.

Preso dallo sconforto mi confrontai con mia madre la quale sembrava conoscesse ogni angolo, ogni anfratto di quel mostro che stava divorando mia nonna.
“Purtroppo non è possibile..”
“Mi spiace abbiamo chiesto al medico ma…”
“No, così potrebbe lasciarci”
Uno tsunami di “no” che mi lasciò a terra confuso e frustrato come un naufrago dopo una tempesta.
Dalla frustrazione passai alla rabbia per quel male che la affliggeva.
Infine compresi.
Quel mostro che combatteva, non era che se stessa. Tutte le limitazioni alimentari che le erano state inflitte non erano altro che debiti presi con la propria salute e che ora il corpo era venuto a riscuotere.
L’impotenza di questa situazione mi aveva tolto molte delle mie convinzioni e certezze e aveva palesato come il mio addestramento culinario mi avesse portato soltanto a sviluppare una conoscenza superficiale dell’alimento, realizzando che noi cuochi non comprendiamo a pieno le implicazioni effettive che questi hanno sulla salute di chi li consuma.

La mia, come quelle di tanti altri, è una storia di ignoranza frutto di come la nostra società positivista veda a compartimenti stagni la cucina con la medicina dell’alimentazione.
La correlazione tra “cura e alimento” viene ignorata per l’ambizione capitalista di massimizzare le vendite di medicinali e di cibi, resi appetibili solamente dall’enorme quantità di zuccheri e grassi saturi al loro interno.
Questa correlazione che abbiamo silenziato nella nostra cultura moderna è però presente in tutte le culture più antiche del pianeta.
Culture come quella greca, egizia, cinese e indiana che non individuano un netto confine tra medicina e cucina ma identificano un’area grigia che le include entrambe.

Spesso i “rimedi della nonna” risalgono a queste radici i quali vengono lentamente riscoperti dalla comunità scientifica nella loro validità. Ippocrate, padre della medicina occidentale, nei suoi testi descrive, per esempio, le proprietà antibatteriche del vino e dell’aceto i quali contengono gli acidi fenoli che sono tuttora l’elemento principale nei nostri sistemi disinfettanti a base di alcool.

Sorvolando i numerosi altri rimedi “naturali” antichi si può apprezzare in queste protomedicine anche l’approccio sistemico e olistico alla cura dell’individuo, e di come abbiano influenzato la cultura culinaria mondiale tanto da poter rintracciare in pratiche mediche l’uso di ingredienti comuni nella cucina indiana e cinese.

Volendo appunto identificare le radici della cultura culinaria di queste macroregioni si può fare riferimento principalmente a due testi di natura medico- religioso che rappresentano la fonte dalla quale si sono sviluppate sia la gastronomia che la medicina tradizionale Cinese e Indiana. Questi testi sono: l’Ayurveda e i Tao te ching.
Queste opere diverse quanto simili rintracciano nell’alimento e nel modo di consumarlo le radici di possibili malesseri e malanni.
Nel Tao te ching si riconosce addirittura la dieta dell’individuo come uno dei tre fattori che conducono al malessere del paziente, assieme all’ambiente a all’umore. Questo concetto viene in seguito sviluppato ulteriormente in altri testi successivi rimarcando come sia l’inadeguatezza nella qualità e quantità degli alimenti consumati dal paziente tra le cause principali di eventuali problemi fisici o mentali.
L’altro testo: l’Ayurveda ha un rapporto ancora più accentuato con l’origine della gastronomia locale, nel manuale indiano l’analisi del trattamento più adatto è condotta attraverso un attento esame della dieta del paziente ricercando appunto un eventuale mancanza di equilibrio nei sei sapori primari: Dolce, Acido, Salato, Pungente, Astringente e Amaro.
Attraverso, quindi un analisi sensoriale la disciplina ayurvedica ci aiuta a tracciare e bilanciare una dieta che contenga tutti i sapori primari. Questa ricerca del bilanciamento di questi sapori può essere tuttora riscontrata nella cucina indiana, eredità di questi metodi curativi arcaici.
In sintesi tra i fili conduttori che possiamo tracciare tra queste medicine prescientifiche risulta essere particolarmente innovativa la figura del medico il quale analizza in maniera certosina le relazioni che ha l’individuo con la sua dieta e l’ambiente che lo circonda, ricercando quindi in questi fattori le cause degli squilibri psico-fisici del paziente.

Questo elemento risulta ahimè decentralizzato nella medicina moderna nella quale la diretta correlazione “causa-effetto” rappresenta l’elemento centrale del lavoro del medico. Nonostante appare scontato che un approccio curativo basato esclusivamente su queste medicine tradizionali sia sbagliato e antiquato e che addirittura possa causare più danni di quanti si proponga di risolverne.
Appare quindi consigliabile reintegrare alcuni elementi presenti nell’antichità nella scienza odierna, rivalutando della gastronomia nel suo ruolo curativo.

In Italia qualcosa si muove in tal senso. La nostra profonda cultura gastronomia sta lentamente influenzando la gestione delle mense ospedaliere.
Fra i primi a sollevare il quesito è stato lo chef Niko Romito grazie al progetto “Intelligenza Nutrizionale”. Questo progetto, sviluppato in collaborazione con l’Ospedale Cristo Re di Roma, si propone di riportare la ristorazione collettiva alle sue radici medioevali per la quale era ritenuta “la massima espressione di attenzione verso i pazienti assieme alle preghiere”. Questa infatti spesso schernita per la sua bassa qualità e indifferenza verso il consumatore rappresenta per lo Chef tristellato un importante megafono attraverso il quale educare le masse.
Una rivoluzione dal basso, insomma, la quale si sviluppa in un progetto di ricerca culinario incentrato sulla sostenibilità economica e lavorativa. Quest’ultima rappresenta infatti uno degli elementi tecnicamente più complicati.

Il mantenimento degli standard in strutture cosi grandi e dispersive, è l’elemento centrale dello sviluppo del progetto. Le due cucine: quelle di alta ristorazione e quelle collettive, per lo chef non differiscono molto per strumentazione ma per metodologia di lavoro.
Per cambiare questo si è dovuto in primis sviluppare una nuova filiera più comprensiva delle tecnologie e delle tecniche moderne e soprattutto far innamorare i cuochi delle mense alla cucina, concetto assurdo per i non addetti ai lavori ma elemento purtroppo familiare per chi è costretto giornalmente a nutrire migliaia di persone.
Un’altra avanguardia in tal senso è rappresentata dal Policlinico Sant’Orsola – Malpighi a Bologna nel quale è partito recentemente un nuovo progetto: CRUNCH (Cucina e Ristorazione Uniti nella Nutrizione Clinica Hospedaliera). Questo progetto si propone non solo di migliorare la cucina e la dieta ospedaliera ma attraverso un mercato periodico di produttori selezionati da Slow Food dell’alimento di educare i pazienti e i loro familiari alla stagionalità e su l’alimento sia esso stesso parte delle cura.

A questi progetti e a tanti altri che prenderanno forma affidiamo la nostra fiducia, sperando di non doverci trovare noi stessi un giorno nel letto di un ospedale a osservare un piatto incapaci di accettare una cura che sembra peggiore della malattia.

2 thoughts on “Il cibo che cura: la rivoluzione in atto in ospedale

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