Trionfo_della_morte
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Pandemie e letteratura. Dalla mitologia greca a Stephen King passando per Alessandro Manzoni, Mary Shelley e Albert Camus, numerosi sono gli scrittori che si sono lasciati sedurre dall’ispirazione delle malattie contagiose sfocianti in epidemie o pandemie.

Il fantasma di una pandemia ha da sempre nutrito la fervida immaginazione degli scrittori che ne fecero anche un mito letterario accarezzato dal genere fantastico.

La peste, il colera, il tifo, la tubercolosi, la sifilide, l’aids, l’ebola…solo per citare le principali malattie che hanno terrorizzato intere generazioni, sono anche state lo spunto per elaborare metafore ben più ampie sull’ipocrisia, sulla corruzione dei costumi, sui più bassi istinti dell’essere umano.

Le pestilenze considerate anche come rivelazione di un fondo di crudeltà sempre insito e latente nell’uomo, come messa a nudo di uno spaventoso individualismo, di una cattiveria malsana e serpeggiante che emerge in situazioni estreme ma esiste da sempre, come fuoco sotto la cenere.

Vere o create dalla fantasia degli autori, le pestilenze rappresentano delle apocalissi che aprono le porte a nuove albe sociali.

Nel momento in cui il Covid-19 si propaga ad una rapidità sorprendente, tuffarci nella lettura di capolavori letterari potrebbe illuminarci sulla dimensione universale dell’uomo che trascende la singolarità.

Cambiano le epoche, le malattie, la gravità del morbo, i luoghi, i personaggi, ma le reazioni umane e sociali nei confronti delle pandemie non cambiano.

Da siracusana nutrita al seno dalla mitologia greca, comincerò dall’Edipo re (V secolo a. C.) tragedia appartenente al ciclo tebano del grande Sofocle.

Nell’opera, l’autore utilizza la peste come strumento per permettere a Edipo di compiere il proprio destino. La peste come chiave del fato. La peste come conseguenza delle colpe di Edipo che ha sovvertito l’ordine naturale delle cose per aver inconsapevolmente ucciso suo padre e aver giaciuto con sua madre Giocasta.

La pestilenza falcidia la popolazione di Tebe durante la reggenza di Edipo.

Questi ordina allora al cognato Creonte di recarsi presso l’oracolo di Delfi il quale risponde che occorre espellere dalla società l’assassino del re Laio, padre biologico di Edipo. Solo così la città di Tebe sarà salva.

Seguendo i consigli dell’oracolo, il re Edipo scopre di essere l’assassino del suo stesso padre non essendo a conoscenza dell’esserne il figlio. Di conseguenza, si è macchiato d’incesto con Giocasta.

Quest’ultima, scoprendo l’atroce verità, s’impicca ed Edipo si acceca utilizzando le fibbie dell’abito della madre.

La peste, quindi, diventa anche metafora di una violenza che si spande per la città di Tebe in maniera contagiosa.

Andando avanti nel tempo, giungiamo al XVII secolo quando lo scrittore francese Jean de la Fontaine rievoca la malattia nell’opera « Gli animali malati di peste ».

La parola « peste » fa talmente paura che non viene quasi citata se non al quarto verso. Se ne parla come di un male che diffonde il terrore e che il cielo ha inventato per punire i crimini della terra.

Il re deve trovare una soluzione e propone d’immolare il « più colpevole » al fine di sacrificarlo.

Paradossalmente, è l’asino, il più ingenuo fra gli animali ad essere sacrificato, anziché venir ricompensato per il suo eccesso di onestà.

La peste dunque come paradosso, come metafora dell’ingiustizia sociale che punisce i miserabili e premia i potenti. La peste come allegoria di un mondo corrotto pervaso dalla menzogna, da trame, calcoli e opportunismo.

Veniamo ai Promessi Sposi del Manzoni che m’ispirano delle particolari analogie con l’attuale epidemia di coronavirus.

Quando giungono le prime notizie sui morti nei paesi che circondano Milano, la reazione delle autorità e del governatore Ambrogio Spinola, sono improntate all’indifferenza al problema.

Anche la popolazione milanese sembra tranquilla e scevra dall’idea del contagio. La peste, quindi, entra trionfante a Milano ed è solo allora che parte della popolazione e le autorità prendono coscienza del grave pericolo che incombe sulla città.

Il 29 Novembre del 1629, un’ordinanza impedisce l’ingresso nella città a coloro che provengono dalle zone pestilenziate.

La città impone misure per evitare il propagarsi della malattia ma la gente, per sentimenti meschini come l’avidità ma anche per paura, le elude.

Il medico della peste Lodovico Settala sarà addirittura aggredito perché il popolo non si risolve ad ammettere l’esistenza e il contagio del morbo.

Intanto la peste avanza ma si parla di febbri pestilenti, termine che attutisce la paura, fa meno impatto sulla gente. Solo i morti ormai, sempre più numerosi, iniziano a far riflettere sul fatto che i pericoli evidenziati dai medici erano reali.

Il lazzaretto si trasforma in un luogo infernale e quasi ingovernabile. Appare però la speranza rappresentata dai frati che con spirito di abnegazione e sacrificio vi riportano la pace.

Lo scetticismo, tuttavia, non finisce qui. C’è chi continua a negare l’esistenza della pestilenza, altri non credono al contagio per contatto e si scagliano contro « gli untori », personaggi che avrebbero unto gli ammalati con unguenti mortali.

Le autorità vengono costrette ad esporre i cadaveri in processione per convincere il popolo che la pestilenza è reale.

Nel caos più totale, le autorità non smentiscono la diceria dell’untore, nonostante il tribunale della Sanità abbia dichiarato falsi gli episodi di spargimento dei veleni. Si moltiplicano intanto le violenze perpetrate dai birri e dai monatti, mentre il clima diventa insostenibile, entrando in gioco una suggestione collettiva dell’unzione.

I mitomani si dichiarano untori, vengono fuori storie incredibili legate al demonio cui danno credito perfino alcuni medici.

Il cardinale finisce per credere agli untori e gli scettici rimangono silenziosi. I presunti untori subiscono processi insensati e molte orribili condanne saranno eseguite ingiustamente. Manzoni ne tratterà poi più approfonditamente in Storia della colonna infame.

Nel 1826 vede la luce il romanzo di Mary Shelley, autrice di Frankenstein, L’ultimo uomo.

Si tratta di una sorta di novella filosofica che intende « castigare » il genere umano tramite una peste che colpirà nel 2092, epoca « bizzarra » considerato che l’autrice fa ancora combattere le guerre a cavallo in un ingenuo anacronismo.

L’interesse dell’opera infatti non risiede nel realismo, né sulle verità storiche a volte erronee ma nel testimoniare il nichilismo tipico della prima generazione dei Romantici europei.

La peste, quindi, come mezzo punitivo per far sparire un’umanità che non merita di vivere, lasciando intatti gli animali e la Terra.

Ritornando in Francia, lo scrittore e attore Antonin Arnaud scrive nel 1938 « Il Teatro e la peste ».

In quest’opera la peste viene assolta in quanto, come il teatro, « scioglie i conflitti, libera delle forze, innesca delle possibilità e se tali possibilità e tali forze sono nere, è colpa non tanto della peste e del teatro, ma della vita. »

In tal senso, la peste rivela una cattiveria soggiacente alla natura dell’uomo ma non ne è la causa.

L ‘aspetto più importante del romanzo rimane però l’esplorazione delle reazioni umane di fronte alla « peste/guerra. »

Alcuni si prodigheranno generosamente a combattere l’epidemia, mentre altri fuggiranno e i peggiori di tutti, simili a sciacalli, vorranno trarre profitto dal caos provocato dall’epidemia.

Rimanendo in terra francese, nel 1947 viene pubblicata La peste di Albert Camus.

Siamo all’indomani della Seconda Guerra mondiale e la peste non è altro che un’allegoria degli orrori della guerra.

Le sepolture a catena, le fosse comuni, l’universo del « concentramento » rimandano chiaramente ai campi nazisti.

Concluderei la mia carrellata letteraria, non esaustiva, citando due autori contemporanei Stephen King e Tony Kushner.

Il primo, nel suo romanzo apocalittico L’ombra dello scorpione pubblicato nel 1978, fa morire quasi tutta la popolazione dell’America settentrionale e presumibilmente del pianeta, con un’arma batteriologica sfuggita al controllo dell’uomo.

Si tratta di una mutazione fatale dell’agente eziologico dell’influenza caratterizzato da un tasso di contagio del 99,4 % e un tasso di mortalità per gl’infetti del 100%.

Parallelamente all’evoluzione di questo flagello, l’autore ci presenta il destino di alcune persone che sembrano essere naturalmente immunizzati contro tale « super-influenza. »

Una curiosità sul romanzo è che due lunghi passaggi furono interamente censurati. Il primo rappresentava dei soldati neri che si vendicavano della gerarchia militare bianca organizzando delle esecuzioni per sorteggio diffuse in televisione.

Il secondo descriveva un’esperienza sessuale fra due uomini legando intimamente il concetto di orgasmo a quello della morte.

La pandemia d’influenza in questo romanzo distingue quindi il Bene dal Male, i buoni dai cattivi. Anche i sopravvissuti formeranno due campi diametralmente opposti, riproducendo l’eterna lotta sopracitata.

Gli anni ’80 e ’90 sono stati tristemente caratterizzati dal diffondersi del virus responsabile dell’Aids.

L’autore Tony Kushner, ispirandosene, ambienta il suo romanzo Angeli in America nella New York del presidente Ronald Reagan. In questo romanzo l’epidemia della malattia vuol rappresentare un’allegoria dell’individualismo, del narcisismo e dell’opportunismo.

Uno dei protagonisti principali, Roy Cohn, ispirato da un consigliere del senatore Joseph McCarthy realmente esistito, è un’ambizioso avvocato gay che utilizzerà le sue amicizie politiche per ottenere una terapia allora in voga e disponibile per pochissimi privilegiati di cui deve assolutamente far parte.

Cohn usa tutto e tutti. I suoi amici, le sue relazioni sono « usa e getta. » Non si lega a nessuno per non soffrire.

In tale universo spietato la tenerezza di qualche personaggio viene ad attenuare la crudezza dell’atmosfera.

Un infermiere transessuale sostiene il suo compagno durante le prove della malattia. Una mamma mormona si supera fino a farsi violenza per accettare l’omosessualità del figlio e soprattutto gli angeli accompagneranno fedelmente i personaggi nella loro fuga in avanti.

Sperando che i miei piccoli spunti letterari contagino i cari lettori di Mediterranea, chiedo venia per gli eventuali effetti collaterali come l’assuefazione ai bei romanzi.

5 thoughts on “Pandemie e letteratura, il contagio delle idee

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