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La chiusura dell’Italia, per l’emergenza COVID-19, ha sospeso temporaneamente le nostre vite, stravolgendo le nostre abitudini.

Viviamo tutti come sospesi in una bolla, soprattutto noi nati molti decenni dopo l’ultima guerra, sebbene ci si possa perfino spingere ad affermare che neppure chi ha vissuto quel tragico evento ricorda un dramma di siffatte proporzioni per le molteplici implicazioni che via via stanno sorgendo. Del resto, nel nostro paese, nemmeno gli anni caratterizzati dagli attentati terroristici erano stati capaci di stravolgere fino a tal punto le abitudini degli italiani. I cosiddetti anni di piombo, e ce lo ricorda l’antropologo Marco Aime, furono fenomeni complessi ma pur sempre comprensibili nel senso di spiegabili in quanto frutto e conseguenza di agiti e azioni umane.

Oggi, contrariamente a quegli anni, siamo al cospetto di qualcosa di nuovo e profondamente diverso. Un evento, un fenomeno improvviso che può essere analizzato sotto diversi punti di vista: sociale in primo luogo ma pure culturale. Soprattutto si tratta di un evento capace di suscitare in noi paure ancestrali di cui nemmeno avevamo più consapevolezza. Sopite e nascoste in un angolo remoto della memoria gran parte di noi le aveva perfino dimenticate. Improvvisamente, da un giorno all’altro, ecco che ricompaiono e ci destabilizzano. La situazione sembra sfuggire di mano, non riusciamo ad averne il controllo e non è difficile comprenderne la ragione.

Il virus è qualcosa che ci sfugge perché non è identificabile. É impalpabile, prosegue Marco Aime, si nasconde chissà dove: possiede in altre parole tutti i connotati che possono scatenare in noi la paura. Anche perché, non dimentichiamolo, Il COVID-19 ha una portata mondiale; la sua diffusione non è circoscritta a una determinata area geografica. È ovunque, si espande a macchia d’olio, e, quantomeno nell’immediato, non può essere neppure comprensibile perché estremamente difficile e complessa risulta esserne l’analisi. Non è infatti un comportamento che, in quanto tale, seppur nei suoi aspetti di devianza, può essere studiato e capito.
In tanti, tra noi antropologi, e non solo, abbiamo iniziato ad interrogarci intorno ad esso e alle sue conseguenze ed eventuali ricadute in ambito umano, sociale e relazionale e nello specifico abbiamo provato ad avanzare delle ipotesi intorno a ciò che resterà di questo periodo quando, ci auguriamo molto presto, potremmo lasciarci il pericolo del contagio alle spalle. Come cambieremo se cambieremo?

Una cosa è certa: il Coronavirus ha aperto, nel nostro paese, e forse si potrebbe azzardare più in generale nel mondo occidentale, una voragine sul tema delle relazioni intergenerazionali, dove una fetta importante degli anziani sembra averlo considerato, almeno nella sua fase iniziale, alla stregua di una qualsiasi influenza, al limite solo più “maligna” delle altre, mentre nei bambini la principale paura che si manifesta è che ai genitori accada qualcosa. I bambini, infatti, hanno la percezione che la propria sicurezza dipenda dai genitori e dal loro stato di salute, aspetti questi strettamente connessi e da cui si origina appunto la paura tra gli anziani e i bambini, infine, ci collochiamo noi, gli adulti di oggi, che davanti all’avanzare del nuovo pericolo sembriamo via via recuperare quella che come antropologi definiamo la “mutualità dell’essere”, la consapevolezza che la nostra individualità sia costituita da una rete di relazioni e non dal distacco da quelle relazioni come fino a ieri avevamo inteso il nostro essere nel mondo.

Il Coronavirus mette, dunque, in scena un dibattito pubblico sul senso dell’agire sociale. Siamo da soli, o al massimo legati, ridotti alla rete biologica delle interconnessioni sentite e vissute come naturali e necessarie, per esempio la famiglia, oppure la nostra umanità di “animali sociali e politici”, disposti a condividere la vita sociale, presenta ancora dei margini? Siamo in grado di pensarci come una comunità al di là di quel che è primariamente biologico e necessario? Possiamo ancora scegliere a chi appartenere, dove e con chi appartenere, oppure si domanda l’antropologo Pietro Vereni, “siamo ridotti a corpi nudi legati al massimo da tenui catene di DNA e di istinto di sopravvivenza?”
Il Coronavirus sta costringendoci, in fretta, a dare una risposta a queste domande.

Non è un caso, infatti che oggi tutti noi restiamo a casa per non infettare e non solo per non infettarci. Il COVID-19 rappresenta per ciascuno di noi l’occasione per rivedere il nostro approccio alla vita ed è in questo senso che può diventare una sorta lectio magistralis di antropologia, a patto di riuscire a cogliervi l’invito, che è anche un appello ad un vivere e ad un vivere con, ad un vivere insieme all’altro da me, che non è semplice coesistere, perché intessuto, nelle trame della vita e della morte, dell’amore di sé e dell’amore dell’altro.
Abbiamo la grande opportunità di tornare a vivere con pienezza, consapevoli che si vive con pienezza solo laddove si sia disposti ad accettare la sfida dell’alterità.

Il COVID-19 sta, intaccando la parte emotiva di ognuno di noi ed è per questo che è importante imparare ad orientare i propri pensieri, emozioni e comportamenti in modo più adattativo per la situazione storica che stiamo vivendo. Le emozioni arrivano forti, soprattutto l’ansia e la paura, che non è solo paura di ammalarsi a nostra volta perché contagiati. Si tratta di paure legate anche a preoccupazioni di tipo lavorativo ed economico riferite al presente o a quanto ci attenderà una volta che avremo superato questa fase. Emozioni che ci rendono, dunque, ancora più fragili e soli o che tali ci fanno sentire
D’altra parte, e lo scrivevamo poc’anzi, il COVID-19 ci sta obbligando a riprendere in mano ciò che col tempo abbiamo perso: la responsabilità di prenderci carico di noi stessi e degli altri, soprattutto da un punto di vista emotivo.
Ci siamo resi improvvisamente conto dell’esistenza di un sistema di reciprocità generalizzata, che ci fa pensare o ripensare a tutta una serie di beni e servizi che non abbiamo comprato, che non sono stati mercificati, e che in realtà rappresentano il cemento delle nostre relazioni affettive e sociali.
Ecco, dunque, che improvvisamente sentiamo forte il desiderio, che si fa non di rado necessità, di essere di aiuto per coloro che sono o percepiamo essere più a rischio: magari facciamo una telefonata in più a chi è più fragile, trascorriamo del tempo di qualità con i nostri figli o con i genitori oramai anziani.

In questo momento in cui siamo tutti “obbligati” a fermarci, riscopriamo il piacere e il valore insito nell’aiutare chi ha più bisogno di noi: lo facciamo con gesti semplici come il fare la spesa o procurargli le ricette e i farmaci necessari.
Stiamo gradualmente riscoprendo un tessuto sociale fatto di reciproca solidarietà per così dire “transclassista”, di parole condivise assieme ai corpi, e che attualmente sembrano rappresentare l’unica salvezza del mondo.
Diventiamo in altre parole noi, in primis, esempio per gli altri e iniziamo a seguire con grande zelo e rigore le direttive date dal governo, le regole imposte, accettiamo i consigli che ci forniscono gli esperti e il personale sanitario, fosse solo per una forma di rispetto nei confronti di chi sappiamo essere esposto quotidianamente al rischio di contagio pur di fermare l’emergenza. Siamo cioè disposti a fermarci, cessiamo improvvisamente di lamentarci. Non fuggiamo più davanti alla paura o alla rabbia, che al contrario sembriamo disposti ad accogliere; mentre ci sforziamo di razionalizzarle, le facciamo nostre nella speranza, forse, di riuscire a vedere le cose nella giusta misura, quasi che questi atteggiamenti ci permettessero di mettere meglio a fuoco la realtà per poi meglio affrontarla.

Del resto, sappiamo che una delle funzioni principali del nostro cervello emotivo è di aiutare ciascun individuo, e la razza umana più in generale, a sopravvivere. Come avvertono gli studiosi, tra i quali il prof. Perna, docente di Humanitas University e responsabile del Centro per i disturbi d’ansia di Humanitas San Pio X: “in caso di pericolo, l’evoluzione ha selezionato le emozioni negative come il miglior sistema di difesa per la nostra sopravvivenza. Dunque, vivere la paura, la rabbia e la tristezza in un momento pericoloso per noi come individui e per la nostra razza è assolutamente normale e salutare. Pertanto, il generalizzato senso di paura e ansia, se da un lato ci crea disagio, dall’altro potenzia le nostre capacità di difenderci stimolando l’attenzione, la cautela, rendendoci più reattivi. In un momento di pericolo la paura e l’ansia di ognuno di noi diventano armi preziose e fidate consigliere per mettere in atto tutte le difese e i comportamenti necessari per superare il momento difficile”.

“Mò a da passà ‘a nuttata” scriveva il grande Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria; ma domani, verosimilmente, ci sveglieremo con le idee un po’ più chiare e se come sembra il Coronavirus sta costringendoci, in fretta, a dare una risposta a tante terribili domande, allora dovremmo davvero avere il coraggio di guardarlo senza abbassare lo sguardo.

2 thoughts on ““Gli altri siamo noi. Il bicchiere mezzo pieno al tempo del #COVID-19, il virus invisibile che, forse, ci cambierà

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