Paolo Fresu
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Time in Jazz si avvia a ripartire. Il festival ideato e diretto da Paolo Fresu  avrà luogo come di consueto nel cuore dell’estate isolana e, nell’anno dell’incertezza sanitaria globale, proverà a dire “33”, un numero emblematico, non a caso carico di vibrazioni e risonanze. Il trombettista  sardo, la cui vocazione pionieristica e visionaria segna tutti i passaggi della  sua carriera artistica, ci racconta la nuova sfida.

“Il programma del festival – spiega il direttore artistico e patron della manifestazione – era pronto sin da gennaio, e la conferenza stampa, che avrebbe visto confluire a Berchidda i giornalisti da tutta Italia, era programmata per fine aprile. L’irruzione improvvisa del Coronavirus ha impedito l’iniziativa, ma ci siamo rifatti, perché la videoconferenza con la  stampa, trasmessa in diretta streaming il 26 maggio nei canali social, è stata una delle più riuscite. Oltre a centinaia di sostenitori, hanno aderito  in maniera entusiastica anche i rappresentanti delle istituzioni locali coinvolte, vincendo la ritrosia iniziale dovuta alle fluttuazioni della pandemia.

Perché è importante ripartire e, pur nell’incertezza del futuro imminente, non rinunciare al Festival?

In questo periodo tante realtà artistiche manifestano il desiderio e la volontà di ripartire. Time in jazz vuole porsi come un apripista, dando un segnale forte di rinascita. Inoltre è urgente rimettere in moto  l’economia,  far lavorare gli artisti e tutte  le  figure professionali che ruotano intorno al mondo dello spettacolo, che vive un momento di crisi profondissima. Quel che temo è che, se non si riparte in fretta, il 50% dei lavoratori dell’arte, circa mezzo milione di persone, ossia il 6% della popolazione italiana, rischi di dover cambiare mestiere.

Nella scelta di andare avanti, quanto ha pesato la responsabilità nei confronti della comunità del tuo territorio di origine?

Time in jazz, oltre che un’industria culturale, è un progetto sociale. Il costo complessivo annuo della manifestazione si aggira intorno ai 700 mila euro,  di  cui il 65% circa deriva da finanziamenti pubblici erogati da 2 assessorati regionali e dal FUS [Fondo Unico per lo Spettacolo, ndr], e produce un indotto economico netto sul territorio del Nord Sardegna di circa 3 milioni di euro. Reinvestire i soldi pubblici in attività a favore della comunità è una responsabilità alla quale non intendiamo derogare, soprattutto in un momento in cui c’è un gran bisogno di reimmettere liquidità in circolo. Ma non si tratta solo di denaro: l’impegno è anche quello di  offrire  una  possibilità di svago e di leggerezza. Le persone, dopo  il  lockdown, desiderano rincontrarsi, e la musica ha la straordinaria capacità di abbattere le distanze fisiche e di unire le persone idealmente.

Come riuscirete a coniugare il desiderio di godere degli spettacoli in  compagnia con le norme di distanziamento sociale?

Siamo fiduciosi, ma anche consapevoli del fatto che non sarà facile. Ci saranno spese ingenti da sostenere per ottemperare alle regole sanitarie, inoltre saranno venduti meno biglietti: la platea della Piazza del Popolo di Berchidda sarà ridotta da 1200 posti a circa 350. Se pensiamo che mediamente confluivano in paese dalle 30 alle 35 mila persone da tutta  Italia e non solo, è una grossa perdita. Il festival si contrarrà inoltre di 2 giorni, ma con ben 60 eventi tra quelli che si svolgeranno a Berchidda e quelli decentrati nei Comuni sparsi nel territorio che aderiscono alla manifestazione. Stiamo valutando anche la possibilità di fare doppi concerti in piazza; gli artisti si sono resi disponibili a questa eventualità senza costi aggiuntivi. E’ il momento della solidarietà, senza però far venir meno la dignità del nostro lavoro. Per questo abbiamo  deciso  di  non ridurre  i  cachet  concordati  inizialmente, nonostante l’aumento dei costi di organizzazione.

La programmazione artistica del festival è stata stabilita ben prima della pandemia. Come doveva essere e come sarà?

Ci tengo a dire che non sarà un festival di ripiego. Nonostante le restrizioni,  il  programma orginario sarà garantito all’80%. Sono stati annullati due appuntamenti importanti: il concerto di Archie Shepp, a causa delle frontiere chiuse con la Francia e dell’età avanzata del musicista, e lo spettacolare concerto dei 100 Cellos, il visionario progetto creato e diretto da Giovanni Sollima ed Enrico Melozzi, che riproporremo nel 2021. Sarebbe stato complicato gestire la performance di 100 violoncellisti per via delle norme di distanziamento sociale che vigono non solo per il pubblico, ma anche per gli artisti sul palcoscenico.

E’ stato però proprio questo progetto a suggerirti la vocazione ideale e il titolo stesso di questa edizione…

Esatto. Il festival si intitolerà “Anima”, in sardo “Anemos”. Questo perché i violoncellisti avrebbero dovuto essere ospitati per alcuni giorni ognuno nella casa di un berchiddese, accolti come fitzos de anima, in riferimento a un’antica pratica che vigeva in Sardegna sino alla fine degli anni ’70, ossia l’affidamento di figli da parte di genitori biologici ad altri adulti appartenenti di solito alla stessa comunità. Il richiamo all’anima sta ad indicare una certa sacralità insita nell’atto di accoglienza e protezione di un ospite all’interno della propria casa e in seno a una comunità. L’anima inoltre è anche il piccolo cilindro in abete posizionato all’interno degli strumenti ad arco, che ha la funzione di regolare l’emissione e l’equilibrio del suono, determinandone la specifica personalità. Un titolo quindi con una doppia valenza profonda e evocativa.

Tra gli artisti ci sono anche importanti conferme. Ci puoi dare qualche altra anticipazione?

Sarà presente l’imponente produzione ideata da Rita Marcotulli dedicata a Caravaggio, dal titolo “Caravaggianti”. Il progetto prevedeva voluminose strutture sul palco e la partecipazione di diversi musicisti provenienti dall’estero; avrà luogo invece in forma ridimensionata, e le musiche saranno eseguite in Trio. Dovendo evitare i lunghi viaggi dei musicisti, sarà valorizzata in compenso la musica made in Italy. Daniele Silvestri omaggerà De André all’Agnata e ci saranno tanti illustri colleghi come Fabio Concato,  Roberto Cipelli, Luca Aquino, Karima, Raffaele Casarano, Marco Bardoscia, Paolino Dalla Porta e Antonello Salis, che festeggerà i suoi 70 anni con un recital in solo. Ci sarà anche la sopresa del giovanissimo Giacomo Vardeu, che a soli 11 anni è già un talento dell’organetto sardo.

Le consuete attività collaterali al festival sono confermate?

Si terranno tutte le attività che ormai fanno parte integrante della manifestazione a partire da Time to Children, dedicato ai bambini, che vogliamo omaggiare perché rappresentano la fascia di popolazione che ha sofferto di più nel lockdown. Confermiamo le iniziative editoriali, mentre abbiamo ancora qualche incertezza riguardo alle attività cinematografiche, che dovrebbero tenersi al chiuso.  Ci sarà anche il Jazz Club, animato dal batterista berchiddese Nanni Gaias, che proporrà dei concerti in piazza per gli ospiti che vogliano intrattenersi all’aria aperta a godere della musica in tarda serata. C’è poi una nuova attività chiamata “Festival Bar”: una serie di 6 concerti di talentuosi artisti sardi che si  terranno nei bar di Berchidda. Saranno preservate tutte le attività sociali che animano il paese: la socialità sarà ancora più gradita dopo il distanziamento forzato.

Time in Jazz è sempre stato un festival della socialità vissuta in libertà a  contatto con la natura. Cosa cambierà nella fruizione degli spettacoli all’aperto?

Stiamo predisponendo un piano strategico nel pieno rispetto delle norme sanitarie vigenti. Per quanto riguarda le soluzioni previste per l’accesso alla Piazza principale, come la prenotazione dei posti nominali via internet, gli spazi di decompressione, le serpentine con code distanziate, la separazione delle vie di accesso e di uscita, in buona parte si tratta di regole adottate anche nelle edizioni precedenti, alle quali si aggiungerà la sanificazione degli spazi, l’utilizzo obbligatorio delle mascherine e dei liquidi disinfettanti per le mani. Per quanto riguarda i concerti decentrati negli spazi naturali sarà più complicato e sono in fase di studio le soluzioni più opportune. Contiamo però sulla grande qualità del nostro pubblico storico che ha sempre dimostrato grande consapevolezza ambientalista e sensibilità verso  il territorio. In questo senso Time in Jazz lancia ora più che mai un messaggio politico nel senso più autentico del termine, di comunione di ideali etici da parte dei cittadini che prendono parte alla vita della Polis per il conseguimento del bene comune.

A proposito di politica, hai partecipato a un tavolo di confronto al MIBACT per cercare delle soluzioni alle problematiche del comparto dell’arte. Qual è stato l’atteggiamento delle istituzioni?

La politica si è occupata del mondo dell’arte e della cultura decisamente in ritardo. Nella fase dell’emergenza più stringente i proclami governativi vertevano su una molteplicità di temi, tutti importantissimi, senza però fare il minimo cenno al mondo dello spettacolo. Dopo la videoconferenza di fine  aprile col ministro Franceschini da parte di una delegazione di artisti, alla quale ho partecipato, il governo ha preso coscienza pubblicamente dei problemi dei “lavoratori dello spettacolo”, usando per la prima volta questa espressione, ma erano passati già 2 mesi e mezzo dall’inizio della pandemia, e la categoria era già in ginocchio.

Questo a seguito di una mobilitazione senza precedenti da parte degli artisti. Le avete suonate al governo, è il caso di dire.

Tutto il mondo del jazz si è mobilitato, chiamando a raccolta gli artisti, i professionisti e gli appassionati di musica, attraverso la petizione #velesuoniamo promossa dal sottoscritto insieme a Ada Montellanico e Simone Graziano. Sono state raccolte circa 65 mila firme: è stata una potente cassa di risonanza del malcontento del settore. Insieme a noi si sono attivate molte altre associazioni che raccolgono le istanze delle varie professionalità del mondo dell’arte e dello spettacolo nei suoi aspetti creativi e produttivi: circa 70 realtà che hanno dato luogo a un tavolo di confronto con amministratori delle città metropolitane e rappresentanze sindacali, incontrando anche il gruppo cultura alla Camera. Da questo fermento è nato il “Forum Arte e Spettacolo”, che ha stilato un Manifesto in  cui si invoca uno Statuto del lavoro dello spettacolo in cui vengano definite  le condizioni contrattuali, le protezioni previdenziali, specifiche norme fiscali e continuità di reddito per i periodi in cui gli “intermittenti dello spettacolo”, come vengono definiti in Francia, si spengono con le luci del palcoscenico, pur continuando a contribuire allo Stato sociale. I momenti di stasi tra l’altro sono quelli più produttivi, in quanto sono dedicati allo studio e alla preparazione degli spettacoli.

Il governo ha risposto adeguatamente alle richieste?

Il “Decreto rilancio” ha predisposto una serie di misure che rappresentano  un’iniezione di liquidità e fiducia per le aziende culturali: si va dall’anticipo  agli enti finanziati dal FUS del contributo previsto fino all’80% dell’importo  riconosciuto per il 2020 all’aumento fino a 245 milioni di euro dei fondi d’emergenza per i vari settori dello spettacolo introdotti nel decreto “Cura Italia”; inoltre viene esteso l’Art Bonus, il credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro anche a complessi strumentali, società concertistiche e corali e spettacoli itineranti, e non più solo a poche grandi realtà consolidate. E’ una misura importante anche lo stanziamento di 600 euro di indennità per gli iscritti al Fondo pensioni lavoratori dello spettacolo, sia pur ristretto solo a chi abbia  versato almeno 7 contributi giornalieri nel 2019. Una somma tuttavia appena sufficiente a garantire la  sussistenza minima per un periodo molto breve. Lo Stato italiano però non ha sufficienti risorse economiche né una visione strategica per affrontare in maniera organica e strutturale le problematiche del mondo della cultura e dell’arte che esistono da sempre e che il tempo del Coronavirus ha semplicemente fatto venire a galla.

Se il comparto dell’arte e dello spettacolo si ferma, qual è il danno per lo Stato?

L’arte muove in Italia circa il 16,5% del PIL nazionale: è un dato che dovrebbe far riflettere i nostri governanti. Ma se il settore si ferma, non si  tratta solo di danni economici. Nel periodo del lockdown è stato evidente a tutti che gli artisti regalano sogni e emozioni. Arte e cultura sono sinonimo di speranza, che andrebbe concessa però anche agli artisti stessi che, come qualcuno crede, non vivono d’aria. Occorrerebbe ricordare che se l’Italia ha avuto un prestigio nel mondo, lo si deve ad artisti come Leonardo, Botticelli, Monteverdi, Fellini, ai grandi operisti, e che sarà attraverso l’arte che l’industria turistica e culturale potrà rialzarsi contribuendo alla rinascita del Paese.

Non credi che anche l’imprenditoria privata possa rappresentare un tassello importante del sistema, investendo per esempio nei luoghi di fruizione della musica, che in Italia scarseggiano?

Dipende da quel grande “ufficio complicazioni” che è la burocrazia italiana. I piccoli locali in cui si fa musica dal vivo, per i quali la Federazione Nazionale “Il Jazz Italiano” e l’Associazione Nazionale dei Jazz Club Italiani chiedono sia al governo che alla SIAE delle agevolazioni, sono gravati in questo periodo da restrizioni molto stringenti. Riguardo alla costruzione di  luoghi deputati alla musica, la patria dei più grandi compositori della storia, che vanta un patrimonio di opere d’arte del valore di 174 miliardi di euro, il 10,4% del nostro PIL, oltre a una ricchezza ambientale unica al mondo, è un fanalino di coda in Europa per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura: circa l’1,4% a fronte  di  una  media  europea  pari  al  2.1%.  Considerato  che  gli stessi italiani spendono sempre meno per le attività culturali, gli ultimi dati registrano il -2,6%, circa 6 euro al mese, se anche si costruisse un teatro per ogni comunità, rischierebbe di essere una cattedrale nel deserto. Occorre piuttosto reinventare la cultura come socialità, incentivando anche luoghi alternativi dove si possa fruire l’arte e la cultura coltivando nel contempo la convivialità, come accade in molte innovative librerie italiane.

Durante il lockdown la socialità si è coltivata sul piano virtuale. A te le nuove tecnologie sono servite?

Sin dall’inizio dell’isolamento domiciliare sono stato molto presente sui social, cercando di raccontarmi in modo diverso dal solito. Ho dato vita a un appuntamento fisso chiamato “Da casa a casa”, nel quale mi sono dilettato a fare tante attività: presentare i miei dischi e i miei libri preferiti in sardo con i sottotitoli, dar vita a collaborazioni inedite a distanza, come quella con Ornella Vanoni e Rita Marcotulli, rendere omaggio a grandi artisti italiani e partecipare a iniziative di beneficienza. Mi piace anche ricordare la pièce teatrale “Tempo di Chet”, dedicata a Chet Baker, una produzione del Teatro Stabile di Bolzano di cui ho interpretato le musiche insieme a Dino Rubino e Marco Bardoscia, trasmessa in streaming sul palcoscenico virtuale di Youtube, che il pubblico ha molto apprezzato. Mi sono divertito, ma ora desidero riprendere a suonare dal vivo.

Non pensi che Internet potrà costituire in futuro un’alternativa alle   performance live e un’opportunità lavorativa per gli artisti?

La rete è importantissima, ma non potrà mai sostituirsi agli spettacoli dal vivo, privandosi del fattore umano e dell’interazione emotiva col pubblico. Ma se adeguatamente strutturata, potrebbe rappresentare in futuro un’opportunità economica per gli artisti, a patto che le attività musicali vengano realizzate con tecnologie molto avanzate. In caso contrario si  rischierebbe di ledere la professionalità del nostro mestiere e il gusto del  pubblico si livellerebbe verso il basso. Ma un’alta qualità richiederebbe degli investimenti ingenti per i quali non ci sono le condizioni. Lo si è visto nel momento di maggiore incidenza del Coronavirus: il nostro Paese non è stato in grado di far fronte a tutte le necessità in maniera equa e sistematica, non riuscendo a garantire a tutti lo stesso trattamento anche riguardo all’accesso a Internet.

Eppure la rete potrebbe diventare una risorsa democratica di fruizione  della musica, con la moltiplicazione esponenziale delle visualizzazioni. Tu ne sei stato un esempio col successo del live streaming realizzato al Blue Note di Milano. Cosa ne pensi?

Il concerto del Blue Note ha raggiunto 110mila persone, ed è un grandissimo risultato. Ma aveva alle spalle un’altissima qualità di produzione. E’ stato sostanzialmente ricostruito uno studio televisivo all’interno del locale, inoltre ho ricevuto un trattamento professionale adeguato. I tempi non sono maturi per uno streaming generalizzato di alta qualità.

Tu sei stato un pioniere anche nell’integrazione dell’elettronica nella produzione artistica. Qual è attualmente il rapporto tra artisti e nuove tecnologie?

Trovo che ogni artista debba rispondere alla propria filosofia stilistica. Ci sono i cultori del suono acustico e coloro che ritengono che l’elettronica non snaturi la purezza del suono ma, al contrario, ne esalti le qualità. Io faccio uso dell’elettronica da 35 anni, ma non la considero una prospettiva futuristica: al contrario risponde a un mio bisogno di tornare a una dimensione primitiva della musica, esigenza che mi accompagna da anni anche nelle performances dal vivo. Come accade in alcuni dischi di John Hassell come Flash of the Spirit, Fascinoma o Maarifa Street, al quale ho collaborato, a cui l’elettronica conferisce un’aura mistica e arcaica. L’elettronica rappresenta inoltre, e lo si è visto nel periodo di domiciliazione forzata, un’opportunità di sperimentazione sonora homemade.