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Nella pagina Facebook di Marika T., l’ultimo post risaliva al 23 marzo, ore 23.38: “15 mascherine,
22 euro”.
Un grido d’aiuto che si nascondeva dietro un post in apparenza riferito al costo elevato dei dispositivi sanitari. L’iniziativa “mascherina #1522”, promossa da alcune associazioni di tutela femminile, invitava chiunque fosse vittima di violenza domestica o stalking a recarsi in farmacia e pronunciare la frase in codice “mascherina 1522”.
Marika aveva chiamato quel numero un paio di volte. La seconda volta aveva parlato con me per qualche minuto, prima di interrompere bruscamente la comunicazione sussurrando che “lui” stava rientrando a casa. Avevo fatto appena in tempo a dettarle il mio indirizzo di posta elettronica, invitandola a scrivermi.
Noi del call center del servizio nazionale anti violenza lavoravamo da casa da quando era stato emanato il decreto governativo in cui venivano varate misure urgenti per contenere il contagio da Coronavirus. Facevo inoltre la segretaria part time nello studio legale di mio marito. Dopo qualche giorno anche Mauro aveva cominciato a lavorare da casa, svolgendo i colloqui coi clienti in videocall.

Ero sommersa dalle telefonate e dalle e-mail a tutte le ore. Ricordavo di aver visto la mail di Marika nell’elenco della posta in arrivo, e di aver deciso di ignorare quella comunicazione senza oggetto e con un mittente adolescenziale: marikadreamer95@qualcosa. L’avevo aperta solo due giorni dopo aver appreso il fatto sul web. Poche parole accompagnavano un file video che avevo guardato tutto d’un fiato, con un senso tardivo di allarme.
Si trattava di una scena girata da Marika con la videocamera di un computer nel primo mese della quarantena, durante una lite col suo compagno. Avevo riflettuto un giorno e una notte interi, discutendone con mio marito, se fosse opportuno informare le autorità di quel video. Mauro era del parere che non fosse necessario: c’erano stati la confessione e il fermo e sarebbe stato meglio non immischiarsi in quella brutta faccenda. Inoltre, le immagini non dicevano molto del momento dell’omicidio, oltre a ciò che era di dominio pubblico. Io pensavo invece che consegnarlo fosse un dovere civico, a testimonianza futura che non solo le parole o le azioni, ma anche i silenzi del disamore possono lacerare l’anima.

Nel video si vedevano una donna e un uomo discutere in fondo a un lungo salone. Le voci si percepivano con difficoltà; le parole erano rotte da singhiozzi convulsi. Si vedeva la donna assumere un atteggiamento di supplica, mentre lui, che fra le parole mozze sembrava venisse chiamato Silvio, si mostrava sempre più aggressivo, arrivando a sollevarla per un braccio e a trascinarla per terra per qualche metro. L’oggetto della discussione era una presunta chat della donna con un altro uomo, a seguito della quale Silvio minacciava di andarsene. Più la donna si prostrava ai suoi piedi in lacrime, più il mutismo di lui si compattava in un monolitico muro di gomma. Si udiva solo il sibilo cantilenante di lei, raccolta in una disperata preghiera in cui le parole si alternavano a un pianto soffocato. La tensione sembrava placarsi in quei minuti: i gemiti si facevano flebili, spegnendosi gradualmente.

Mi ero alzata per stemperare l’angoscia che quelle immagini mi provocavano, ma la breve camminata verso la cucina per andare a bere un bicchier d’acqua era stata interrotta da una serie di colpi sordi sferrati con ritmo lento e costante. Ogni battito era accompagnato da un grugnito, cui seguiva in controtempo un rantolo stridulo. Si sarebbe detto, in assenza di immagini, il guaito d’un cane avvezzo alle bastonate. Prima ancora di tornare davanti allo schermo, distinguevo il rumore di schiaffi e pugni inferti con alternanza regolare. L’uomo ora stava accovacciato sul corpo supino e inerme della donna: colpiva il volto, completamente insanguinato, e ogni tanto assestava un colpo secco sullo stomaco, col pugno a martello.

Poi era accaduto qualcosa di imprevisto. Silvio aveva risollevato il busto con espressione corrucciata, rivolgendo lo sguardo verso l’altro lato della stanza, forse attratto dalla spia rossa della telecamera del pc, in direzione del quale si era slanciato come una furia. Si vedeva il faccione prossimo allo schermo mentre compiva gesti convulsi tentando di porre fine alla registrazione. Mi era sembrato di scorgere, accompagnato da un rumore secco e deflagrante, un riflesso metallico vibrare dietro la sagoma dell’uomo, ma l’immagine era stata oscurata di colpo, come se si fosse avventato con tutto il corpo sullo schermo.
In preda all’angoscia, avevo riaperto il profilo Facebook della donna, inondato da decine e decine di post in cui Marika T. veniva avvolta in una miriade di abbracci virtuali di solidarietà per un destino sfortunato che accomuna moltissime donne, vittime impotenti della più terribile delle violenze, quella perpetrata nell’intimità domestica dalla persona che si ama, o che si crede di amare.

Nonostante il parere contrario di Mauro, avevo deciso di chiamare il 113 e anticipare l’invio di una mail, spiegando la natura del suo contenuto, al commissariato di Flaminio Nuovo che indagava sulla vicenda.
I giorni della quarantena trascorrevano uguali a se stessi. Mi imponevo di non pensare a quella sventura, conquistando durante la giornata preziosi momenti di relax dedicati a me stessa e al mio ménage familiare. Mi sentivo fortunata ad avere una relazione serena, basata sul rispetto e su una fiducia consolidata in cinque anni di convivenza e tre di matrimonio. Riflettevo sull’importanza del dialogo in una relazione sentimentale. Ci piaceva parlare, ma avevo imparato col tempo ad apprezzare anche i silenzi densi di senso. A tarda sera ero solita leggere un libro distesa sulla chaise longue di design, regalo di anniversario di Mauro. Ogni tanto chiudevo il libro e guardavo il mio compagno perdersi nel flusso della scrittura delle sue arringhe, o accanirsi in interminabili partite di scacchi online. La profondità dei nostri sentimenti si misurava in quegli sguardi rubati, o nelle sue smorfie maliziose quando si voltava verso di me per ricordarmi che c’era, e che ci sarebbe sempre stato, ad accompagnare i miei passi.
Era l’alba del 3 aprile; era passata una settimana dalla notizia dell’omicidio. Erano le 5.30 circa quando suonavano al citofono due agenti di Polizia. Mio marito era un po’ teso, io invece ero tranquilla e pensavo di dover dettare la mia dichiarazione comodamente sul divano davanti a un caffè. I due uomini però non erano in vena di convenevoli e, dopo aver chiesto conferma dei nostri nomi, con fare brusco ci avevano chiesto di consegnare tutti i computer presenti nell’abitazione.

Mentre cedevo i notebook, Mauro protestava animatamente, chiedendo spiegazioni di quell’abuso. Era un avvocato, lui! Che mostrassero immediatamente un decreto di sequestro di beni di nostra proprietà! Ce l’avevano, e non vedevano l’ora di sventolarglielo in faccia. Visto che Mauro continuava a opporre resistenza minacciando conseguenze legali, gli avevano intimato di tacere, se non voleva rischiare una condanna per violazione dell’articolo 337 del codice penale, dato che conosceva tanto bene la legge! I giorni a seguire era molto nervoso e non mi parlava. Era spesso al telefono con i clienti e i colleghi dello studio, e io continuavo a rispondere alle telefonate del servizio 1522, con un aumentato senso di empatia nei confronti delle donne che chiamavano, avendo vissuto da testimone indiretta l’angoscia della violenza domestica. La maggior parte di loro chiamava di nascosto, raccontandomi delle percosse, inflitte per futili ragioni, degli accessi di rabbia improvvisa, o dei silenzi rancorosi coi quali venivano punite di colpe che non avevano. La causa scatenante aveva, in tutti i casi, radice nelle comunicazioni sociali via internet, e quasi sempre nasceva da un sentimento di gelosia morbosa e visionaria. Nonostante le coppie trascorressero insieme gran parte della giornata, i momenti di accesso in rete erano vissuti, specialmente dagli uomini, come evasioni torbide, foriere di tradimenti. Dopo ciò che era accaduto a Marika, quei brevi racconti mi provocavano uno stato d’ansia che non riuscivo a gestire, e non mi aiutava l’atteggiamento intrattabile di Mauro. Capivo in quei giorni quanto il silenzio possa facilmente trasformarsi in un’arma da taglio.

Tre giorni dopo, sempre all’alba, venivamo svegliati di soprassalto dal citofono. Avevo infilato una vestaglia ed ero corsa a rispondere: era la Polizia. Mauro camminava su e giù per la stanza da letto, meditando sul da farsi. Che stava succedendo ancora?, pensavo. Il tempo di chiedermelo e due agenti del Commissariato di Flaminio Nuovo invitavano Mauro a seguirli afferrandolo ognuno per un braccio.
Mi stupiva questa volta la remissività indolente di mio marito, come se si aspettasse quella nuova irruzione mattutina e fosse rassegnato a pagare per i miei errori. Dovevo a questa consapevolezza lo sguardo astioso che mi aveva lanciato mentre tentavo inutilmente di spiegare: “Sono io che ho mandato quella mail, prendete me!”. Ma nessuno badava a me.

Una volta in strada, gli agenti avevano infilato Mauro nel sedile posteriore dell’auto parcheggiata in doppia fila davanti al nostro palazzo. Niente sirene, in una Roma deserta. Non c’era ragione di allarmarsi – pensavo – cercando di conservare un barlume di lucidità. C’era qualcosa che mi sfuggiva in tutta quella faccenda, ma sentivo l’urgenza di fornire la mia versione dei fatti e sollevare Mauro da ogni responsabilità presunta.
Ero piombata in Commissariato che non erano neanche le sei di mattina. L’agente di piantone mi aveva chiesto le generalità e mi aveva fatto accomodare in una sala d’aspetto deserta. Saprei descrivere ogni particolare di quell’angusta stanzetta senza finestre in cui l’aria viziata trasudava un tanfo rancido di umanità deteriore che non lasciava presagire niente di buono.
Erano le 12.15 quando un incaricato veniva a chiamarmi con atteggiamento compassionevole. Doveva essersi chiarito l’abbaglio. Venivo invitata a entrare in un ufficio dove c’era un commissario ad accogliermi.
“Signora, dobbiamo trattenere suo marito. Lo tenevamo d’occhio da tempo a causa delle denunce di alcuni genitori di minori. La Polizia Postale è risalita al suo indirizzo IP. Eravamo a conoscenza di chat dove adescava delle ragazzine sui social network. E questo è niente in confronto a ciò che abbiamo trovato nei file secretati del suo computer. Un intero archivio meticolosamente catalogato di foto, video e ogni sorta di materiale pedopornografico. Abbiamo ragione di ritenere che faccia parte di un’organizzazione molto vasta e radicata nel territorio. Molti di loro sono professionisti al di sopra di ogni sospetto. Ci aiuterà a sgominarla. Ha deciso di collaborare.”

Dovevo aver avuto qualche istante di mancamento. Ricordo una poliziotta che mi porgeva un bicchiere d’acqua, consigliandomi con dolcezza ferma di bere lentamente.
Nei giorni successivi sentivo anch’io, come Marika, di aver subito violenza. Una forma di abuso che avvertivo a un livello più profondo di quello fisico, in grado di penetrare sotto pelle e scavare fino in fondo all’essere. Ce l’avevo con me stessa, per non aver mai minimamente sospettato che l’individuo di cui non sarei più riuscita a pronunciare il nome potesse avere una doppia e spregevole identità.
La casa, nella penombra della sera, mi appariva spettrale, e tuttavia pregna della densità corporea di un uomo che mi ero illusa di conoscere intimamente, penetrando con dolcezza, giorno dopo giorno, la cortina ruvida e spigolosa di un’indole introversa. La crepa che lo smascheramento dell’orco aveva prodotto nel mio animo rompeva il patto di vile accettazione di una verità che avevo sempre saputo e negato a me stessa, ricacciandola al fondo della coscienza: Mauro era anaffettivo. La nostra relazione era vista dalle altre coppie di amici come un modello di parità rispettosa e collaborativa.

Mai una lite, se non qualche scambio di opinioni. Un equilibrato e agile gioco delle parti in cui il mio partner c’era sempre, di una presenza così lieve da essere inconsistente. I baci erano cessati sin dal primo anno del nostro fidanzamento, e svanita ogni altra forma di intimità. Il sesso non era che un dovere coniugale standardizzato in poche pratiche collaudate. Ma c’era la stabilità quotidiana, e ciò mi bastava.
Avevo passato a letto il resto della giornata dell’arresto di Mauro, afflitta da un’emicrania che obnubilava ogni facoltà razionale. Il mattino dopo avevo acceso il computer e aperto Facebook per cercare un po’ di leggerezza nello scorrimento passivo della home page. Sorprendentemente, a una decina di giorni dall’assassinio, non si parlava che di Marika. La maggior parte dei post ne chiedeva la piena assoluzione, altri la consideravano un’eroina, incitando le donne che subivano violenza a farsi giustizia da sé, dato che le pene inflitte ai carnefici erano irrisorie. Non mancavano, in quella tragica vicenda, gli odiatori sessisti, che la ingiuriavano coi più turpi appellativi: “infame assassina”, “lurida puttana”.

Marika aveva avuto fortuna e coraggio. Forse – mi illudevo – l’avevo inconsapevolmente aiutata a salvarsi: se il suo uomo non si fosse sollevato dal suo corpo per interrompere la registrazione del filmato, sarebbe stata massacrata di botte. E se anche fosse stata risparmiata ancora una volta, avvinta in una spirale inesorabile di soggezione alienante, che vita sarebbe stata?
Si era diffusa online una falsa notizia riguardo all’arma del delitto: nei siti di informazione che rimbalzavano la notizia si scriveva che la donna, nell’intento di colpire il suo convivente, avesse agguantato un pesante oggetto contundente, probabilmente un supporto da chitarra. Solo a quel
punto era emersa alla mia coscienza, nitida come una fotografia, un’immagine depositata nella memoria remota. Mi ero decisa a rivedere il video riportando il cursore agli ultimi istanti di vita dell’uomo. Era visibile, di lato rispetto alla scena dell’aggressione, l’asta di un microfono. Benché non fosse possibile scorgere gli ultimi gesti della donna, mi ero convinta che avesse ucciso l’uomo con quell’asta, simbolo della sua creatività individuale.
Dal profilo social avevo scoperto che Marika era una cantante jazz. Avevo colto la sua ammirazione per Billie Holiday scovando, fra vecchi ricordi, un breve filmato in cui cantava Strange fruit. Era l’unico post, nascosto all’interno della cartella “video”, in cui la donna non ostentasse plateali atteggiamenti amorosi col suo aguzzino.
Scent of magnolias, sweet and fresh, then the sudden smell of burning flesh…
Improvvisamente mi appariva chiaro che i nostri destini non si fossero incrociati per caso. L’occhio virtuale della videocamera aveva aperto uno squarcio nel fatiscente edificio della nostra esistenza vacua. Eravamo entrambe ree di una colpa preventivamente scontata con la più dura delle condanne. Perché una donna lo sa, se non è amore.

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