In the last days
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Articolo di Monica Macchi

Voglio viaggiare per baciarti per strada
e sentire che è normale”
Laila a Khaled
Come si fa ad ascoltare il silenzio nel rumore del Cairo?
C’è qualcosa che non riesco a catturare nel frastuono e nella folla
ma voglio fare il film anche se non so come finirà
Khaled
C’è dolore e tristezza nel tuo amore verso il Cairo,
come se ti avesse tradito
Hanan a Khaled
“Il rapporto con il Cairo è come quello con una donna
che ti rifiuta, scappa, sembra indifferente,
poi invece ammicca un sorriso,
e tu sei lì caduto ai suoi piedi

Tamer El Said

L’attesa, la tensione, la paura: Il Cairo, Beirut, Baghdad, simboli del mondo arabo contemporaneo, nelle sensazioni di 4 amici attraverso l’arte di un cinema che si gira (anche) in politica. Eccezionale il sound design: i rumori, i silenzi, il Corano salmodiato, le notizie dalla radio si trasformano in immagini che a volte li contraddicono e altre si rincorrono in una Cairo continuamente riflessa in vetri e specchi. E tra gli islamisti e le camionette dell’esercito passa un ambulante coi palloncini rossi stretti in mano, esplicito richiamo a Suleiman e rifugio in una poesia che, come dice il calligrafo iracheno, “è ovunque! Aspetta solo di essere scritta”. Presentato a Berlino, Amsterdam, Boston, Lima, Melbourne, Vilnius e Buenos Aires dove ha vinto il premio per la miglior regia, arriva in prima visione a Milano, dopo essere passato al Festival di Pesaro.

Il film racconta lo spirito delle città e come interagisca con le persone che ci vivono… e anche con chi le ha abbandonate: Khaled e il Cairo, Basem e Beirut, Hasan e Baghdad e Tareq sospeso tra Baghdad e Berlino.
Khaled sta cercando di terminare un film che ha in mente da molto tempo ma che non riesce a realizzare e nel frattempo deve elaborare il lutto per la morte del padre ed affrontare la malattia della madre, l’abbandono della fidanzata che vuole andarsene a Londra e uno sfratto che lo costringe a cercare un nuovo appartamento in Wast al balad (cioè Downtown, il centro storico) tra galline tenute in casa e ascensori tappezzati di slogan islamisti.

Locandina di In the last days of the city
Locandina di In the last days of the city

Una Cairo stretta tra islamisti ed esercito, il cui splendore è sbiadito, incrostato da povertà e sporcizia, sopraffatto dalla frenesia, dai rumori cacofonici del traffico, dalle notizie della radio che in fusha, l’arabo classico che marca la distanza con la quotidianità delle persone che parlano il dialetto, sproloquia di calcio e politica su immagini che le contraddicono impietosamente: palazzi semi-sventrati che lasciano intravedere pezzi di quotidianità abbandonata, venditori di fiori semi-appassiti, tuk tuk, persone sporche e lacere che mangiano per strada e sacchi della spazzatura usati come borse per le mercanzie.

Così sulla base della definizione di estetica del cinema arabo sostenuta dal regista libanese Burhan Alawiyya secondo cui “noi arabi vediamo con le orecchie e sentiamo con gli occhi…per noi tutto ha forma orale… ma nel cinema bisogna vedere con gli occhi e trasformare la luce, il colore e le immagini in un linguaggio” le immagini e le parole vengono scisse a creare un effetto straniante e simbolico amplificato dai primi piani sui volti di persone bollanon si vedono parlare ma di cui si sentono le parole. Ci sono infatti molte scene in cui il volto diventa una mappa da decifrare come sostenevano già Ejzenstein (“con l’aiuto del primo piano lo spettatore penetra nell’intimità di ciò che succede sullo schermo”) e Balzas (“è la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’apparenza di un uomo”) in particolare quella nell’ospedale Al Salam dove Khaled sta assistendo la madre morente e quando le mente sul suo stato di salute si sente la voce ma con un primissimo piano sulla bocca chiusa.
E poi all’improvviso scorgi qualche particolare inaspettato che ti riconcilia con la vita e con la città ma solo quando è riflessa in vetri e specchi come se si potesse ammirare la città solo attraverso una lente, prendendone le distanze.
E quando arrivano gli amici registi per un panel su come le loro città alternativamente aprono e (ri)chiudono le loro anime con un dibattito sull’arte di un cinema che si gira (anche) in politica, lo sguardo si allarga a Libano ed Iraq, due luoghi chiave nell’immaginario cinematografico contemporaneo mediorientale.

Basem, nato a Beirut in inverno e vissuto sempre in una guerra civile che si tramuta in una tensione strisciante, si accorge ben presto di non riuscire a filmarla perché altrimenti resterebbe senza una città che pure non capisce e da cui non si sente capito: Beirut “è una menzogna, bella fuori e marcia dentro”…e anche qui dalla radio arriva la notizia di un’autobomba mentre gli avventori del bar parlano (ancora) della Naksa, la sconfitta-trauma del 1967. Si cercano radici e si trovano fantasmi: le utopie del Sessantotto, i palestinesi, il panarabismo al punto tale che nel film Zanj Revolution di Tareq Teguia, Beirut rappresenta “tutte le speranze e le contraddizioni in un territorio di perplessità” e in una galleria d’arte viene proiettato Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard “in memoria dei nostri fallimenti”. Ed il “qui e altrove” diventa “qui o altrove”: per Rami, rifugiato palestinese “qui o altrove è lo stesso: siamo sempre clandestini” e Nahla figlia di esuli palestinesi dice: “sono di qui, sono di altrove, sono di nessun luogo: sono palestinese”. In una Baghdad paralizzata da guerra e paura dove si insegna ai bambini a non inpiazzainciampare sui cadaveri (e che si fa quando si vedono cadaveri? Si ripulisce il sangue o si scappa?) Hasan e Tareq si confrontano invece sulla scelta tra restare (“Baghdad non è una città è un amico”) o emigrare (“posso piantare Baghdad altrove come un seme o una pianta e fiorirebbe”) battibeccando in un crescendo di toni (“Puoi girare il mondo col tuo nuovo passaporto tedesco ma morirai di nostalgia per Baghdad!” – “…meglio che morire a Baghdad!” – “morire a Baghdad o a Berlino è uguale”). E da Baghdad arrivano spezzoni video (splendide le immagini del fiume) con una modalità analoga al film siriano “Ma’a al fidda” (titolo internazionale “Silvered water”) che combina immagini in bassa risoluzione girate da Wiam Simav Berdixan a Homs e filmati messi in rete da attivisti con il montaggio e la regia di Ossama Mohammed da Parigi, laureatosi in cinema a Mosca e regista di “Box of life” presentato a Cannes nel 2002. Tra gli spezzoni arrivati da Baghdad ci sono anche quelli che raccontano la storia di Hajj Mahdi, calligrafo quasi novantenne che ricorda l’epoca in cui disegnava le locandine di film che hanno fatto la storia del cinema iracheno… e disegna anche la splendida calligrafia del titolo mentre la radio parla della guerra in Yemen e del supporto americano contro gli estremisti.

Ma soprattutto dà uno spiraglio di speranza: rifugiarsi nell’arte, nella bellezza, nell’armonia… in una parola nella “poesia che è ovunque! Aspetta solo di essere scritta”, concetto ribadito dalla canzone finale di El Jabouri “apri la tua anima al vento e vivi” con un’allitterazione in arabo tra روح e رياح. E anche in Itar el-Layl (titolo internazionale The Narrow frame of Midnight), film on the road dal Marocco ad Istanbul, dal Kurdistan fino all’Iraq, per “ristabilire la fede nel mondo” superandone le brutture serve tuffarsi nella poesia delle relazioni interpersonali oltrepassando le frontiere mentali…se non quelle geografiche.

Ma anche il Cairo offre una speranza: in una scena tutta virata sui toni del rosso mentre la piazza è divisa tra manifestanti ed esercito, davanti alle camionette passa un ambulante con stretti in mano dei palloncini rossi che con una ripresa in grandangolo oscurano (o illuminano?!?) le camionette fino a prendersi l’intero schermo.
Ed il palloncino rosso è un’immagine iconica nel mondo mediorientale a partire da Yad ilaiyya (Intervento divino) di Elia Suleiman, film del 2002 che ha vinto il Festival di Cannes, dove un palloncino rosso con il volto di Arafat viene fatto volare sul checkpoint di Ramallah e riesce a volare imprendibile e inarrestabile fino alla spianata delle Moschee, luogo sacro per l’Islam dove sorge la Moschea di Al-Aqsa ma politicamente rivendicato dagli israeliani come luogo del Tempio di Salomone e su cui Sharon ha fatto la provocatoria passeggiata scintilla dell’Intifada.

Ma le speranze negli accordi di Oslo vengono disattese e pochi anni dopo gli Yes Theatre, gruppo teatrale di Hebron, scrivono e interpretano “3 in 1” una serie di quadri sulla loro vita quotidiana in Palestina sottoposti non solo all’occupazione israeliana (dal controllo ai check point ai continui interrogatori con le stesse domande che si ripetono sempre uguali e che sono stati resi con una musica elettronica martellante che robotizzava sia chi incalzava che chi rispondeva) ma anche ad una cultura machista che guarda con sospetto all’arte considerata un vizio inutile. Artisticamente eccezionale ma desolante e desolato il finale: Ihab dopo un lungo monologo in cui denuncia di aver passato 36 anni senza evoluzioni si presenta in scena con un palloncino rosso a cui si impicca spiegando con questo solo gesto tutto quello che è cambiato in Palestina in questi 10 anni: i sogni sono diventati più piccoli.

Ma al Cairo l’ambulante tiene ben stretti in mano i palloncini: certo non li fa volare ma nemmeno ci si impicca…basterà questo per evitare che il Cairo faccia la fine di Beirut o di Baghdad?!?

Titolo arabo: آخرأيامالمدينة (Akher ayam fil madina)
Titolo internazionale: In the last days of the city
Regia: Tamer El Said
Sceneggiatura:Tamer El Said, Rasha Salti
Fotografia:Bassem Fayad
Scenografia: Salah Marei
Montaggio:Mohamed A. Gawad, Vartan Avakian, Barbara Bossuet
Colonna sonora: Amélie Legrand, Victor Moïse
Colore: Jorge Piquer Rodriguez
Effetti Visivi: Unai Rosende
Art Director: Yasser El Husseiny
Costumi: Zeina Kiwan
Produttori: Tamer El Said, Khaled Abdallah,
Co-produttori: Michel Balaguè, Marcin Malaszczak, Cat Villiers
Produzione: Zero Production
Co-produzione: Sunnyland Film, Autonomous, Mengamuk Films
Durata: 118’
Paesi Produttori: Egitto/Germania/Regno Unito/Emirati Arabi Uniti
Anno: 2016

 

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