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Importante conferenza conclusiva della VII edizione del festival “I libri aiutano a leggere il mondo“, dove si è parlato di geopolitica, economia, strategie militari e possibili scenari per il futuro del Mare nostrum.

Siria e Libia in particolare nel lungo intervento del consigliere scientifico e coordinatore America di Limes Dario Fabbri, intervistato dal suo collega Alessandro Aresu, in collegamento da Istambul, Lucia Goracci, inviata di Rai News per il medioriente.

La conferenza si è concentrata sulla stretta attualità, con una panoramica sulle cause strutturali dei conflitti in atto nella zona. Ormai siamo abituati a sentire nei Tg, a leggere sulla stampa i nomi delle zone più disastrate dalle guerre, civili e non. Dalla Siria, complicatissimo campo di battaglia dove si giocano contemporaneamente molte sfide globali.

“Il perdente è Washington”, afferma Fabbri, elencando alcuni  “errori di valutazione degli scenari che si sarebbero potuti sviluppare nell’attacco ad Assad”. La Russia, da sempre poco presente nell’area, interviene cambiando le sorti della guerra interna, non per interessi personali ma per dimostrare allo strapotere americano di poter avere voce anche in Siria, con un credito da richiedere poi in Ucraina, vero obiettivo di Mosca. In un continuo risiko di alleanze e cambi repentini, si è delineato un caos -per niente calmo_ della zona mediorientale.

La situazione in Libia è molto diversa per la struttura sociale e statuale della regione. Non è mai stata una nazione per come la intendiamo noi, ma un’alleanza di di natura tribale, da millenni. Dopo il dominio coloniale italiano, che gestì con un governo dittatoriale e violento tutte le tribù libiche, si sostituì il colonnello Gheddafi che perpetuò un tipo di controllo dall’alto, senza nessuna partecipazione diretta alla gestione dello stato. Morto Gheddafi, si ritorna ad una condizione tribale, con divisioni profonde molto difficili da colmare, nonostante l’uso massiccio della forza militare. Manca il collante nazionale, che come è noto non può essere rappresentato costantemente da una struttura militare o dittatoriale. Costruire un modello parlamentare di partecipazione alla vita pubblica, e soprattutto allo sfruttamento delle risorse petrolifere diventa affare complicato.

Le domande si sono susseguite senza sosta, trattando argomenti densi di sviluppi, che il tempo a disposizione non ha potuto risolvere. Le rotte migratorie, con le bellissime e precise mappe geopolitiche di Limes, maestri anche in questo. La situazione è quella che conosciamo: manca una organizzazione che permetta il normale flusso degli immigrati da un paese all’altro dell’Unione, lasciando l’Italia da sola a gestire il fenomeno (seppur ancora limitato). Tra la responsabilità etica dell’Europa coloniale e la real politik ci deve essere una visione realistica dell’Istituzione europea nel suo insieme. Nessuna novità, però, si intravede in questa direzione.

Partendo da uno dei corridoi africani dei migranti, che porta fino alla Spagna, si arriva a parlare anche dell’attualità. Ossia la situazione in Catalogna.

Cosa succederà adesso tra la Spagna e la Catalogna? “Dal mio punto di vista”, afferma Fabbri, “sembra una gara di resistenza, è una gara tra i due leader per conquistare una fetta dell’elettorato, ma in realtà nessuno dei due crede veramente che si arrivi alla scissione della Catalogna dalla Spagna. Questo è un referendum assolutamente non rilevante. Lo studioso ricorda che già nelle elezioni regionali del 2015 “il partito di Pudjemon ha fatto una campagna elettorale, che voleva essere in realtà un plebiscito a favore della scissione, quindi indipendenza dalla Spagna. Anche in quel caso hanno raggiunto meno del 40% dei voti quindi bisogna considerare il fatto che non tutti i catalani volevano effettivamente la scissione. Diciamo che tecnicamente chiedeva la separazione dalla Spagna,  una minoranza per conto di una maggioranza che effettivamente non si era espressa”.

Tra le domande del pubblico si è chiesto anche a che punto era la proposta politica dell’Unione per il Mediterraneo. Ha risposto Alessandro Aresu, che ha appena concluso lo studio specifico sui primi 10 anni di questa istituzione. “Il bilancio di questa esperienza, che ricordiamo fu richiesta con forza da Nicolas Sarkozy, è assolutamente fallimentare. Non ha prodotto quella unione di tutti i paesi dell’area mediterranea, per vari motivi. Uno di questi era la pressione della Germania contro questo progetto, per cui i soldi della Comunità Europea non potevano andare nell’area mediterranea, che a loro non interessava, ma spingevano perché la comunità europea investisse nei paesi dell’Est direttamente interessati allo scambio commerciale con la Germania. In più, ha aggiunto Dario Fabbri, “il fatto che questa idea venisse dalla Francia, per dominare con uno spirito neocoloniale tutta l’area Mediterranea, non ha per niente attecchito”.

1 thought on “Mediterraneo: confini, ferite e prospettive.

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