obelisco mussolini
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Il 5 ottobre del 2017, sul sito del magazine del «New Yorker», a firma di Ruth Ben-Ghiat, docente di Storia e Studi italiani presso la New York University, apparve un articolo intitolato “Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?” (Come mai così tanti monumenti fascisti sono ancora in piedi in Italia?).

Di fatto, portava, e con forza, il nostro Paese all’interno di una polemica in corso negli USA su statue e simboli del passato confederato che, seppure non ci concerneva per quanto riguardava il problema specifico americano (almeno che non volessimo sentirci toccati dal fatto che venivano abbattute statue del nostro connazionale Cristoforo Colombo, scopritore di quell’America –che deriva il suo nome da un altro italiano- che voleva sostituire le celebrazioni del 12 ottobre del Columbus Day con una giornata dedicata al ricordo della cultura e delle popolazioni native americane, sterminate dopo quella scoperta), ci coinvolgeva in un più ampio ed universale discorso sul rapporto cittadino/storia nazionale e sul come questa Storia venisse porta dalle istituzioni che, da sempre, si servono dei monumenti, così come dei libri di testo scolastici, per raccontarla.

Le reazioni a quell’articolo furono infinite e disparate ma, focalizzandosi soprattutto sull’architettura del Ventennio, portarono il discorso a non allargarsi e ad esaurirsi davanti alla obbiettiva impossibilità di abbattere intere città di fondazione, interi quartieri o anche solo palazzi tuttora abitati. Ci fu la proposta, mai realizzata, di rimuovere una stele con la scritta Dux dal Foro Italico (ex Foro Mussolini) e quella, anch’essa mai portata a termine, di istituire a Predappio, città natale del duce, un museo e un centro studi sul fascismo come quello fatto a Monaco di Baviera sul nazismo per permettere alle nuove generazioni di confrontarsi ed avere una visione obbiettiva di un periodo estremamente difficile e controverso che, però, fa parte della nostra storia comune e dal quale non possiamo prescindere se vogliamo guardare con libertà al futuro.

La problematica sollevata dalla professoressa Ben-Ghiat non ebbe, sia da parte dei cittadini italiani sia da parte delle istituzioni, quindi, risposte/proposte ulteriori per cui, non risolta, continua a presentarsi e lo fa in modo ancora più intenso in un momento come quello attuale, contrassegnato da grandi crisi post Coronavirus e rivoluzioni di pensiero ed azioni invocate dal Black Lives Matter che stanno sconvolgendo il mondo intero portandoci a riflettere su di noi, sul nostro passato nonché sull’oggi e quello che vorremmo fosse il nostro avvenire.

Mentre un po’ ovunque le statue continuano a cadere come, ahimè, le teste dei rappresentanti di quell’ancien régime contro cui era iniziata la Rivoluzione francese, da noi, il confronto si è focalizzato su un unico monumento, quello ad Indro Montanelli che parecchi, già da tempo, chiedono di rimuovere per i trascorsi colonialisti del noto giornalista e che, finora, ci si è limitati ad imbrattare prima con della vernice rosa nel 2019 e ora con quella rossa, a posargli in braccio il fantoccio di una bambina, a ricordo di Destà, ragazza di 14 anni da lui sposata, avvalendosi dei diritti dei conquistatori, mentre era in Africa, aggiungendo un cartello con la scritta “Il vecchio e la bambina” ad opera di Cristina Donati Meyer, “artivista” come lei stessa si definisce, o a contrastarla con murali come quello che riproduce la giovane eritrea firmato dallo street artist Ozmo a Milano o l’altro, ad opera di Mr. Cens, Betty Macaluso e Ulrike H., apparso nel cuore del centro storico di Palermo dove, oltre al volto di Destà e al disegno della statua del giornalista cosparsa di vernice rossa, appare anche il testo del racconto dell’incontro tra la giovane e Montanelli fatto da quest’ultimo sulle pagine del Corriere. Dalle istituzioni, però, ancora nulla di ufficiale è stato detto o fatto riguardo alle azioni promosse da artisti e cittadini nei confronti della statua che tante realtà rimosse di questo Paese rappresenta.

Fiumi di inchiostro si stanno scrivendo su quanto sta capitando negli Stati Uniti e in altri Paesi europei. Storici e critici d’arte nonché antropologi, psicologi e specialisti delle varie discipline cercano di dare interpretazioni, propongono soluzioni lungimiranti e universali al fenomeno e tutti si indignano e si inchinano rispettosi davanti a fatti e verità universali presenti dietro accadimenti locali, dividendosi sulla giustezza o meno della rimozione, ritenuta a volte assolutamente esagerata, di monumenti e simboli di un passato di cui alcune nazioni sentono il bisogno di liberarsi per fare chiarezza sulla loro storia, aggiornare la loro cultura e mirare verso un futuro più giusto e migliore che sembrava essere la prerogativa principale che avrebbe contraddistinto il post Covid-19. “Ne usciremo migliori” era lo slogan ripetuto come un mantra ovunque e in tutte le lingue all’inizio della pandemia al punto che, un episodio, purtroppo ripetutosi più volte, quello dell’uccisione di un giovane nero da parte della polizia americana, è divenuto monumento e simbolo di questo desiderio di giustizia e miglioramento da parte di una popolazione sconvolta dalla crisi sanitaria che ha dato la stura ad una vera e propria rivoluzione che, come tale, come accade ovunque in casi del genere, ha sentito il bisogno simbolico di abbattere le statue di pietra, significative di quei granitici monumenti mentali che offuscano da tempo il pensiero, impedendo alla gente la visione di troppe realtà a lungo negate.

In tutto questo spendersi di scritti e parole di esperti e non, colpisce come da parte della maggioranza nostrana si tratti il problema in maniera unicamente internazionale, asettica come se il tutto avvenisse su un altro pianeta lontano migliaia di anni luce da noi senza capire, o voler capire, che questa rivoluzione, iniziata come tante altre dall’altra parte dell’Atlantico, ci concerne eccome, e molto da vicino.

Perché non ci sono state proteste rilevanti per episodi simili in Italia ma ci si è mobilitati in maniera straordinaria per la morte di un uomo nero dall’altra parte dell’oceano? Io un’idea ce l’avrei. Penso che per molte persone bianche in Italia, e in Europa, sia più semplice puntare il dito contro gli Stati Uniti, identificare in quel luogo razzismo e discriminazione piuttosto che riflettere sul razzismo endemico di questo paese. Perché è più facile solidarizzare, mostrare empatia, versare lacrime, concedere il beneficio del dubbio ad un uomo nero ammazzato a migliaia di km piuttosto che ad un uomo nero in Italia”, scrive Angelica Pesarini nel suo bel articolo Questioni di privilegio. L’Italia e i suoi George Floyd, pubblicato on-line il 6 giugno 2020, sulle pagine de ”il lavoro culturale”.

E aggiungo io, riferendomi alla statua di Montanelli che tanti piani di lettura ha, quante decadi devono trascorrere e quante generazioni tornare polvere, prima che un Paese sia in grado di fare i conti con il suo passato recente (che si ripresenta, insoluto, non solo a livello razziale, ai nostri giorni), fuori da miti e odi, manie di grandezza e complessi di colpa?

Il Covid-19, se ben sfruttato nella terribilità del suo potenziale, può rappresentare una svolta culturale epocale per il mondo e per il nostro Paese. Non lasciamo che la forza dei canti dai balconi, che hanno unito il Nord al Sud come non mai facendoci sentire un unico popolo, svanisca nel nulla, senza portare fondamentali frutti, monumento di un nuovo e migliore modo di pensare. Come vogliamo costruire un futuro valido su quelle macerie che, ahimè, si sono prodotte come conseguenza degli avvenimenti dolorosi degli ultimi mesi se prima non affrontiamo appieno il presente cercando di capire e metabolizzare il passato che culturalmente ancora ci influenza e ci divide?

Come vogliamo veramente andare verso il nuovo, come vogliamo elaborare una nuova, non superficiale cultura se prima non conosciamo e accettiamo, con maturità e consapevolezza, quel passato da cui deriviamo e che ci fa i cittadini di oggi? Come possiamo concepire qualunque tipo di progetto se prima non sappiamo chi siamo e, di conseguenza, cosa vogliamo veramente? Solo dopo aver fatto ciò potremo allargare i nostri orizzonti culturali immettendo nuova linfa nelle nostre vite. Finché non facciamo i conti con quanto abbiamo (e vorremmo lasciarci) alle spalle riuscendo a capire quali sono le effettive componenti della nostra cultura, le ragioni e i fatti storici per cui siamo oggi quel che siamo come possiamo anche solo lontanamente pensare di riuscire a realizzare quella rivoluzione culturale favorita dallo straordinario che stiamo vivendo e che ci permetta di procedere di pari passo con l’avanzare dei tempi senza rimanere indietro o estranei o incapaci di comprendere la nostra attualità?

È indubbio che, se in America in questi mesi si sono abbattute le statue di pietra, qui da noi sono caduti granitici e secolari stereotipi come, ad esempio, la presunta, grande efficienza del Nord contrapposta all’altrettanto presunta inefficienza del Sud. C’è da chiedersi, quindi che valore abbiano monumenti sempiterni in una realtà in continua evoluzione come la nostra. Possono questi elementi fissi, immutabili ancora avere un significato? Non sarebbe, invece, più coerente con ciò che ci circonda, cambiarli, aggiornarli al progredire della Storia? Le nuove, riconosciute realtà che stiamo vivendo non avrebbero bisogno di altrettanto nuove testimonianze?

In questa nostra baumaniana società liquida (che riporta a quell’innegabile “panta rei”, tutto scorre, degli antichi greci) anche il monumento diventa liquido e perde la sua fissità. Non sarebbe, quindi, il caso, per essere al passo con la continua evoluzione della modernità, applicare alla città l’ideologia della street art spostando il principio di fruizione dell’opera dal modello contemplativo a quello dialettico attivo in cui la volontà del cittadino abbia un suo fondamentale ruolo attraverso l’esercizio decisionale senza che si accetti passivamente qualcosa imposta dall’alto?

Non si potrebbe considerare la città una sorta di tela bianca (come quella degli artisti di strada che considerano il mondo come tale) in cui siano i cittadini a decidere quali statue siano le più adatte a rappresentare la loro storia? Finora, la statua è stata identificata con la ricerca dell’eternità; d’ora in avanti diventerebbe un simbolo transitorio che avrà un suo ciclo di vita naturale e alla fine sarà rimpiazzato, ma nel frattempo manterrà la sua realtà, la sua effettiva capacità di creare dialoghi e connessioni. Ormai le forme e le istituzioni sociali non hanno più abbastanza tempo per consolidarsi e non possono fungere da quadri di riferimento per le azioni umane e i piani di vita a lungo termine. Nella modernità liquida, gli individui e le istituzioni devono essere flessibili e adattabili; devono agire, pianificare azioni, cambiare continuamente, rivoluzionarsi e i monumenti con loro.

Tomaso Montanari in Le statue controverse finiscano in un museo, articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 16 giugno 2020 afferma: “Credo, dunque, che la risposta più saggia per le statue controverse dell’8-900 sia la loro musealizzazione. Nei musei possono e devono vivere come documenti di una storia che non si cambia: qui i cittadini possono e devono conoscerle, fin dalla scuola. Ma le vie e le piazze sono, per fortuna, ancora luoghi di conflitto, e i loro piedistalli (come le loro intitolazioni) sono nodi del discorso pubblico che costruisce la via verso il futuro. L’ultima cosa che dobbiamo fare è usare l’arte e la storia contro la giustizia e l’eguaglianza“.

2 thoughts on “Verso una nuova cultura del monumento

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