Share

Sapete cosa? Dalle mie parti quando si vuole scagliare una maledizione all’indirizzo di qualcuno si pronuncia questa formula: che tu possa aprirti un ristorante!

Sembra divertente, vero?

Ed invece non lo è: nell’intenzione di chi lancia certi anatemi creativi c’è la consapevolezza che aprire un’attività ristorativa significa cominciare una vita difficile, piena di responsabilità e senza tregua, avendo a che fare con tutte le complicanze delle relazioni umane, dal contatto col pubblico alla gestione del personale, lavorando mentre gli altri sono di festa e con ben tatuato in fronte che, come tutte le attività economiche, è un’attività a rischio.

Per intenderci, a diversi livelli di responsabilità, questo vale tanto per gli imprenditori che per le brigate di sala e cucina che ne condividono gioie e dolori, persone che l’imprenditoria dovrebbe cominciare a considerare più che dei semplici dipendenti delle vere e proprie risorse umane.

All’inizio di marzo e prima della chiusura definitiva delle attività la Federazione Italiana Pubblici Esercizi fa sapere, tramite un’indagine svolta sull’impatto del corona virus sulla ristorazione, quanto segue:

Il 92% dei ristoratori dichiara di aver registrato ripercussioni negative sulla propria attività, in particolare per più di uno su due le difficoltà sono iniziate da almeno due settimane, mentre per il 40% circa il quadro è peggiorato nel corso della prima settimana del mese, un peggioramento traducibile con una forte flessione della clientela e con il conseguente calo del fatturato. Hanno gravato sul quadro complessivo tanto le cancellazioni di prenotazioni storiche (63,7%) che di quelle giornaliere (33,5%) con la fisiologica diminuzione del flusso di persone in circolazione, la mancanza di turisti e di clientela locale. Il risultato ottenuto è stato chiaramente una perdita iniziale di fatturato di oltre il 30% per il 57% dei ristoratori e tra il 10 ed il 30% per tre imprenditori su dieci, con una flessione media che ha raggiunto il 30%, per quanto non vi fossero iniziali e significative criticità sugli approvvigionamenti, per quanto alcuni imprenditori facessero già allora difficoltà a reperire alcun materie prime specifiche.

Oggi, naturalmente, il quadro non può che essere più disastroso a causa del crollo economico dovuto alla pandemia, alla chiusura di tutte le attività non reputate di prima necessità ed all’esigenza della popolazione di restare a casa per contribuire quanto prima ad un calo drastico dei contagi.

Ed in tutto questo, ragionevolmente, si teme non vi sarà alcuna inversione di tendenza neanche a partire dalla prima decade, successiva alla Santa Pasqua, come si è già constatato in effetti.

Sempre grazie ai rapporti effettuati dalla F.I.P.E. facciamo qualche salto indietro:

Nel 2018 la ristorazione in Italia ha rappresentato il 35,5% sul totale dei consumi alimentari, superando la Francia di almeno cinque punti percentuali, mentre in Germania la spesa ha inciso meno del 30% del totale, del 47,9% nel Regno Unito, del 55,4% in Spagna ed in Irlanda addirittura del 58,5%. Nel nostro Paese, con oltre 80 miliardi e che dal punto di vista dei valori assoluti continua tutt’oggi ad essere il terzo mercato della ristorazione in Europa dopo Regno Unito e Spagna, si è registrato nello stesso anno che il 36% della spesa delle famiglie per prodotti alimentari transitasse fuori casa: il dato più significativo rilevato era che mentre i consumi nella ristorazione andavano in progressiva crescita quelli in casa diminuivano. Infatti, nel lungo periodo dal 2000 al 2017 il tasso medio annuo di crescita della domanda ristorativo è stato dello 0,6%. Nei singoli 12 mesi del 2018 l’indicatore ICEO ha fatto registrare una propensione a mangiare fuori casa da parte degli italiani del 42,7%. Nel 2019 i dati non sono cambiati significativamente ed infatti il consumo alimentare dei ristoranti ha inciso del 36% sul totale; la F.I.P.E. ha fatto notare intanto che prima ancora dell’emergenza covid-19 il 30,2% degli italiani propendesse già ad ordinare pranzo e cena da piattaforme di food delivery e che un 50,1% della popolazione preferisse acquistare lo stretto necessario, tornando alla spesa giorno per giorno.

Lino Enrico Stoppani, presidente della Federazione, ha voluto ribadire nel rapporto annuale del 2019 che lo studio ha voluto mettere in luce il cambiamento dei ritmi e degli stili di vita rispetto al cibo e la propensione dell’italiano medio a valutare più attentamente la genuinità dei prodotti alimentari, con un ritorno a cucinare a casa che privilegia di più la cena rispetto al pranzo. Tale studio, attento quindi agli aspetti salutistici, è anche frutto del protocollo di intesa siglato da F.I.P.E. e Ministero della Salute, collaborazione nata dal comune impegno a fornire al pubblico informazioni sempre più puntuali per contrastare alcune patologie come obesità e abuso di alcol e divulgare la conoscenza per poter gestire meglio il crescente fenomeno delle allergie e delle intolleranze alimentari. In una nota il presidente F.I.P.E. si è espresso in questi termini:

Non possiamo nascondere, infine, alcune rilevanti criticità che pesano sullo sviluppo del settore a cominciare dagli elevati tassi di mortalità imprenditoriale, dall’eccesso di offerta e dall’abusivismo, dalla bassa marginalità e da una progressiva dequalificazione”.

Dato ulteriormente significativo fotografa i primi nove mesi del 2019: in questo periodo hanno avviato attività di ristorazione 10.231 imprese, mentre ben 19.674 l’hanno cessata, tra cui moltissime splendidamente recensite da guide, piattaforme, riviste, bloggers e pennivendoli vari molti dei quali, senza voler entrare troppo nel merito della loro effettiva competenza nel complesso mondo della ristorazione e senza generalizzare, pare non fossero in grado di pagarsi il conto dopo pranzo o cena fuori, o meglio restii a farlo per qualche diritto acquisito.

Proviamoci adesso ad aggrapparci ad una guida e vediamo se riusciamo a restare a galla in questa brutta tempesta!

Resta comunque doveroso rilevare che senza l’aiuto di alcun virus e senza essere cinici, tra aperture e chiusure degli esercizi, Il saldo è negativo per 9.443 unità e forse qualche domanda, prima ancora di ipotizzare delle soluzioni, ce la dovremmo porre: tanto per cominciare chiedersi se si ha un effettivo controllo di tutti i flussi di cassa, tale da poter conoscere puntualmente il proprio utile reale.

Quindi potremmo desumere che una certa crisi del comparto ristorativo fosse, prima del lockdown, una sorta di segreto a vista. O no!?

In un paese come l’Italia che vanta una ricchezza in termini di biodiversità ed eccellenze enogastronomiche sarebbe giusto immaginare che, indipendentemente dal valore del servizio, dalla rinomanza del locale, dall’estro dello chef e dal design, la qualità del cibo che si mette a tavola, almeno la qualità di olio extravergine d’oliva, di pasta, di conserve di pomodoro, di salumi e formaggi, debba essere la stessa oppure dobbiamo ritenere che per il sol fatto si mangi in una trattoria, in una pizzeria o in un ristorante di fascia medio-bassa bisogni accontentarsi di prodotti poco rispondenti agli standard di genuinità e che magari di “made in Italy” hanno appena la dizione sulla confezione?

Non credo proprio: è più che giusto pagare il sovrapprezzo per la ricercatezza degli ingredienti, per la raffinatezza della cucina, per la professionalità del personale di sala, per l’eleganza del locale e per la comunicazione del vino da parte di un sommelier, ma non credo sia un ottimo motivo per vivere di una ristorazione fatta di eccellenza o scarsezza: nel mezzo ce la dobbiamo pur mettere qualcosa e non intendo certo la mediocrità.

Spero vivamente che questo inglorioso pezzo possa servire da sprone anche ad uno solo di quegli imprenditori desiderosi di farcela davvero, determinati ad aggiustare il tiro, pronti a raccogliere a sé la famiglia ed i dipendenti per tracciare assieme a loro una nuova rotta e condurli, da buon padre di famiglia, verso acque più sicure.

Ma per farlo spesso porsi le giuste domande può risultare più utile che dare delle risposte avventate…

Quanti ristoratori hanno effettiva vocazione a svolgere un’attività così ardua e complessa e, tra il personale impiegato, quanti lo considerano un nobilissimo mestiere piuttosto che un parcheggio temporaneo in attesa di trovare altro di meglio da fare?

Quanti imprenditori della ristorazione hanno ponderato le loro decisioni basandosi sul geo-marketing prima di aprire l’attività, sull’analisi dei competitor prima di formulare la pricing list, conseguenza della scelta dei distributori, della distinta base, del food & beverage cost e quindi del punto di pareggio di bilancio? E quanti tra costoro hanno creduto nel personale ed hanno investito nella formazione?

Quanti coscienziosi consulenti del food & beverage management hanno spiegato agli imprenditori come diventare autonomi, insegnandoli a camminare sulle loro stesse gambe e quanti hanno tenuto a precisare che un’attività ristorativa nella pianificazione del budgeting ha bisogno di ossigeno per almeno tre anni e deve poter rimodulare in questo periodo il break even point, la scelta di tenere o meno dei piatti nel menu e fare variazioni anche significative dell’offerta?

E come mai in Italia non abbiamo ancora un albo delle professioni ristorativo-alberghiere, sconveniente per qualcuno?

Il mio potrebbe sembrare un sermone, un affondo ed una critica pesante e beffarda ma in realtà non lo è: ho troppi amici e colleghi nella ristorazione per non avere a cuore questo mondo che mi ha dato e continua a darmi tanto, ma ho la consuetudine di parlar chiaro agli amici e dire loro quello che a loro serve e non quello che vorrebbero sentirsi dire: per queste cose ci sono gli articoli narcotizzanti a base di buonismo preconfezionati da quelli che pretendono di intendersene di ristorazione standosene seduti a tavola a fare la critica enogastronomica, troppo abituati ai salamelecchi dei loro clienti ed a vendere pacchetti di recensioni col fare amicale di un pusher che vuole farti stare bene a tutti i costi e che ti liscia facendoti capire che conosce i tuoi problemi…

…della serie “medico che compatisce non guarisce”. O no!?

Inoltre a sentire tutte le opinioni in giro, ciascuna cucita addosso alle esigenze di chi le enuncia e mai una volta a pronunciarsi per soluzioni utili nel collettivo, viene da capire il perché si dice “ogni capa è ‘nu tribunale”.

Ciascun ristorante per luogo, tipologia, offerta gastronomica, numero di coperti, disposizione dei tavoli, fasce di clientela e personale è assolutamente un caso a sé e persino nella stessa tipologia si possono configurare logiche, dinamiche e necessità completamente diverse. Dunque non si può pensare affatto di dover dare delle soluzioni omologate, soprattutto soluzioni che rendano un locale in fase di apertura uno scenario post atomico con gabbie in plexiglass, climatizzatori spenti per timore di miscelare l’aria all’interno degli ambienti, personale che nella tenuta ricorderebbero operatori sanitari. Insomma le persone fino all’altro ieri andavano a cena fuori porta per evadere, socializzare, “stare soft” come direbbe qualcuno, e di certo non vorranno uscire di casa, un luogo presumibilmente confortevole, per portarsi in un posto che è addobbato di tutto punto al fine di ricordare l’amara realtà di questa situazione pandemica da cui si tenta di fuggire, quando invece vorrebbero uscire a mangiare qualcosa per dimenticarsene una volta per tutte.

Non esiste un centro di gravità permanente nel mondo dell’imprenditoria ristorativa, bisogna stare costantemente a passo coi tempi, e nessuno può dare soluzioni efficaci per tutti, nessuno ha un “cappotto a forchetta” che stia bene indosso a tutti e per tutte le stagioni; occorrono piuttosto soluzioni ponderate minuziosamente e specifiche per ogni singola realtà, soluzioni “taylor made” insomma.

Da parte del ristoratore invece serve l’autocontrollo ed il coraggio, purché dettato dal buon senso, un forte spirito di adattamento, determinazione ed una grande capacità di improvvisazione. Bisogna anche avere comprensione e difendere tanto le scelte di chi ritiene opportuno chiudere che di coloro che vorranno mettercela tutta per restare aperti ed affrontare dignitosamente gli ingenti sacrifici che ne deriveranno.

Che si sappia in giro però che i prestiti, per un imprenditore di mestiere che sappia cosa sia per davvero un’attività economica, sono parte integrante della sua esistenza e che vi si fa ricorso in condizioni normali per rinnovo attrezzature, ricapitalizzazione dell’impresa e per restyling degli arredi ad esempio. Quindi perché creare anche in questo caso dei partiti di favorevoli o sfavorevoli agli aiuti governativi, l’uno criticando l’altro anche stavolta?

L’attività economica purtroppo, e già ce lo siamo detti, è un’attività a rischio, credere nei sussidi a fondo perduto è come credere a Babbo Natale e dubito che qualcuno abbia visto la possibilità di ottenere flusso di contante a tassi più agevolati di così: per tutto il resto ci sono le banche con le solite condizioni e gli strozzini!

Ma chi ha ancora la pancia piena dubito comprenda che il tentativo dello Stato nell’attuare queste manovre finanziarie sia mirato anche ad arrivare prima dei cravattari ed evitare che una situazione già di per sé drammatica possa diventarlo ancora di più, trascinando nel baratro le ultime speranze di chi vorrebbe farcela per davvero e poter aprire le serrande, quando sarà il tempo e si spera al più presto, senza ulteriori timori.

Millantare lo sforzo governativo nell’erogazione di un prestito significa sminuire il sacrificio collettivo che ne deriverà per mantenere aperta l’attività di una vita di chi ha il diritto di crederci e significa mettere molti professionisti con famiglie e personale a seguito a rischio usura.

Non sarà facile immaginare una ripresa, soprattutto per chi ha pensato più alle classifiche, alle recensioni ed alla web reputation, piuttosto che a coltivare un legame con la clientela, locale e non, fondato sulla sincera volontà di offrire un servizio dedicato e nella promozione costante dei punti di valore del proprio locale, ossia del fattore che lo diversifica dagli altri, con una forma di comunicazione viva ed attiva.

È inutile avere una reputazione sul web quando la stessa non coincide sulla reputazione reale e sull’aria che si respira nel locale. O no!?

Le stime che ho citato all’inizio del pezzo dovrebbero poterci far ragionare su quanto il ritorno alla spesa quotidiana e la propensione degli italiani a cucinare e panificare perdureranno anche dopo la crisi e quanto l’acquisto di bottiglie di vino online ci debba far valutare la possibilità di costruire carte del vino più sobrie e leggere, dando eventualmente la possibilità agli ospiti di sfruttare la formula “bring your own bottle”, vecchia quanto il cucco negli States, ed esigere il diritto di tappo. Infatti i dati sull’e-commerce e la nascita sui social di gruppi nati allo scopo di vendere a buon prezzo anche bottiglie di un certo pregio, dovrebbero farci riflettere su quanto l’ammortamento del valore di una cantina sia preponderante nella ristorazione.

Dovremmo poter immaginare anche quanto il treno perso degli “home restaurant” possa diventare un’opportunità da riconsiderare per alcuni, per la naturale propensione ad essere un ambiente più raccolto, per pochi intimi e con maggiore possibilità di attuare le misure mirate a contenere rischi da contaminazione, a patto di farlo con competenza e professionalità. Si parla spesso di delivery ma troppo poco di ristrutturare la pietanza nella sua preparazione e nel food design, di modo da rendere le portate più idonee e piacevoli all’interno di una confezione da asporto, rivedendo di conseguenza il packaging e ciò che esso dovrebbe comunicare. L’interconnessione col turismo, il comparto alberghiero ed il rapporto col territorio che producano economia circolare, gioco di squadra e turismo lento son cose che ci si è più compiaciuti a raccontare che a mettere in pratica, ma funzionano nella misura in cui funziona il ritorno al senso autentico dell’ospitalità ed al cibo vero… non a caso il trend vorrebbe anche un ritorno alla ruralità e quindi agli agriturismi.

Bisogna affilare le armi e non lasciarsi cogliere impreparati: la guerra alla ripresa delle attività si prepara nel tempo di pace cui ci costringe il lockdown e con grande senso del tempismo. Sono certo che chi vorrà tornare, spero davvero tutti, lo farà tornando meglio che mai, separando una buona volta la necessità dalle contingenze, dando peso al valore reale delle cose, al contenuto sotto ogni aspetto, guardandosi intorno per trovare partner strategici, compagni di cordata solidali e non i soliti tromboni. Stare chiusi in casa ci salva dal contagio certo, ma intanto distrugge tutto quello che avevamo costruito. Ha senso? Sì, perché ci fa guadagnare tempo, a patto di usarlo per fare un piano, introspezione ed autocritica, altrimenti è tempo perduto. Un piano però non è un hashtag, non è un altro slogan. Un piano è una storia in cui credere e per cui resistere provando il tutto per tutto per vincere