Paolo Angeli e Jabel Kanuteh
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Paolo Angeli, l’artista sardo nato sul mare e al mare si ispira per comporre le sue opere. Susanna Lavazza lo ha intervistato per mediterranea in occasione del concerto di martedì 19 aprile e dell’imminente uscita del nuovo disco.

L’America lo ama. Nel 2018 gli ha aperto le porte della Carnagie Hall di New York, l’Olimpo della musica internazionale. E l’anno scorso ha candidato ai Grammy Award il suo ultimo lavoro – “Jar’a”- come Best Contemporary Instrumental Album e Best Instrumental Composition. Un successo enorme per Paolo Angeli. Anche perché il brano “Sùlu”, in cui canta in sardo, figurava tra Best Global Music Performance e Best Arrangiament Instrumental e Vocals. Ma lui, nato a Palau nel 1970 e diplomatosi al Dams di Bologna in etnomusicologia, è un uomo del Mediterraneo. E pur girando da oltre vent’anni tra i festival del mondo trova il centro di gravità nel Mare Nostrum. Da qui arrivano e partono i nuovi progetti. 

Tu ora vivi a Valencia e il tuo prossimo disco da solista, in uscita a fine maggio, si chiama Rade come le baie, i punti di approdo, di rifugio dalla tempesta, i momenti di incontro di un popolo unico che viaggia su differenti sponde, quelle del Mediterraneo. Dai Balcani al Nord Africa dal Medio Oriente alla Sardegna alla Penisola Iberica l’acqua rende possibile il contatto tra culture diverse. Lo stesso secondo te può fare la musica? Come potrebbe diventare il nuovo esperanto? 
Forse la musica è quanto di più simile si possa trovare all’acqua marina. Permea nei fiordi della conoscenza, col salino corrode le memorie dei popoli, si insinua, modifica le tradizioni stratificate nel tempo, trova sintesi che si sedimentano. Se ci pensi le musiche popolari che hanno segnato il ‘900 sono nate spesso nei porti, a contatto con il mare e con culture multietniche. Il linguaggio meticcio lo trovi nel Rebetiko, nel Flamenco (incontro tra la componente arabo-andalusa e la cultura gitana), nel Tango, nel Fado. Quasi sempre esiste un legame tra emigrati, classi povere ed emarginate, ambienti conviviali legati talvolta all’alcool, alla droga e alla prostituzione. Come accadeva per Jelly Roll Morton nei bordelli di New Orleans. L’esperanto ha attraversato il Medioriente, ha preso il largo, è risalito sulle terre emerse, ha proseguito ripercorrendo i Balcani, fino ad arrivare nelle nostre città. I nuovi linguaggi musicali arrivano inevitabilmente come risposta a un cambiamento sociale. In qualche modo i popoli che si affacciano sul mare vivono oggi una grande occasione per tracciare le coordinate di una nuova musica: un’avanguardia-mediterranea capace di restituire la luminosità del Mediterraneo.

Dici che Rade è la risposta solare a questo presente: dai vecchi conflitti e schieramenti potrebbe nascere un nuovo baricentro proprio nel Mediterraneo? 

Io rivendico con Rade un Mediterraneo di pace, di incontri, di assenza di figure dominanti. Per un attimo con un disco vengono meno le gerarchie tra alto e basso, tra popolare e colto, tra Oriente e Occidente. Forse è la salsedine che ci unisce e scolpisce il viso a rendere tutto questo possibile con naturalezza. Rade rivendica la centralità del Mediterraneo quale opportunità per convertire le tradizioni millenarie che ne hanno definito le pagine musicali più belle in cultura contemporanea. Il tutto filtrato dal punto di vista della Sardegna, ma con un campo neutrale di esplorazione che ho trovato a Valencia. Per anni si è guardato esclusivamente alle influenze musicali che arrivavano da oltre Oceano. In questo momento puoi ritrovarti in un bar di Valencia e ascoltare un virtuoso di Kanun che arriva dalla Siria, un percussionista della Giordania, un contrabbassista di Cipro, un mandolinista del Brasile. E qualche giorno dopo, nello stesso luogo, puoi assistere ad un bailaor di flamenco puro in interazione con un pianista calato nella tradizione gitana ma aperto alla modernità. Come vedi sono tutti esempi di musiche nate in diverse sponde del Mediterraneo, o dell’Atlantico, che ora si confrontano con naturalezza nei nostri porti, come farebbero i detriti che porta il mare nel bagnasciuga.

Hai studiato il canto a tasgia gallurese e quello a chitarra logudorese, ti sei interessato al flamenco tradizionale, alle avanguardie del jazz, al post rock, al pop minimale e come un Ulisse della musica hai sempre scavalcato i confini per vedere che cosa c’era più in là, al punto che non ti è bastato uno strumento e ne hai inventato uno che sembra un’orchestra: la chitarra preparata a 18 corde (ibrido tra quella classica e violoncello, batteria, con tanto di pedaliere, martelletti, regolazioni elettroniche). Quali sono oggi le sirene che i musicisti devono temere?

I musicisti creativi sono come le spugne: assorbono e rilasciano l’acqua con tutto quello che hanno assorbito. Non cercano la purezza, al contrario cercano la sorpresa, lo stupore, guardano quello che non conoscono con estrema curiosità. I musicisti devono ringraziare le sirene e non temere mai di perdere la bussola. Solo accettando la deviazone di rotta si può ritrovare lo stupore dei bambini

Il 19 aprile suoni in duo al Volvo Studio di Milano con Jabel Kanuteh, maestro di kora e di melodie tradizionali del Gambia (che si affaccia sull’Oceano Atlantico), per il Festival Un Mare di Suoni, contaminazioni sonore dell’Italia Mediterranea. Anche tu credi, come certi scrittori, che in un certo senso il concetto di Mediterraneo non è più soltanto geografico? Bensì si ascrive all’unione tra due sponde, allo scavalcare il dualismo e annullare i confini?

 Con Jabel, straordinario musicista del Gambia e griot –  figure avvolte da un’aura quasi mitologica, trasmettitori orali del sapere – tessiamo un dialogo possibile tra le due sponde. Ci incontriamo a metà, ormeggiati con l’azzurro attorno a noi, circondati solo dalla voglia di conoscerci e di perdere parte del nostro ego per alimentare insieme una musica che non c’è: come un’isola immaginaria, un miraggio, una sirena centenaria con il viso scolpito in ebano, irresistibilmente bello. Spesso i musicisti che arrivano dall’Africa e dal Medioriente sono viaggiatori per necessità, hanno dovuto lasciare la propria terra. È il caso di Jabel Kanuteh. Ma portano con sé e custodiscono la bellezza della musica, alimentando la speranza e non il rancore. Arriverà un tempo in cui come europei proveremo una vergogna inaudita per essere stati corresponsabili del dramma del Mediterraneo, trasformato dai nostri politici in una fossa comune senza nomi. A noi la colpa di aver voltato lo sguardo altrove. E oggi spesso sono questi i musicisti che portano con loro una storia e una spinta volta a rinnovare la ricerca di un linguaggio musicale ibrido. Solo cercando di scavalcare i pregiudizi e pensando il Mediterraneo come un luogo di condivisione possiamo approdare alla conoscenza del nostro io e annullare i confini. Noi con la musica ci siamo riusciti: ora tocca a voi proseguire il cammino. Ci seguite?

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