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I pomeriggi estivi in Sardegna sono lunghi se si abita in un paese lontano dal mare, io amavo il silenzio innaturale che circondava la nostra casa in “s’inghiriada” (curva). Di fronte all’obbligo imposto da mia mamma e mia nonna di rimanere a casa per non incorrere nelle grinfie de “Sa mama e su sole, la Mamma del sole, io mi rifugiavo nello studio di casa. Una camera stretta e lunga, dalle pareti alte dove la voce rimbombava, due letti in ferro dalle spalliere rigide e scure, tutt’intorno quattro forse cinque librerie colme di libri. Avrò avuto una decina d’anni, mi divertivo a portare giù dai ripiani i volumi dell’enciclopedia, tomi grandi, pesanti. Un giorno come sempre, ne presi uno a caso, iniziai a sfogliarlo, cercavo le immagini, alla fine del tomo alcune foto si susseguivano, la prima volta dovetti mettere a fuoco, non capivo, emergeva soltanto un bianco, anzi no a ben guardare era un giallo tenue.

Un ammasso di qualcosa sul cassone scoperto di un camion, guardai meglio e sentii salire in me la nausea, rinchiusi e rimisi schifata il tomo al suo posto. Non chiesi mai a nessun fratello o sorella maggiore di spiegarmi quelle foto. Passò un po’ di tempo, ancora un lungo pomeriggio di silenzio e ritornai nello studio che poi era la camera da letto dei due mie fratelli maggiori, mentre osservavo nell’angolo la pesante sciabola dentro il fodero verde ricordo di un trascorso militare, mi arrampicai ancora a quello scaffale e ripresi il tomo, non a caso stavolta. Riaprii quella pagina e trattenendo il senso di nausea osservai quelle foto, questo fu il mio primo incontro con la follia dell’olocausto.

Sono passati più di trent’anni ormai e quella bambina è sempre dentro di me. In un liceo portai un libro ai ragazzi, me lo aveva regalato mia madre, non ricordo neanche il titolo. Riuscii a leggere le prime due pagine, ritornò la stessa sensazione, l’autore un sopravvissuto al lager nazista descrisse la sensazione che provava quando i soldati nazisti portavano la tazza con dentro del liquido bianco ed un tozzo di pane raffermo, la assimilò allo sbavare dei cani di fronte alla ciotola, tutto su uno sfondo di marmi freddi e gelidi. Decisi di farlo circolare in classe con la speranza che non mi fosse mai reso indietro, cosi accadde e non mi dispiacque. Insegno storia ma faccio fatica a rimanere obiettiva quando devo spiegare ai ragazzi l’olocausto, non riesco ad accettare che faccia parte della storia, non perché lo neghi, anzi, piuttosto perché dimostra la parte più mostruosa del genere umano, la sua anima cannibale. Preferisco la storia medioevale perché da la possibilità di percorrere insieme ai miei alunni la nascita della persecuzione degli ebrei. Intanto all’indomani della crocifissione del Cristo inizia la loro condanna, ma è con l’unificazione della penisola iberica che viene ultimata la Reconquista, la pulizia completata con la caduta del Regno di Granada nel 1492 che mise fine al dominio musulmano e completò la cattolicizzazione della penisola con la cacciata degli ebrei. L’inquisizione spagnola iniziò ad avviare i motori, occorreva fare pulizia. Oltre 250.000 gli ebrei presenti nella penisola, obbligati alla conversione ma definiti subito dopo marrani, ma fu la redazione degli statuti della limpidezza del sangue, Limpieza de sangre, alla fine del XV secolo, che trasformò la discriminazione antigiudaica in una discriminazione di tipo razziale. Non soltanto si veniva accusati di professare una fede diversa ma occorreva avere, scusate l’analogia voluta col mondo animale, un pedigree puro, senza nessun antenato di fede ebraica.

Gli ebrei spagnoli furono costretti a lasciare il paese nel 1492 in seguito ad un Decreto firmato dai re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando II D’Aragona il 31 marzo, quattro mesi di tempo per andare via lasciando però tutti i loro averi in Spagna. Fuggirono, il Mediterraneo da secoli raccoglie le lacrime delle vittime della discriminazione razziale, molti si rifugiarono in Marocco, a Istanbul e in altri territori dell’Impero Ottomano dove i governi musulmani davano garanzie di libertà di culto alla pari di tutte le altre religioni del libro, e poi conosciamo la storia e la nebbia che sale dalle paludi del dolore umano dei campi di concentramento.

Rivedo ancora per un attimo il sole di quei lunghi pomeriggi estivi della mia infanzia, la nausea di fronte a quelle immagini si è ora trasformata in rabbia ed insieme in determinazione a voler far conoscere l’origine degli eventi. Occorre capire che il nostro mare è la nostra culla ma non per scappare, ma per spostarsi e raggiungere i fratelli di altre culture diverse dalla nostra, per lingua forse, tradizioni, religioni ma universale nel rispetto dovuto all’uomo come creatura e fratello di un Cristo che mai ha parlato di razze superiori. Chiudendo gli occhi, in una sorta di respirazione mantrica, rivivo l’immagine suggerita dal mio collega di antropologia culturale, per il quale non esistono i confini fra le nazioni ma nella realtà le differenze sono da pensare piuttosto come una fragranza, un profumo che si sposta seguendo i movimenti dei popoli, profumo piacevole, che attrae, di vita e mai di morte.

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