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Ad oggi sono ottantatré i funerali celebrati per le donne uccise dai loro mariti, compagni o ex. Vite interrotte dopo anni di violenze psicologiche e fisiche. Donne intrappolate in un rapporto tossico che non riescono a rompere. Famiglie distrutte, figli orfani di madre e di padre in carcere o suicida. Una strage che si protrae dalla notte dei tempi, prima silenziosa oggi alla luce del sole.

Il fenomeno è strutturale, da molti decenni. Ma ogni volta è visto dalla stampa, e dall’opinione pubblica, come un evento eccezionale. Ogni volta che si intervistano i vicini di casa o conoscenti, l’atteggiamento è quello della sorpresa “era una famiglia così a modo, persone per bene”. In questo ambito non ci sono differenze tra classi sociali, differenze geografiche o culturali: ad uccidere può essere chiunque.

Alcuni dati

Nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto all’anno precedente, sia per telefono, sia via chat (+71%). Con un boom in corrispondenza del lockdown scattato per la pandemia. Guardando più indietro, il 2018 si è chiuso con 141 donne vittime di omicidio volontario, e il 2019 con 111, l’88,3% delle quali uccise da una persona conosciuta: quasi metà dal partner, l’11,7%, da un uomo con cui erano state in passato, il 22,5% da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e il 4,5% da un conoscente, un amico o un collega.

Nel 2019 in Europa sono state uccise 1.421 donne, una media di quattro al giorno, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 nel nostro Paese. Ma la prospettiva cambia se si prende in considerazione il numero di abitanti: le donne vittime di omicidi volontari sono 4,06 ogni 100 mila abitanti in Lettonia, 2,23 a Cipro, 1,59 in Montenegro, 1,47 in Lituania, 1,24 a Malta, 1,07 in Finlandia, 0,93 in Danimarca, 0,91 in Albania, 0,89 in Bulgaria e in Austria. Gli ultimi dati ufficiali contenuti nei database di Eurostat, aggiornati a due anni fa, confermano un trend emerso negli ultimi anni: i tassi di omicidi femminili più elevati si registrano nei Paesi dell’Europa orientale e meridionale.

Come un rapporto di coppia si trasforma in un inferno?

Lo schema segue quasi sempre lo stesso copione. Si crea lentamente una sproporzione di forze tra l’uomo e la donna: a volte è economica, in altre è psicologica. In ogni caso, per l’uomo, il legame diventa possesso, la moglie/compagna diventa proprietà, non solo del corpo ma soprattutto della mente. La donna perde completamente la propria autonomi e si affida senza protestare a chi le fa del male. L’epilogo è quello di non riuscire più a difendere se stessa e i propri figli, cadere nel tunnel della dipendenza dal carnefice.

La responsabilità, ormai è evidente, non è solo individuale.

Non è un raptus improvviso che uccide, tanto meno una crisi di gelosia o un’ipotetica malattia mentale dell’assassino (queste ultime rappresentano il 2% dei casi). Ogni volta che un uomo uccide una donna ci si deve chiedere come funziona la nostra società. Bisogna allargare lo sguardo e la prospettiva per capire le cause pregresse al femminicidio stesso. La violenza è insita nella stessa struttura sociale in cui viviamo, “siamo ancora immersi in una società patriarcale, in cui la vita di una donna vale sempre meno di quella di un uomo”. E’ un assunto che abbiamo imparato ad assimilare in questi ultimi anni, lo sentiamo dire in TV o negli articoli di giornale. La violenza di genere è una realtà quotidiana, anche quando non sfocia in un assassinio. Un’attitudine mentale diffusa, si potrebbe definire un cancro della nostra società, una malattia che può e deve essere curata.

La lotta al femminicidio si attua a diversi livelli: legislativo, esecutivo, giudiziario. Un lavoro enorme viene fatto dalle associazioni e centri di ascolto, distribuiti in tutto il territorio nazionale. Certo, sempre troppo poco per accogliere le richieste d’aiuto di migliaia di donne italiane in pericolo.

In molti casi si poteva evitare, magari con l’obbligo del braccialetto elettronico a chi è già stato denunciato. Anche l’ex Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, condannato per reati finanziari, dovrà indossare il braccialetto elettronico per essere monitorato in ogni suo movimento.

Per capire meglio la situazione italiana abbiamo intervistato la senatrice Cinzia Leone, Vice Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.

Senatrice Cinzia Leone

Senatrice Leone, che ruolo ha la commissione parlamentare?

La commissione è stata creata nella Camera alta per sottolineare la sua importanza e prestigio. La nostra è una commissione di inchiesta, perciò studiamo la situazione attuale e cerchiamo soluzioni a 360° gradi. Abbiamo fatto decine di audizioni, tra associazioni, esperti, professionisti delle forze dell’ordine per comprendere sempre meglio il fenomeno. Abbiamo uno staff di consulenti esperti, tra magistrati, psicologi, studiosi del diritto. Sentiamo anche giornalisti, avvocati, operatori del terzo settore. Da questo lavoro nascono proposte di legge da consegnare alle commissioni parlamentari.

C’è una collaborazione tra i partiti su questo tema?

Diciamo che la nostra commissione è lo specchio della composizione parlamentare, tutti i partiti in proporzione ai voti. C’è una sensibilità generale, ma poi tradurre nella pratica il nostro lavoro non è semplice. Naturalmente noi seguiamo i principi della Convenzione di Istanbul, (da poco rifiutata dalla Turchia di Erdogan ndr.), il nostro punto di riferimento per tutto quello che riguarda la violenza di genere.

Lei di cosa si occupa esattamente all’interno della Commissione?

Io mi occupo della prevenzione. Tutto il lavoro che deve essere fatto a monte, coinvolgere innanzitutto le agenzie educative, ma credo molto anche nella rieducazione dei maltrattanti nelle carceri. Ho presentato un disegno di legge per l’educazione emozionale nelle scuole. Sono convinta che nelle emozioni, nel loro controllo, si trova la chiave per evitare l’azione omicida. Un altro aspetto che mi sta a cuore è la comunicazione, parlare nel modo giusto del tema.

I media in Italia riescono a trattare il tema in modo adeguato?

Diciamo che i giornali preferiscono fare lo scoop, trattare il caso di femminicidio nei suoi aspetti più morbosi e sensazionalistici. Persiste ancora oggi un linguaggio sessista, specchio di una società patriarcale.

Non salva proprio nessuno?

Come è evidente, ci sono giornalisti attenti e altri che inseguono la notizia che può fare audiens. Ci sono poi molte lacune nella lingua italiana che vanno colmate. Le parole rappresentano quello che siamo, non possiamo sempre dire che la donna è stata uccisa, e non l’uomo ha ucciso la donna. C’è una differenza sottile ma determinante. Altro esempio è quello del mondo della pubblicità, non si possono usare sempre messaggi ambigui, che usano il corpo come réclame. Una visione stereotipata della donna, si finisce per vederla sempre legata alla sensualità.

Come il caso della celebre statua della spigolatrice?

Esattamente. Mi vergogno di chi ha commissionato l’opera, anche se è un mio collega di partito. Non mi fraintenda, io non sono bigotta, non mi scandalizza il nudo femminile. In questo caso quel tipo di rappresentazione è completamente fuori contesto.

Il problema è nell’uomo che guarda e non nel corpo in se?

Io credo che ci sia assoluto bisogno di educazione alle emozioni, l’uomo nella sua indole non è portato ad esprimere emozioni, tanto meno a conoscerle e controllarle. L’esplosione di rabbia deriva dall’essere colpito nell’orgoglio di uomo e si uccide la donna in quanto donna.

Detta così sembra la rappresentazione di un istinto primordiale

Guardi, provi a pensare il modo in cui vengono uccise le donne. Sempre al collo o al cuore, al collo per farle zittire. La donna non deve più parlare, e non può più provare sentimenti o emozioni. Tutto questo ha un significato preciso nella simbologia dell’omicida. Non ci sono problemi psichiatrici che fanno scatenare la violenza, quelli riguardano solo il 2% del totale, il resto è rappresentato da uomini “normali”, minati nel loro orgoglio.

Secondo i dati raccolti dalla Commissione, il fenomeno è in peggioramento rispetto al passato? Si uccidevano le mogli anche un secolo fa o la società contemporanea ha delle responsabilità maggiori?

Si uccideva anche prima, ma non se ne parlava mai. Il marito era in qualche modo proprietario della moglie e dei figli, poteva farne quello che voleva. Il delitto d’onore era perdonato per il marito, ma non per la moglie se uccideva il marito che la tradiva. Oggi se ne parla di più, e male. La cornice in cui avviene il femminicidio è sempre la stessa, si tramanda da generazioni. I figli maschi imitano i loro padri che maltrattavano le madri, e le figlie femmine subiscono come subivano le madri.
Io però vorrei segnalare soprattutto i casi positivi, di donne che si sono ribellate e ce l’hanno fatta. Parlo sempre di Rosa Balistreri, una donna di inizio novecento che ebbe il coraggio di lottare per la sua autodeterminazione. Quello che manca oggi a tante donne, lottare per essere indipendenti.
Se continuiamo a descrivere la donna come fragile, condannata ad essere vittima, si preclude una possibilità di riscatto e consapevolezza.

Ci sono più donne che denunciano violenze oggi?

Si, soprattutto dopo l’adozione della legge Codice Rosso contro le violenze di genere. Questa legge include anche altri reati, prima non punibili con un percorso specifico, pensi solo alle offese fisiche come la deturpazione del viso con l’acido.

Insomma le leggi ci sono, come mai le statistiche continuano a fornire sempre gli stessi dati?

Abbiamo un impianto legislativo soddisfacente, il problema è la eccessiva burocrazia. Le norme ci sono ma sono complicatissime da mettere in pratica, poi ci si mette anche la magistratura.

Ossia?

I magistrati, ma anche gli agenti di polizia, non sono preparati ad applicare le nuove norme. Si è fatta la legge ma risulta monca per mancanza di formazione di chi la deve applicare. Ci sono casi di non applicabilità che rasentano l’assurdo. Se un marito, già allontanato dopo una denuncia, cerca di entrare in casa ma non uccide la moglie non risulta reato, solo se la uccide in flagranza di reato. E’ evidente che ci sono delle storture che vanno aggiustate.

A questo proposito mi viene in mente il braccialetto elettronico per i detenuti in semilibertà. In Spagna, ad esempio, l’obbligo del braccialetto ha fatto diminuire del 50% i femminicidi. Come mai in Italia non sono stati adottati per controllare i compagni violenti? Non pensa che questo sia un metodo per proteggere le future vittime?

E’ certamente un vulnus della nostra legislazione. Io sono d’accordo, come lo è la commissione in cui lavoro. Il problema è che al momento di iscrivere la spesa a bilancio scompare all’ultimo momento a favore degli Ostelli della Gioventù, per dire. Bisogna che tutti facciano la loro parte.

Si, ma siete voi adesso nella posizione di fare qualcosa di concreto.

Certo, ma non è semplice. Il tema del femminicidio non è la priorità, se ne parla solo quando succedono le tragedie. Si producono articoli, approfondimenti, servizi televisivi sull’ennesima tragedia, ci si indigna e poi di nuovo il silenzio totale, anche tra colleghi. Pensi alla ministra alle pari opportunità, si occupa esclusivamente di empowerment femminile. E’ importante che le donne arrivino a coprire posti di potere, ma è fondamentale salvarle la vita prima di tutto.

Quindi non si riesce a cambiare la situazione?

La soluzione, per come la vedo io sta nella prevenzione. Il femminicidio è una questione culturale, una cultura patriarcale che deve essere cambiata. Bisogna agire nelle scuole. Come le dicevo ho presentato un disegno di legge per l’educazione emozionale nelle scuole, è fermo in commissione cultura. Nencini (Italia Viva), non ha preso in considerazione la proposta.

Senatrice Leone, il femminicidio colpisce soprattutto i figli, che diventano orfani di madre e di padre, in carcere o suicida. Oltre al dolore per la perdita, si trovano ad affrontare le difficoltà economiche improvvise. Chi si prende cura di loro si trova in difficoltà se non ha le possibilità economiche di mantenere i bambini. Non le sembra ridicolo il fondo per i bambini vittime di femminicidio? Si tratta di 7 mila euro di risarcimento da parte dello Stato. Le ricordo che dal 2000 ad oggi sono circa 1700 i bambini orfani.

Come non essere d’accordo con lei. Però a difesa dello Stato posso dirle che il fondo è stato leggermente incrementato, si tratta di 14 milioni per quest’anno e di 12 milioni dal prossimo anno. Lo Stato poi provvede alle spese per gli studi fino alla scuola dell’obbligo e mi sembra 300 euro al mese per bambino.

La verità è che il terzo settore investe molto di più dello Stato. “A braccia aperte” dell’impresa sociale, ad esempio, destina 10 milioni di euro per 4 progetti.

Si può sempre fare meglio.

Quali sono i prossimi passi da fare?

Cambiare il linguaggio da parte dei media. Non può cambiare mai nulla se non si usa il buon senso quando si parla del mondo femminile. Vorrei che le donne fossero presentate nelle eccellenze, vorrei tirare fuori le storie a lieto fine, raccontare le donne che hanno deciso di lottare contro la violenza. Basta con l’immagine di vittima, concentratevi sul carnefice. Un altro lavoro a cui tengo molto è quello sulle carceri, c’è assoluto bisogno di rieducazione. Questo però non si può fare se le condizioni vita dentro sono disumane, anche solo per l’assistenza medica che è carente in quasi tutte le carceri italiane. Il rispetto dei più deboli è alla base della crescita di una società.

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