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Scutari è una città dell’Albania con una popolazione di circa 83.000 abitanti. Fondata dagli Illiri nel III sec. A.c, conserva ancora oggi i resti delle città medievali di Rosafat, tante moschee, monasteri e chiese, a testimonianza che essa è sempre stata un crocevia di diverse culture. La sua cucina presenta influenze di quella greca e turca, probabilmente anche grazie al fatto che le loro produzioni sono molto simili: olio di oliva e miele. I piatti principali sono costituiti da carne, di agnello, montone, vitello o maiale, sempre accompagnata da riso pilaf, mentre i dolci principali sono di origine greca o turca. Il clima è quello tipico mediterraneo, mite tutto l’anno (1). Devono essere forse queste caratteristiche che hanno spinto Pietro Marubi, architetto, scultore, pittore e, in seguito, fotografo a trasferircisi nel 1856, dove fondò il primo studio fotografico del paese. La sua eredità, oltre che storicamente rilevante, è importante da un punto di vista culturale. Alla sua morte, infatti, nel 1903 lasciò un archivio di oltre quattromila negativi. La sua attività fu proseguita dal figlio adottivo, Kel Khodeli, e ancora da suo nipote, Gege Marubi, che studiò cinema e fotografia alla scuola dei fratelli Lumiére di Parigi (2).

L’archivio storico della famiglia è oggi gestito dal museo nazionale di fotografia, che è stato aperto a Scutari nel maggio del 2016. É stato lo stesso nipote di Marubi, Gege, a donare allo stato albanese negativi, lettere, telegrammi e macchine fotografiche di famiglia, che raccontano, non solo la loro storia, ma anche quelle di albanesi e viaggiatori occidentali che si son fatti fotografare da Marubi negli anni.

Nato a Piacenza nel 1834, Pietro Marubi fu tra i tanti che parteciparono ai moti garibaldini. Fu accusato dell’omicidio di Carlo III di Borbone e, come tanti altri, fuggì dall’Italia. Si diresse prima in Turchia, poi in Grecia e, solo alla fine, in Albania, dove, dopo un viaggio da Sud a Nord, raggiunse Scutari, ai tempi un importante centro commerciale e culturale. Infatti, la sua posizione geografica favorevole, la rendeva uno snodo fondamentale per i commerci tra Oriente e Occidente. La città era abitata da russi, francesi, inglesi, spagnoli, greci e italiani: la sua vivacità aveva un’anima tutta mediterranea e in essa la cultura fioriva florida (3). Qui Pietro Marubbi diventa Pjetër Marubi. Come pittore ed architetto, disegna i progetti della cattedrale e dell’ambasciata italiana e dipinge diverse chiese sparse per tutto il territorio balcanico. Ma fu la Dritëshkroja, “scritto con la luce”, il suo studio fotografico, a dargli grande fama, anche come fotografo internazionale. Infatti, spostandosi spesso anche in Montenegro, lavorò per diverse riviste estere, come The Illustrated London News e Illustrazione Italiana.

I suoi erano, tuttavia, soprattutto servizi rivolti a privati di tutte le classi e di tutte le età. Quelle foto rappresentano oggi uno spaccato unico dell’Albania di allora. Nei suoi archivi fotografici sono immortalati per sempre non solo viaggiatori occidentali che volevano un ricordo di un viaggio in una terra considerata esotica, ma anche e soprattutto gli albanesi. Fotografati con gli abiti tradizionali dell’epoca, dipinti per sempre nella loro quotidianità, appaiono mercanti e contadini, così come imam e preti (4).

Gege Marubi donò il suo archivio familiare, così come fecero altri fotografi della città ai tempi, durante gli anni del comunismo, nei quali era proibito svolgere qualsiasi attività privata. Il Museo Nazionale di Fotografia Marubi oggi è uno dei più importanti patrimoni della cultura albanese, una tappa obbligata per chi visita l’Albania. Presto ospiterà la mostra dal titolo “Le due vie”, dedicata al fotografo albanese Kole Idromeno, e curata da Adrian Paci, artista di Scutari.

Daniela Melis

 

1 Visita alla città medievale di Scutari, in Albania, da viaggi.leonardo.it

2 L’Albania di Marubi, Portfolio, in Internazionale 1186, 6 gennaio 2017

3 Pietro Marubi, L’italiano di Scutari primo fotografo dei Balcani, in eastjournal.net

4 L’Albania di Marubi, op. cit.

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