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Sezione racconti

1° Premio Sezione Racconti

Michela Serra

On the road

Io sono matto. E ora mi sento meglio.
La soluzione è arrivata in una notte di mezz’estate.
Senza doverci rimuginare sopra troppo a lungo.

Le ore di veglia mi hanno scombussolato. Le ho trascorse interamente a pensare, come avevo deciso quella mattina mentre Pi raccontava il suo ennesimo incontro eroticomico fin nei dettagli più intimi.
Quel cascame di parole, senza soluzione di continuità, aveva spostato la mia attenzione sul fatto che dovevo fare ordine nei miei progetti e catalogare gli ultimi eventi con precisione.
L’aria nel vicolo vibra e il poco vento risponde. Come la voce di Jimi quando si accorda con quella della sua chitarra.
Le dita picchiano ansiose i tasti della macchina per scrivere. Il ticchettio si fa sempre più intenso.
I tasti mi chiedono attenzione, bussano alla mia porta, spalancano la finestra. Rifiuto di farli entrare. Eppure quel suono è reale. Sogno o son desto?
Poco a poco si fa insistente, mi scuote e mi trascina fuori, ne sono ipnotizzato, i sensi sono liquidi, la mente è misteriosamente vuota. Forse perché ieri notte ho portato a galla ogni pensiero sepolto negli angoli più cavi e ora mi sento sollevato, pronto a ricominciare.
Intanto indosso in fretta l’unica tuta pulita, scovata tra le macerie degli abiti accatastati sulla sedia. Calzo le scarpe da ginnastica ed esco sbattendo la porta.
Stamane non andrò al lavoro.
Pi, impettito, si leverà in piedi di fronte allo specchio e racconterà a se stesso le sue mirabolanti avventure.
Oggi ho deciso di vivere la mia, di avventura.
Spengo il cellulare e metto su gli auricolari con Hendrix pronto a imbastire la colonna sonora.
Peoples people inizia a borbottare nelle orecchie.
Di solito invento racconti lungo la strada, durante la corsa o la passeggiata. Non li trascrivo, sento il bisogno di crearli e custodirli nella mente. Li ingegno e poi li lascio lì dentro.
Qui trovano sede dei tasti efficientissimi.
Tiro fuori i brani quando l’anima lo reclama e li espongo come li ricordo. Tralasciando o aggiungendo qualcosa in completa libertà. Chi potrebbe mai affermare sia giusto o sbagliato? È opera mia.
A volte mi metto a declamarne alcuni pezzi, cavati a caso, quando sono seduto alla scrivania.
«Dove trovo l’interruttore per spegnere il congegno?» I colleghi mi pigliano per matto.
«Porteresti di certo a termine il tuo lavoro quotidiano, se smettessi di perderti in chiacchiere!», mi ha detto Pi infastidito.
Non capiscono. Non capiscono che le persone hanno bisogno di storie. Hanno bisogno di ascoltarle e di raccontarle, per recuperare un equilibrio smarrito, per trovare consolazione, per mescolarle al proprio vissuto e trarne suggerimenti. Oppure, semplicemente, per ricavare benessere.
Le storie sono lo scheletro della spinta all’azione. Il coraggio e la perseveranza ne sono i muscoli. Il tutto è la pienezza da raggiungere.
Per esempio, adesso mi rimbalza in testa l’incipit a cui ho pensato quando Pi spandeva ai quattro venti i fatti della sera prima. I tasti hanno cominciato a lavorare.
“Ai confini dell’abitato c’è una strada che conduce a un’altra strada”. Bene…
“In fondo si trova un negozietto molto scarno”.
Bene…
“Davvero dappoco. Si chiama ‘Italo Calvino’. Sì, proprio così. ‘Italo Calvino’ si chiama. Propone un inventario di libri vecchi. Antichi, mi ha corretto la commessa”.
E poi?
“Tutti libri degli ultimi cento anni. Non precedenti. La sua è una scelta di petto e di passione. Era una novecentina DOP e voleva sapere tutto sul suo secolo. «Ricordi quella frase?», mi disse una sera. «I libri rivelano i pori sulla faccia della vita. Sono scomodi a volte. La gente vuole soltanto facce di luna piena, facce senza pori, senza peli, senza espressione. Ecco io, al contrario, voglio conoscere ogni espressione, ogni pelo, ogni poro, che il Novecento ha fornito. Da lì discendo. Capisci perché i libri sono odiati e temuti?»
Insomma è così che mi genero di nuovo, lontano da schemi prestabiliti.
Un libro che lentamente rivela i pori sulla faccia della vita.
E mentre cammino e invento e ripongo in soffitta, sono capace di raggiungere l’altro capo della città.
In questo momento la mia mente è uno spazio talmente aerato e incorporeo, che metterò insieme un mito suggestivo da regalare a lei. Piuttosto che offrirle un profumato mazzo di fiori appena colti, le porgerò una fresca storia appena elaborata.
“Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada”, diceva qualcuno.
Anche se la mia macchina veloce è un’altra storia.

Motivazione
È intrigante la natura tormentata e ansiosa del personaggio, l’esigenza di una liberazione interiore che passa attraverso una serie di stati emotivi che trovano finalmente sfogo e beneficio nell’affrancare la sua mente dai pensieri e lasciare spazio e tempo per l’ascolto e la scrittura: ausilio necessario per un suo riequilibrio psicofisico.
Il racconto dal ritmo frenetico si figura come un affresco suggestivo, un omaggio sincero e dilatato alla lettura, un viaggio dentro una verità riflessiva e imperfetta che una quotidianità affollata di maschere si sforza di celare. Così il ritmo dei tasti si assembla su un flusso di riflessioni susseguitesi nell’arco di una corsa che oscilla tra senso figurato e una realtà fatta di pensieri e note, colonne sonore della nostra esigenza di storie.

Menzione speciale sezione Racconti

Alessio Bianco

Lo sguardo

La metà del tempo che passo con lui la impiego in duelli infiniti, combattendo per cercare di calmarlo, tentando di fargli capire che io sono lì solo per aiutare lui.
Non mi guarda mai negli occhi, quando gli parlo; tiene la testa bassa o rivolta altrove, e sembra odiare il suono della mia voce al punto da evitare di ascoltarmi, se può.
Domande semplici, piccoli accenni di dialogo, qualunque strategia io tenti per instaurare un rapporto fallisce regolarmente. Mi rifiuta, ed è chiaro che mi considera un nemico, un disturbatore della sua pace.
Stamattina ho deciso di affrontarlo, incoraggiato da un leggero cambiamento del suo sguardo che mi illudo di aver notato: mi è apparso come rasserenato, ma per motivi a me ignoti.
Ho preso il suo viso tra le mie mani, che sono grandi e sempre calde, e con un gesto il più rassicurante possibile l’ho rivolto verso di me: «Guardami quando ti parlo» gli ho detto con calma; «Sì, sì…», rispondeva lui mentre torceva il collo con forza per sfuggire alla mia presa; «Guardami Riccardo, non devi avere nessuna paura», ho continuato, e lui «Lo so, lo so…»
«Allora perché non mi guardi?», e stavolta mancò poco che non fossi io a dover distogliere lo sguardo dai suoi occhi, finalmente alti e rivolti verso di me, chiari e limpidi come non avrei mai creduto di vederne in vita mia, pungenti e malinconici come appartenenti a un uomo di esperienze indicibilmente negative, fieri e rassegnati; e con calma mi rispose:
«Perché mi sento osservato».
Poi mi sfuggì con rapidità felina rientrando in classe, fra i suoi compagni.
Non so dire ancora se in quel momento mi sentii rinascere o morire. Quella frase era forse una richiesta di aiuto o soltanto una manifestazione di fastidio per la mia ingombrante presenza, ma non mi importa: è lo sguardo che mi tormenta. Con lo sguardo non si può mentire, a quella età, è qualcosa di inequivocabile che mi fa sentire vittima di un incantesimo: è come se, adesso che ho iniziato a insegnare, fossi diventato alunno di me stesso, e ho la sensazione di aver io stesso acquisito lo sguardo di Riccardo, per vedere il mondo come lo vede lui.
Siamo diversi, io e Riccardo, ma abbiamo lo stesso sguardo smarrito di chi sente pioversi addosso parole dall’alto di una bocca adulta, senza capirle affatto. Parlano di futuro, della preparazione del nostro futuro che passa attraverso lo studio, paroloni rivolti a noi due che non abbiamo alcuna idea precisa di futuro. Chi parla ha dimenticato che per noi tutto è presente, e il presente equivale all’eternità, ogni evento ci sembra definitivo e irreversibile, specie se negativo, e ogni rimprovero o attenzione di troppo ci fa sentire osservati speciali, facendoci vergognare.
Io sono quel bambino al primo banco, vestito con un maglione di lana rossa, l’ha fatto mia nonna ed è il mio preferito; ascolto tutte le spiegazioni e prendo appunti, anche oggi ho svolto i compiti nel modo corretto, e ho preso ottimo. Il mio compagno di banco, invece, ha le tasche piene di vecchie macchinine scassate, non porta mai neanche il diario perché, dice, non glielo hanno comprato. Io devo sempre prestargli carta e penna perché possa scrivere qualcosa anche lui, ma i fogli restano bianchi e io me li riporto a casa. I professori ormai lo lasciano perdere, l’anno è quasi finito e la sua bocciatura è sicura.
È Riccardo, il mio compagno, quel bambino che abita non lontano da me, quel bambino che preferisce scorrazzare in bicicletta per interi pomeriggi anziché fare i compiti con me.
«Lascialo perdere», mi dice mia madre, «domani chiederò che non lo facciano più sedere al tuo fianco».
E l’indomani, come sempre, mia madre mi accompagna a scuola ma, stavolta, non si ferma al cancello del cortile per farmi scendere da solo dall’auto; trova un parcheggio e scende con me, arriva alla mia classe e parla brevemente con quella della prima ora.
Poco dopo il mio sguardo deve riabituarsi alla nuova prospettiva, sto vicino alla finestra adesso, e Riccardo, dall’altra parte, mi pianta addosso i suoi occhi chiari e delusi, si sente tradito, credo, vorrebbe esprimere il suo disagio ma non trova le parole; così tira fuori due Ferrarine rosse e guadagna un’altra nota sul registro.
Oggi l’ho raggiunto, quello che allora era il mio inimmaginabile futuro, e lo vivo tra gli stessi banchi di allora; siedo dietro la cattedra dalla quale venivo comandato, interrogato, sgridato, e finalmente sto imparando.
Solo adesso so di essermi veramente orientato verso me stesso, e devo ringraziare Riccardo che, per la prima volta, puntando verso di me i suoi occhi, ha aperto i miei.

Motivazione
Colpisce l’elemento “sguardo” attraverso il quale si sviluppano le dinamiche del racconto, in una sorta di dualismo con il quale i personaggi comunicano sentimenti che suscitano ritegno e paura o orgoglio e fierezza. Una radiografia dell’anima che fotografa la sensibilità del bimbo e dell’adulto, dell’adulto che si ritrova bimbo.
Lo scambio di posizione come inevitabile processo di maturazione si configura ne Lo sguardo come nucleo fondante e indagatore. Attraverso il dubbio, il protagonista passa in rassegna il bagaglio esperienziale di una vita, un costrutto epistemologico che pone alla base di sé stesso il confronto con l’altro come indispensabile combustibile per la crescita. Da davanti a dietro alla scrivania in una manciata di parole asservite al bisogno di mettersi costantemente in gioco.

Sezione poesia in italiano

1° Premio Poesia in italiano

Claretta Frau

Un mondo senza barriere

C’è un sentiero
che se non mi neghi posso
anch’io percorrere
senza sentirmi un peso.

Un sentiero agevole,
che mi guiderà in riva al mare
o per le vie del mondo
a me precluse.

Un sentiero che non sarà
spina di pesce in gola,
e donerà respiro e forma
al tuo e mio non più
visionario abbraccio.

La felicità
è poter giungere da soli
ad abbracciare il mare.

Motivazione
Accogliere la solitudine.
Gran parte delle persone è riluttante ad accettarla, quasi significasse separare la sensibilità dalla ragione.
L’autrice, invece, la sceglie liberamente e responsabilmente, e invero, quasi ineluttabilmente, negando all’abbandono il potere del dissolvimento.
Questo rende il suo percorso esistenziale credibile, i suoi versi autentici, nel disvelamento di un senso della vita, che si concede al tutto e al nulla, perché la solitudine scruta le storie, scoprendo in fondo ad esse persino la felicità.

Menzione speciale Poesia in italiano

Alessandra Nateri Sangiovanni
Le case disabitate

Di quel frullo d’ali nel cuore
han bisogno.

Del canto.
D’un sorriso.
Di un sogno.

O anche dell’eco di un dolore.

Farsi di paradiso culla
o di segreti uno scrigno.

Riempirsi di gioia con nulla.

Della vita dentro, soltanto
han bisogno.

E anche, ogni tanto,
sentirsi il centro del mondo.

Di musica semplice:
una risata, una canzone.

O – disabitate – cadono a pezzi.

Anche le case si lasciano andare.

Come le persone.

Motivazione

Abbiamo orrore della finitezza dell’esistenza, così ci aggrappiamo a tutto ciò che non muta, o muta lentamente. Cerchiamo un rifugio che ci protegga dalla tristezza quotidiana, che ci conceda/consenta l’oblio del dolore.
L’autrice si aggira tra case disabitate, con muri crepati e cuori trepidanti, corse tra le stanze e risa interrotte. In questi luoghi troviamo tutto: partenze, ritorni, abbandoni, ferite, cicatrici, gioie.
I versi sono semplici, limpidi e arcaici, e rimandano continuamene al connubio casa-uomo, specchio del tempo che passa e di quello che resta per sempre.

Menzione speciale Poesia in italiano

Andrea Loviselli

La sua dolce mano

La sua dolce mano,
scostando la clessidra
ci lascia qui.

A cadere abbracciati
come una lacrima
tra i nostri mondi…

Motivazione

Un gesto, un semplice gesto, può sospendere il tempo, proprio come le mani in questa poesia, che con gesto dolce, ma deciso, sospendono il tempo.
La clessidra richiama l’inesorabile scorrere del tempo, la sabbia che in essa scorre riporta in mente l’impermanenza e il mutamento incessante. Metafore che in questa poesia sono rovesciate e l’attimo in essa narrato è bloccato in una vibrante caduta senza tempo.
La sua dolce mano è poesia dal respiro profondo e dal ritmo rapido, evocativa quel tanto che basta per lasciare il lettore sospeso tra la terra e il cielo.
Nella parola dolcezza si evocano l’amarezza e il dolore per qualcuno o qualcosa che lascia attoniti. La morte (non solo fisica) lascia sempre senza fiato, come un colpo alla schiena.

Poesia in sardo

1° Premio poesia in sardo

Irene Carta

Sa bingia de Antiogu

1° Premio Poesia in sardo

Sa bingia de Antiogu
(La vigna di Antioco)

Sa bingia de Antiogu parit arricamada.
Onnia fundu, onnia giuali est beni assestau
de misura e distanzia arrespetosu
comenti arricamus de tialla antiga.
Custa bingixedda est una meravillia
Antiogu e Atongiu dda traballant impari.
Antiogu pudat e marrat
Atongiu spratzinat is coloris.
Su birdi, s’arrubiu, su colori ‘e oru
Ma su miraculu prus bellu
est s’axina.
Perlas pretziosas,
nieddas e de oru,
lucidas, perfetas,
apicadas de manus de un artista.
Sa bingia parit imoi
unu quadru de su Canaletto,
pintori famosu de paesagius incantaus.
Casi mi dispraxit a scuncordai
cussas operas de sa natura
Custa prima binnenna de sa vida mia
m’at incantau.
Su prexeri de cussu ispantu,
sa bella dì de soli,
sa bella armonia
e sa bella cumpangia,
m’ant prenniu su coru
de tranquillidadi e de paxi.
****
La vigna di Antioco sembra ricamata
Ogni fondo, ogni filare è ben disposto,
rispettoso per misura e distanza
come ricami di tovaglia antica.
Questa piccola vigna è una meraviglia
Antioco e Autunno la lavorano insieme
Antioco pota e zappa
Autunno sparge i colori.
Il verde, il rosso, il dorato
Ma il miracolo più bello
è l’uva.
Perle preziose,
nere e dorate,
lucide, perfette,
appese dalle mani di un artista.
La vigna sembra ora
un quadro del Canaletto,
famoso pittore di paesaggi incantevoli
Quasi mi dispiace scomporre
quelle opere della natura
Questa prima vendemmia della mia vita
mi ha incantato.
Il gusto di questa meraviglia,
la bella giornata di sole,
la bella armonia
e la bella compagnia
mi hanno riempito il cuore
di serenità e di pace.

Motivazione

L’elaborato è magistralmente giocato sul binomio Antiogu e Atóngiu, un’idea poetica che, oltre a rimandare al tema generale del rapporto Uomo-Natura, viene anche impiegato con arguzia per tessere un racconto in forma di versi. L’autrice, infatti, altro non fa che “tessere” il racconto di una vendemmia riproponendone colori e forme. La descrizione del lavoro in vigna è accostato all’immagine di un altro lavoro manuale: il ricamo.
E del ricamo, Sa bingia de Antiogu, così bella da vedere, richiama le geometrie e il garbo. La meraviglia di fronte al paesaggio umano rappresentato dai filari richiama alla mente le tele del Canaletto, grande pittore di paesaggi.

Menzione speciale Poesia in sardo

Sebastiano Mario Fiori

M’ispanto galu
(Mi stupisco ancora)

M’ispanto galu
chei sa primma orta,
sas manos meas
ch’istringhen sas tuas,
vint’annos impare,
son versos dilicados
de una durche poesia.
M’ispantu galu
chei sa primma orta,
cando su sera,
istracca
ma cuntenta,
ti che drommis gai,
chin su ris’in laras.
M’ispanto galu
chei sa primma orta,
ca prus de tando
commo ti cherzo,
pagas paraulas,
s’amore chena fine
in cussos ogros lezzo.

****
Mi stupisco ancora,
come la prima volta,
le mie mani
che stringono le tue,
vent’anni insieme,
sono versi delicati
di una dolce poesia.
Mi stupisco ancora,
come la prima volta,
quando la sera,
stanca
ma contenta,
ti addormenti così,
con il sorriso tra le labbra.
Mi stupisco ancora,
come la prima volta,
perché più di allora
adesso ti voglio,
poche parole,
l’amore senza fine
in quegli occhi leggo.

Motivazione
L’immagine di una vita insieme gioca con delicatezza sulla similitudine tra un’esistenza fatta di cose semplici e la poesia. L’autore, con ammirevole leggerezza, riesce a restituire in versi una vita quotidiana fatta di piccoli gesti: è la visione delle mani che dopo vent’anni non smettono di stringersi, quella del sorriso dell’amata e l’immagine dei suoi occhi ancora colmi di sentimento amoroso. Non meno importante è il ritmo del componimento poetico, interamente costruito sul ritorno del verso “M’ispanto galu/chei sa primma orta”. Infine, ma non per questo meno degna di nota, la lingua sarda, dallo stile particolarmente ricercato, merita un’annotazione positiva.

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