la paranza della bellezza
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È delle ultime ore la notizia dell’ennesima giornata di violenza a Napoli. L’ennesima vittima innocente e troppo giovane, ferita gravemente dalla rabbia e dalla violenza cieca che troppo spesso viviamo in questa città. Così si riapre il dibattito sulla sicurezza dei cittadini, un dibattito che non smette mai di essere di moda ma che non riesce allo stesso tempo a produrre risultati. Nessuno riesce a trovare il modo, la maniera di arginare il fenomeno della violenza cieca che imperversa nelle nostre strade.

…Napule je schiatto ccà,

Napule ’int’a ll’ anema,

Napule tumore,

Napule senz’ anema,

Napule r’ ammore…

(da Napucalisse di Mimmo Borrelli)

I cittadini però si mobilitano, gridano basta dalle piazze, qualcosa sembra muoversi. In realtà il problema è anche interno al mondo dell’informazione che viviamo che spesso privilegia le notizie di violenza e di orrore invece di dare risalto a quello che di buono e di positivo esiste e persiste.
Qualche mese fa è andato in onda sulla RAI in seconda serata il documentario “ la paranza della bellezza”, diretto dal giovane regista Luca Rosini, che ha raccontato con un occhio lucido e vero la realtà dei movimenti sociali e delle associazioni di quartiere che lavorano nel difficile contesto del quartiere sanità di Napoli.

Quello di Rosini è un documentario che apre gli occhi su una realtà in cambiamento, ma che è anche complessa e violenta. Nel suo lavoro il regista non chiude gli occhi di fronte alla violenza, le sparatorie, le cosiddette stese, il degrado, ma offre anche un’ altra strada, quella dell’associazionismo giovanile che da anni lavora nel quartiere, crea cooperative, fa comunità, li dove lo stato è troppo spesso assente e distante. E così avviene che attraverso il teatro, la musica, la cultura, e la riscoperta del patrimonio artistico si offra un opportunità diversa, un’altra strada rispetto a quella che è sempre così semplice da imboccare della criminalità e della malavita. Luca ha risposto gentilmente alle mie domande, anche se è difficile racchiudere in un intervista un percorso di un anno e mezzo, fatto di vita, di incontri e di un cammino in comune. Il documentario è disponibile alla visione su RAI play.

Luca Rosini

Tu non sei napoletano. Che rapporto hai con questa città e Come sei entrato in contatto con questo mondo che racconti?

Io non sono di napoli, ma sento l’influenza partenopea perché mia madre è irpina, ho sempre assorbito l’amore per la lingua e la cultura di questa terra, il mio rapporto nasce nel profondo,dalle mie radici. Negli anni sono stato a napoli molte volte per raccontare la città dal punto di vista giornalistico, ho raccontato la crisi dei rifiuti per anno zero. Non è la prima volta che parlo di questa città.

Quindi hai raccontato e vissuto il cambiamento che questa città ha vissuto e sta vivendo negli ultimi anni.

Esatto. Un cambiamento pazzesco, dall’immagine di una città ripiombata nell’incubo degli anni del colera, a quella di una città invasa da turisti, il cambiamento è evidente, anche se questo può avere anche un carattere negativo, perché la città può perdere di identità.

Quanto pesa la continua narrazione del male nella vita delle persone che cercano un riscatto?

Secondo me inizialmente poteva essere negativa perché schiacciava sempre contro uno stereotipo infinito, quella della Napoli della camorra, la napoli di gomorra insomma, ma io noto ultimamente che i ragazzi con cui ho parlato e con cui ho lavorato per il documentario, sono molto forti, loro sono convinti e credono che ce la faranno, vinceranno la guerra contro i mali della loro terra, e vinceranno fattivamente, anche facendo filtrare il loro messaggio positivo. I ragazzi della paranza sono bravissimi a comunicare, possiedono le chiavi della comunicazione contemporanea, questo si può vedere anche da internet, da quante persone seguono le loro storie, hanno anche pubblicato un libro sulle loro storie di cambiamento, hanno un potere comunicativo che è pari a quello di Saviano, purtroppo non hanno la stessa attenzione e ribalta mediatica

Questa mancanza di rilevanza mediatica da cosa dipende secondo te?

è legata a come funziona la comunicazione giornalistica in generale che privilegia le notizie negative. Facendo una riflessione antropologica, noi siamo esseri umani e i meccanismi della sopravvivenza dentro di noi ci portano a essere più interessati alle informazioni relative ai possibili pericoli che alle possibili opportunità. Dal pericolo l’homo sapiens sapiens deve fuggire senza rifletterci troppo e ha bisogno di sapere dove sono i possibili pericoli e i rischi, in più l’essere umano ha questa tendenza dentro di se che lo porta a imparare il modo di affrontare un pericolo in modo positivo e quindi ha anche dentro di se la capacità di imparare come cambiare il territorio. È un dato antropologico su cui si può lavorare, ed è quello che fanno i ragazzi della paranza

Quanto è importante raccontare la verità, cioè che non esiste solo una napoli negativa, ma che ci sono decine e decine di persone che lottano quotidianamente per migliorare la propria vita e quella degli altri?

Nel mio lavoro è stato fondamentale, però io non voglio raccontare il bene in sé per sé, io racconto il percorso del bene. Solo raccontando da dove si parte, riusciamo a capire quanto è importante lo sforzo dei ragazzi in quel territorio e riusciamo anche ad accrescere l’attenzione sul fenomeno e dare merito a questi ragazzi. Io racconto nel documentario attraverso i telegiornali i fatti di cronaca, a cui fanno da contraltare gli sforzi dei ragazzi, questo impegno si chiama resilienza, loro sono gli artefici di una resilienza sul territorio della sanità, loro sono quelli che nonostante i colpi che arrivano, i colpi di pistola, i morti e le difficoltà, la camorra, si rimboccano le maniche e il giorno dopo riprendono a ricostruire il ricostruibile, con una determinazione e una visione straordinaria. È importante sottolineare questo perché la loro determinazione e la loro visione è da esempio non soltanto per altri ragazzi di Napoli ma è da esempio per tutta l’italia e per tutto il mondo. In un momento in cui sembra che non ci siano più visioni per il futuro e non ci siano alternative economiche e che tutto sia ormai determinato dal declino, dalla mancanza di lavoro e dalla mancanza di speranza loro invece ti dicono “no non è così, siamo noi che dobbiamo in primis batterci ,e impegnarci per costruire il nostro stesso futuro, non possiamo aspettare che ci piovano dall’alto, l ‘aiuto , l’assistenza, i soldi, noi dobbiamo essere i primi a creare le nostre opportunità”. Quello che fanno è questo.

Oltre all’assenza totale dello stato, quali sono le difficoltà maggiori che incontrano le persone che decidono di attivarsi nel sociale in un quartiere difficile come quello della sanità

La difficoltà più grande è quella di salvare i ragazzi della strada, prima che la loro mente e il loro destino sia segnato dal carcere e dalla malavita. Quindi la loro più grande sfida è quella, ed è anche la loro più grande difficoltà. Intercettare non soltanto i bravi e i buoni o quelli che hanno già un ambizione al cambiamento ma intercettare quelli che ne sono esclusi, i ragazzini che abbandonano la scuola, le famiglie distrutte e devastate, con i genitori in carcere. Avvicinare, fare comunità con questo mondo è la loro sfida più grande, anche perché questo mondo spesso si rifiuta, e non per questioni ideologiche, si rifiuta perché è sempre stato educato ad altro,a volte sembra che non parlino la stessa lingua, ma non è così, perché quando invece riesci a intercettare quei bambini che vengono da famiglie devastate e inizi il lavoro su di loro, dai loro una chance, li metti davanti all’opportunità di scegliere. La loro sfida è quella di fare comunità con degli individui a grande rischio, e che vivono un profondo disagio sociale

Il tuo lavoro è durato più di un anno. Cosa ti resterà di questo percorso?

Mi resterà l’amore di queste persone, la loro accoglienza, la loro fiducia che è enorme. Il nostro rapporto continua, io mi sento ormai parte di una comunità, loro stessi mi hanno accolto, remiamo tutti dalla stessa parte, loro lavorano sul territorio, io cerco di dare visibilità e risalto alla loro storia il più possibile. Il mio percorso, il mio desiderio, la mia ambizione, è parallela alla loro, io desidero il cambiamento di questo paese, attraverso il lavoro sui territori più difficili come quello della sanità. Loro desiderano il cambiamento del loro quartiere,e attraverso quello il cambiamento del paese, siamo dalla stessa parte.

1 thought on “Napoli e la resilienza. La sfida della “paranza della bellezza” nel quartiere sanità

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