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L’interpretazione è un equilibrio sottile tra libertà e fedeltà. E tanta cultura

Con Liszt, è noto, il pianoforte si trasforma in un’orchestra. Ma se i pianoforti sono due, il prodigio armonico è assicurato. Tale è l’effetto mirabolante prodotto dall’interpretazione della trascrizione per due pianoforti per mano di Franz Liszt della Nona Sinfonia di Beethoven da parte del duo pianistico formato da Michele Campanella e Monica Leone, compagni nell’arte e nella vita. Un sottile equilibro tra fedeltà al testo musicale e libertà individuale, permeato da una profonda cultura musicale: questa la concezione dell’interpretazione di Michele Campanella, uno dei più grandi pianisti italiani, anche se il Maestro, in un’“insolita autobiografia”, al termine “pianista” preferisce quello di “musicista”, perché “con il primo si pensa alle mani, con il secondo al cuore e al cervello”. Incontro Michele Campanella prima del concerto tenutosi il 24 marzo al Teatro Comunale di Sassari per l’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” per parlare del suo ultimo libro “Interpretazione. Ovvero il possibile breviario del musicista al pianoforte”, pubblicato per Castelvecchi nel 2022. Il testo rappresenta una summa della concezione interpretativa del pianista napoletano, messa in pratica in un’attività concertistica intensa e incessante lungo tutto l’arco della sua vita.

Per vedere la videointervista completa, clicca il link: https://www.youtube.com/watch?v=PZz5uFP3VtU

Partiamo dal titolo del libro. “Interpretazione” è un termine contrassegnato, come lei scrive, da un’ampiezza e vaghezza concettuali pressoché inesauribili. E allora perché questo titolo?

“Il problema è proprio questo: quando si parla di interpretazione si sta nel vago. Io ho cercato di spiegare che ci sono dei parametri nei quali si muove l’interpretazione, e altri nei quali non si dovrebbe muovere. Ho cercato quindi di definire che cos’è secondo me l’interpretazione”.

Nella nostra epoca prevale la prassi esecutiva filologica, il più possibile fedele al testo dell’autore. Perché considera la filologia un esercizio affascinante ma sterile?

“Sterile perché c’è qualche musicista che pensa che essere filologico risolva tutti i problemi. Non è così. Bisogna essere interpreti con una base di filologia. Non si può però rinunciare all’interpretazione perché bisogna essere filologici. Ho l’impressione che per qualcuno rappresenti un’alternativa. Per me sicuramente non lo è”.

Concerto di Michele Campanella e Monica Leone al Teatro Comunale di Sassari

D’altra parte lei critica chi considera l’interpretazione una “capricciosa licenza”. Da quali principi è segnato il confine tra libertà e fedeltà al testo?

“Il testo musicale è costituito dalle note, dall’andamento e dai colori (forte, piano ecc.). Ma che significa Allegro, Adagio, Forte o Piano)? Per ciascuno queste indicazioni rappresentano qualcosa di diverso: ed ecco la libertà dell’interprete. L’autore non poteva fare altro che scrivere delle indicazioni generiche. Sta a noi realizzare queste tracce nella pienezza dei loro significati”.

Perché considera il pianoforte lo strumento che più soffre della libertà priva di approfondimento, di ricerca e di giudizio?

“I pianisti sono tra i peggiori musicisti in circolazione. Nascono sono e vivono soli. Sono solisti nella peggiore accezione del termine. Il solista si chiude in se stesso ed è convinto di essere il centro dell’universo. Viceversa, qualsiasi altro strumentista deve avere a che fare con gli altri, altrimenti non suonerebbe. Invece noi pianisti possiamo, e abbiamo a disposizione uno straordinario repertorio solistico. Ed ecco che si crea una strana situazione nella quale crediamo di poter fare qualunque cosa, perché nessuno ci riconduce alla realtà”.

Quest’epoca è caratterizzata da un pullulare di musicisti che vantano una tecnica poderosa. Ma ciò non significa che siano grandi interpreti

“Esatto. Significa che suonano tutte le note o quasi, e non ne sbagliano una. Ma se avessimo bisogno della precisione, basterebbe rivolgersi a un computer. Se i nostri bisogni sono invece il calore, l’amore e le emozioni che ci sono nella musica, il computer non può darceli. Più assomigliamo al computer, cosa che si sta verificando nell’ultimo periodo, e  più ricorriamo al computer stesso e meno ai pianisti. Non possiamo continuare ad andare in questa direzione: significherebbe rinunciare ad emozionarci, a commuoverci e a scoprire il mondo che c’è nella musica”.

Quali doti deve possedere allora un interprete?

“Bisogna essere fedeli al testo musicale, perché il testo è la base dalla quale non si può prescindere. In secondo luogo, bisogna prendersi la responsabilità della libertà interpretativa, che deve essere basata sulla cultura. Se non si sa chi fosse Beethoven come uomo e non si conosce l’epoca in cui si muoveva, quali fossero i suoi ideali, le sue letture, non si può eseguire al meglio la sua musica. Queste conoscenze ci aiutano a definire un’immagine di Beethoven e della sua personalità che si riflette nelle decisioni dell’interprete del testo beethoveniano”.

Un esempio?

“Il forte, o il crescendo, o l’accelerando di Beethoven sono diversi da quelli di Schubert, perché a monte c’è una personalità diversa”.

Un compositore per lei fra i più indecifrabili e difficilmente interpretabili?

“Tantissimi. In generale, più andiamo indietro nel tempo e più è difficile capire, perché ci si allontana dall’epoca nella quale è stata composta la musica. Poi ci sono delle personalità particolarmente complesse fra le quali c’è Brahms: un uomo, prima ancora che un compositore, difficile da capire. Anche Chopin è un autore difficile da interpretare, per via di quella sua strana personalità, che non è tutta anima e core, come potrebbe sembrare”.

Nel tempo è cambiato il gusto interpretativo. Lei, a proposito di quest’epoca, parla di kitsch. A Cosa si riferisce?

“Mi riferisco in particolare agli interpreti americani e cinesi, anche se ormai l’ondata americana si è esaurita, mentre imperversa quella orientale. Gli orientali hanno una meravigliosa cultura, ma non è la nostra. Quando eseguono la nostra musica occidentale, forse non riescono a cogliere tutte le vibrazioni che ci sono nella nostra musica – come accade a noi nei confronti della loro – e tendono ad avere un approccio imitativo, riferendosi alle interpretazioni di altri pianisti, senza avere una cognizione approfondita della cultura che ha prodotto certe musiche. Questo crea una sorta di cortocircuito e, per favore, non si tratta certo di razzismo musicale!”.

Al kitsch si contrappone lo stile. Cos’è per lei lo stile nella musica?

“Lo stile è il risultato di una serie di informazioni e di formazione. Lo stile è cercare di intuire, immaginare, ipotizzare che cosa potesse essere il linguaggio di un’epoca. Inoltre, per eseguire bene per esempio una Sonata di Beethoven, è opportuno conoscere tutta l’altra produzione, anche non pianistica, dello stesso compositore, come le Sinfonie, per esempio. Bisogna quindi leggere, informarsi, ascoltare fino a farsi un’idea dello stile del compositore. Tuttavia non sarà mai la verità, ma sempre un compromesso tra la nostra personalità e quella dell’autore”.

Esiste la Bellezza Assoluta definita da leggi immanenti della Musica?

“Direi di no. Ogni epoca e ogni cultura ha la sua concezione della bellezza. La bellezza dei volti delle Madonne di Raffaello è molto diversa dall’espressione di Rembrandt, o da quella delle Madonne del nord Europa. Questo vale anche per la musica”.

Il cardinal Ravasi riporta, nella prefazione al suo libro, un motto dello storico e letterato romano Cassiodoro: “Se continuerete a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza musica”. In quest’epoca pervasa dalle ingiustizie e dalle guerre, si ricerca ancora la Bellezza?

“Privarsi della musica non sarebbe esattamente una sciocchezza. Il mondo privato della musica, come dei fiori, del mare o della primavera, sarebbe un inferno. La musica non è un passatempo: è un nutrimento dell’anima. Dovremmo averne cura con l’amore e con l’attenzione che merita un patrimonio di cui non possiamo fare a meno, perché la nostra vita sarebbe triste e misera, senza”.

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