Roberta Villa
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Gli italiani come si sono informati su scienza e COVID-19? Cosa hanno letto e cercato? Lo rivelerà un’indagine dell’Osservatorio News-Italia presentata, per la prima volta, all’ottava edizione del Festival del Giornalismo Culturale di Urbino, che si terrà dal 9 all’11 ottobre 2020.



Il Festival, promosso dall’Istituto per la Formazione al Giornalismo e Università “Carlo Bo” di Urbino, riunirà numerosi esperti del mondo della scienza e della cultura. Tra gli ospiti la nota giornalista Roberta Villa, laureata in Medicina e ricercatrice nell’ambito della comunicazione della scienza, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Molto attiva nella divulgazione scientifica sui media tradizionali e digitali, la dr.ssa Villa parteciperà al dibattito sulla nuova ricerca dell’Osservatorio News-Italia, che dal 2010 monitora e descrive l’utilizzo dei mass media. Tra i diversi aspetti presi in esame, i nuovi dati racconteranno quali informazioni gli italiani hanno cercato e come hanno percepito l’informazione sull’emergenza sanitaria.

A prescindere dai tempi, la comunicazione scientifica dei media non è sempre all’altezza delle circostanze. Con l’emergenza Coronavirus la disinformazione raggiunge un livello tale da richiedere l’intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il decreto del 4 aprile 2020, infatti, istituisce l’Unità di Monitoraggio per contrastare la diffusione di fake news relative alla malattia COVID-19, sul web e in particolare sui social network. Per svolgere la propria attività, l’Unità si avvale della consulenza di otto esperti, tra cui la giornalista Roberta Villa.

Nella nostra intervista chiediamo alla divulgatrice  un approfondimento sul primo documento dei lavori realizzato dall’Unità. Il documento descrive le azioni che, secondo gli esperti, contribuiscono a tutelare il diritto all’informazione del cittadino, nonché il rapporto tra le istituzioni sanitarie e la collettività. Cogliamo l’occasione, inoltre, per condividere con la giornalista Villa, le riflessioni sul mondo del giornalismo e sul ruolo dei divulgatori.

Dr.ssa Villa, iniziamo la nostra chiacchierata con una considerazione sull’informazione scientifica, suggerita dagli stessi promotori del Festival. Ossia, il giornalismo scientifico non deve rinunciare alla tempestività, ma nel farlo, deve tener conto delle ripercussioni della notizia scientifica sulla società. Al divulgatore si chiede di avere una visione panoramica. Per certi versi, la riflessione invita a non esasperare il confine tra giornalismo culturale e scientifico. Qual è la sua idea al riguardo?

La mia idea è che non ci dovrebbe essere un confine tra giornalismo culturale e scientifico, in quanto la scienza, come ricerca della conoscenza, è a tutti gli effetti una forma di cultura, tanto quanto l’arte o la letteratura. Occorre però essere consapevoli delle specifiche competenze: io non sarei in grado di scrivere un pezzo di critica letteraria o un’analisi filosofica, i colleghi dovrebbero allo stesso modo riconoscere gli stessi limiti, quando trattano di temi scientifici.

In attesa di conoscere i risultati delle nuove ricerche, condotte dall’Osservatorio News-Italia, commentiamo alcuni dati disponibili. Un’indagine del 2017 rileva diffusa sfiducia verso i media tradizionali nel fornire un’informazione accurata, completa ed equilibrata. I giornalisti di carta stampata, radio e tv, non sono al primo posto tra le fonti di informazioni. Qui troviamo blog e motori di ricerca (62%). Nel 2018 l’Osservatorio pubblica un nuovo lavoro, da cui emerge che 3 rispondenti su 4 utilizzano la rete per informarsi, anche attraverso i social media. 

A suo avviso cosa suggeriscono questi dati?

I dati confermano una crescente sfiducia verso i mezzi di comunicazione tradizionali, che a mio parere è molto fondata. Anche nel corso della recente crisi, purtroppo, quotidiani e canali televisivi hanno spesso fatto da cassa di risonanza a bufale senza fondamento, o nella migliore delle ipotesi, a un’informazione emotiva e confusa. I social media consentono sì la diffusione rapida e pervasiva di disinformazione, ma anche l’accesso a giornalisti e divulgatori scientifici competenti, che hanno meno spazio nei media mainstream. Essi portano avanti una comunicazione scientifica di qualità e con cui si crea un processo di fidelizzazione.

Considerato lo scenario che ci ha descritto, cosa suggerisce ai professionisti dell’informazione?

Credo che i professionisti dell’informazione dovrebbero riflettere seriamente su questi fenomeni, sul pregiudizio che la disinformazione sia solo o prevalentemente in rete. A mio parere, inseguire il favore del pubblico, sacrificando la qualità, alla fine si sta rivoltando contro i media tradizionali.

Il web e i social network sono al centro dei lavori dell’Unità di Monitoraggio, la quale si avvale anche della sua consulenza. Ci illustra cosa contiene il primo documento che avete elaborato?

Il documento ha sottolineato, come annunciato fin dall’inizio, l’idea che andrebbe evitata qualsiasi attività di censura dei contenuti online, al di là dei reati già previsti dalla legge. Occorre invece individuare i processi e le modalità più adeguate per veicolare efficacemente i contenuti istituzionali. Inoltre, è necessario fornire ai cittadini i criteri di discernimento e gli strumenti necessari per documentarsi liberamente e in maniera corretta, sensibilizzandoli sui rischi e sui meccanismi alla base della disinformazione, nonché sull’importanza di fare riferimento a fonti istituzionali accreditate. Particolare attenzione dovrà essere posta ad accrescere la consapevolezza dei cittadini sui processi mentali che facilitano, in ognuno di essi, l’adesione a un certo tipo di notizie rispetto ad altre.

Tra le azioni proposte nel documento, quale ritiene sia da realizzare con urgenza? 

La mia proposta, a cui tengo molto, era quella di creare campagne televisive di comunicazione istituzionale centrate, non tanto sui contenuti della disinformazione, ma sui bias cognitivi [n.d.r: errori di ragionamento e di valutazione] che portano tutti noi a crederci, in un caso o nell’altro. In questo modo, non si farebbe chiarezza su un singolo argomento, ma si potrebbero aiutare le persone a riconoscere le proprie debolezze di giudizio, a riconoscere le trappole della disinformazione, alzando l’asticella del senso critico, in qualche modo “vaccinando” il pubblico contro le fake news.

Quindi, le strategie già individuate, per contrastare la disinformazione, possono essere utili anche fuori dal contesto della pandemia?

 Anche se il mandato ufficiale riguarda la malattia COVID-19, questo approccio alla disinformazione, come dicevo sopra, consente di studiare e intervenire sui meccanismi di base, che riguardano non solo la diffusione di bufale scientifiche, ma in ogni campo.

Lei è presente sui social media, con pochi altri professionisti, per fornire una comunicazione scientifica accessibile ai differenti pubblici. Gli utenti della rete sottolineano, spesso, l’utilità della sua attività, soprattutto in quest’ultimo periodo. Ciò fa emergere le forti criticità nella comunicazione istituzionale, in un momento in cui c’è bisogno di fiducia verso il mondo della politica e la comunità scientifica. Lei come ritiene si possa intervenire su questa criticità?

Credo che, come si dà spazio ai giornalisti sportivi durante le olimpiadi e ai giornalisti economici per parlare di spread, bisognerebbe riservare uno spazio a chi ha competenza specifica di comunicazione della scienza, nei mezzi di informazione, non solo nelle vesti di intervistati, ma per gestire uno spazio, anche piccolo, ma dedicato. Se nel mondo dell’informazione, sono le competenze scientifiche che mancano, a livello istituzionale sono trascurate quelle della comunicazione. Credo che invece le due cose debbano andare di pari passo.

Per salutarci, le chiedo un commento sulla seguente definizione di giornalismo, attribuita allo scrittore e giornalista Tiziano Terzani:

E’ un mestiere, ma non come tanti. Non è una cosa che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio; è un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce col diventare servizio pubblico: è missione”.

Mi fa sempre un po’ paura attribuire a una professione il ruolo di “missione”; perché a questo, che sembra gratificante, segue spesso la pretesa di esercitarla senza un adeguato compenso, senza garanzie, senza tutele. E’ ciò che abbiamo visto con gli operatori sanitari, in un primo momento chiamati eroi, poi attaccati perché non facevano abbastanza o rivendicavano diritti. Se è una missione, non lo puoi fare. Lo stesso accade a noi sui social. Per ora lavoriamo gratis, ma sarebbe opportuno che si trovasse un business model, per consentire ai divulgatori di dedicare più tempo e più impegno a questa attività, riconoscendo che è giusto che la qualità sia in qualche modo pagata.

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