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Un calendario caleidoscopico quello proposto al pubblico nell’ottava edizione del Donizetti Opera, il festival internazionale dedicato al compositore bergamasco, tenutosi nella “Città di Gaetano Donizetti” dal 18 novembre al 4 dicembre. La manifestazione, organizzata dalla Fondazione Teatro Donizetti presieduta da Giorgio Berta con la direzione generale di Massimo Boffelli, la direzione artistica di Francesco Micheli e quella musicale di Riccardo Frizza, già premiata come “Best Festival” agli “Oper! Awards 2019” di Berlino e fresca della conquista della quarta nomination all’International Opera Award, si è conclusa col bilancio record di 12mila presenze in sala, con un considerevole afflusso del pubblico straniero. Un successo che ne conferma l’appeal internazionale e la qualità della proposta artistica. Il cartellone, in cui convive anche quest’anno la riscoperta di opere dimenticate con la riproposizione di quelle note in un’ottica di rigore filologico, era articolato nei tre titoli operistici donizettiani La Favorite, con la direzione di Riccardo Frizza e la regia di Valentina Carrasco, in co-produzione con l’Opéra di Bordeaux, l’opera buffa l’Aio nell’imbarazzo, diretta da Vincenzo Milletari con la regia di Francesco Micheli – entrambi in scena al Teatro Donizetti – e Chiara e Serafina, opera semiseria rappresentata al Teatro Sociale della Città Alta, che ha visto al podio Sesto Quatrini e alla regia Gianluca Falaschi, in collaborazione con l’Accademia Teatro alla Scala.

Molteplici gli appuntamenti e le attività collaterali, proposte in spazi extra-teatrali, al fine di coinvolgere la cittadinanza, come i pre-opera nel Sentierone, uno dei più noti viali bergamaschi, il Dies Natalis, una vera e propria festa di compleanno nel giorno del 225° anniversario di nascita del compositore, il 29 novembre, la maratona musicale del Christmas Day e ancora conferenze, prove aperte, presentazioni e talk dedicati, oltre ai format originali di OperaTube.

Grande attenzione, infine, ai giovani, con il progetto Donizetti Education pensato per le scuole cittadine, i laboratori di Opera Wow dedicati agli adolescenti e alle loro complessità emotive, e la rassegna DO Opera Family con spettacoli per i bambini e le loro famiglie, in un’ottica di confronto generazionale. Coinvolti anche gli studenti del progetto Erasmus tramite l’associazione ESN dell’Università di Bergamo, gli studenti delll’Università di Milano Bicocca, gli allievi della Guardia di Finanza di Bergamo e i giovani del distretto Rotaract 2042 Lombardia Nord. Un modo per instillare negli under 30 la passione per l’opera.

Il rapporto tra giovani adulti si declina, oltre che nelle produzioni, anche nei cast dove, accanto a star internazionali come Javier Camarena, Alessandro Corbelli, Alex Esposito, Pietro Spagnoli e Annalisa Stroppa, hanno avuto spazio le voci emergenti della Bottega Donizetti e dell’Accademia Teatro alla Scala.

Tra i capolavori donizettiani, degna di nota la rappresentazione de La favorite, grand-opéra che trionfò a Parigi nel 1840, spesso sfigurato da tagli, imprecisioni e approssimative traduzioni, proposto al Teatro Donizetti nell’originale francese e in versione integrale, con la bacchetta del direttore musicale del Festival, Riccardo Frizza, e con protagonisti Javier Camarena e Annalisa Stroppa. Discutiamo dell’originale e innovativa messinscena con la regista di origini argentine Valentina Carrasco.  

Dal suo punto di vista, quali le differenze tra l’edizione francese de La Favorite e quella italiana?

“Le due versioni implicano un approccio differente a partire dal canto, prevedendo fraseggi e inflessioni diverse. La versione italiana viene a perdere molto dell’originale francese, e il Festival, che ha sempre avuto un approccio filologico alle opere, ha scelto l’originale francese anche per la sua integralità. Questa comprende un balletto, che era un momento essenziale del grand-opéra, inserito nel mezzo dell’opera, a volte nel secondo, a volte nel terzo atto, ideato appositamente per il corpo di ballo dell’Opéra di Parigi, che nell’Ottocento era l’unico teatro ad avere un balletto stabile. Qualsiasi compositore ricevesse la commissione di un’opera da questo teatro, doveva inevitabilmente inserire un balletto. Così è accaduto a Donizetti. Nel proporre l’opera in Italia o in altri Paesi, i balletti tendenzialmente venivano eliminati. Nel caso de La Favorite, di solito il balletto si taglia oppure viene proposto in una piccola suite. Nel festival donizettiano si è scelto di proporre la versione integrale”.

Una processione in apertura e delle grate sceniche a separare l’al di qua dall’al di là. Perché ha scelto di enfatizzare la connotazione religiosa dell’opera?

“Ho immaginato la Favorita come una figura sacrificale che, come tale, richiama la Madonna. Il culto della Vergine è molto presente soprattutto nei Paesi del sud dell’Europa come l’Italia e la Spagna, ed esiste anche un culto sacrificale matriarcale piuttosto marcato, oltre a quello di Gesù Cristo. Se la Vergine è vista come donna sofferente, destinata ad affrontare una maternità lacerante e a piangere per tutta la vita le sorti di suo figlio, la Favorita, secondo questo parallelismo, è anch’essa una donna dilaniata e inespressa, come un fiore che non riesce mai ad aprirsi. Viene strappata dalla casa paterna dal re, con la promessa di un matrimonio che non avrà mai luogo, e quando ha finalmente la possibilità di sposarsi, il suo futuro marito la disprezza perché è amante del re Alphonse XI. Una donna, in qualche maniera, condannata dalla società al sacrificio, esattamente come la Madonna”.

Le sue scelte registiche sono legate al territorio bergamasco…

“Desideravo lavorare al balletto con persone del luogo, e ho deciso di rivolgermi a delle donne over sessanta, settanta e persino ultraottantenni. Si tratta di trenta donne bergamasche non professioniste reclutate nei CTE-Centri per Tutte le Età, in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali di Bergamo. Nello spettacolo queste donne salgono su impalcature che stanno a quattro metri d’altezza, cosa che ha dato le vertigini persino a me, quanto vi sono salita per spiegare loro la scena. Si tratta di donne che la vita ha reso forti e temprate, dotate di un’energia e una prestanza fisica sorprendenti”.

Perché questa scelta?

“Riflettevo sul concetto di “favorita”. Perché l’opera si intitola “La Favorita” e non Léonor de Guzman, essendo un personaggio storico di pari dignità rispetto ad Anna Bolena, Lucia di Lammermoor, Lucrezia Borgia e le altre grandi protagoniste donizettiane? Con questa scelta, Donizetti sembra voler porre l’accento su questo ruolo, che è una sorta di trappola che non lascia scampo alla protagonista, che muore prematuramente, stremata nel corpo e nello spirito. Mi sono chiesta: cosa sarebbe successo se Léonor non fosse morta? Così ho pensato a un quadro in cui le ex favorite, le non prescelte che vivono per definizione una condizione precaria, indipendente dalla loro volontà, albergano in una sorta di limbo in cui si vive nell’attesa di qualcosa, per esempio l’amore o il matrimonio, che non arriverà mai. È l’ideale stesso dell’amore romantico, che ancora oggi rimane annidato nello spirito di alcune donne, che nelle loro scelte sono dipendenti da fattori esterni o dal volere degli uomini”.

Aleggia nell’opera una sensualità decadente e nostalgica. Che tipo di figura femminile ne emerge?

“Nell’opera di Donizetti viene rappresentata la donna in tutto il suo ventaglio di possibilità espressive. Da queste donne di una certa età che appaiono in scena col tutù e un fiore nei capelli, come ballerine di Degas, emerge una bellezza femminile che non siamo abituati a guardare. La terza età viene esclusa dalla nostra rappresentazione sociale. Una delle ragioni principali per cui ho voluto metterla in scena è stata proprio quella di rende visibile ciò che di solito è nascosto. Gli anziani sono invisibili ai nostri occhi, e raramente vengono rappresentati nell’arte. Sono esclusi sociali. Essere su un palcoscenico non è il loro spazio naturale: questo produce una sensazione di straniamento, ma è pura bellezza, una bellezza che non siamo abituati a vedere e a mettere in risalto”.

Qual è il valore aggiunto?

“La percezione di una freschezza e un candore naïf ma, allo stesso tempo, un potenziale di maturità e di consapevolezza emotiva che non si avrebbe in un’altra età. Un tesoro che dovrebbe essere quotato in borsa, ma che normalmente viene sprecato. Il futuro non sono i giovani, sono gli anziani, perché ci restituiscono un’immagine di ciò che potremmo essere. Abbiamo un’assurda abitudine di infantilizzarli, o di proteggerli come se fossero per forza fragili, eppure hanno un’esperienza tale che sanno molto meglio di noi come agire in ogni circostanza”.

Come si è trovata col resto del cast?

“Il cast è entusiasmante. A parte il tenore Javier Camarena, dal talento vigoroso e giovanile, che in scena, pur giovane, dimostra la metà dei suoi anni, e il basso, Evgeny Stavinsky, di eccezionale presenza scenica, e tutti gli altri bravissimi cantanti, menziono in particolare la soprano Annalisa Stroppa, che deve sostenere un ruolo molto complesso e ricco di sfumature. Siamo entrate in grande empatia ed è entrata completamente nella visione dell’opera che intendevo offrire”.

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