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Quei cristalli di sale abbagliano sotto il sole di mezza mattina. Percorriamo la strada che conduce al caseggiato delle saline Conti Vecchi. A dare il benvenuto un maestoso eucalyptus, intorno un prato di minuscole margherite bianche e un’isola di quel che resta dei fasti delle palazzine che un tempo ospitavano la famiglia Conti Vecchi, i suoi discendenti e gli esperti che curavano i lavori in salina.

“Attraversavo quella strada tutte le mattine, costeggiavo gli argini delle saline per recarmi a lavoro”, ricorda Vincenzo Sarritzu, classe 1938, ex direttore della Manutenzione dell’Enichem (ex Rumianca). Passando per via Roma s’intravedevano già i cumuli del sale e qualche fenicottero. “Arrivavo lì tra le sette e mezza e le otto, poi prendevo la strada per Macchiareddu”. La carreggiata fiancheggiava le saline e gli agrumeti. “Per il caffè si andava da loro, nel bar del villaggio. Era gestito da una coppia”. Un fabbricato di legno, poi ricostruito con mattoni di terra cruda, in ladiri. Le montagne di sale nei periodi estivi venivano raccolte dai salinieri, mentre in quelli invernali si accumulavano nelle vasche intorno agli argini.

“Nel villaggio in cui sono nato e ho lavorato c’era un’intensa vita sociale”. Giorgio Lecca, classe 1934, ex direttore della manutenzione delle saline di Macchiareddu, è l’ultimo dei nati nella comunità del sale. “I Conti Vecchi avevano fatto costruire tre campi da tennis, un dopolavoro dove trascorrere il tempo libero, e un campo di bocce”.

I Conti Vecchi: Luigi Conti Vecchi, generale di divisione del Genio militare, ex direttore della Compagnia reale delle Ferrovie sarde, ebbe un’idea che cambiò le sorti della città: progettò la costruzione della salina nella laguna di Santa Gilla, infestata dall’ anofele, causa della malaria. L’11 marzo del 1919 illustrò il suo piano ai notabili riuniti nella sede municipale, – siamo sotto la monarchia di Vittorio Emanuele terzo- , sottolineando che: “oltre al miglioramento igienico, la bonifica dello stagno di Santa Gilla deve proporsi il mantenimento e il miglioramento della pesca dalla quale la popolazione trae largo alimento e la creazione di industrie che diano lavoro alla classe operaia e sviluppo al commercio” (tratto da Il percorso del sale, ing. Luigi Conti Vecchi SPA, Diapress srl). L’idea avanzata dai concorrenti di prosciugare lo stagno per ricavare terreni, secondo il generale, non avrebbe risanato la laguna e oltretutto avrebbe fatto cattiva agricoltura. “In Sardegna troppi terreni aspettano capitali che diano impulso alla cultura intensiva, ma l’esperienza di tutti i paesi ci insegna che esso non viene che dalla ricchezza accumulata nelle industrie e nei commerci”. Il progetto della salina avrebbe consentito di raggiungere tre obiettivi: sicurezza, produttività, e occupazione. Riuscì a convincere la Commissione centrale bonifiche e nel 1920 arrivò il primo parere favorevole, un anno più tardi, il 29 luglio 1921, ottenne la concessione per la bonifica e lo sfruttamento industriale della laguna di Santa Gilla, per un periodo di novant’anni a partire dal giorno dell’estrazione del primo sale. Luigi Conti Vecchi aveva settant’anni.

Situate all’interno di una delle più importanti aree umide d’Europa, le saline si estendevano su una superficie complessiva di circa 2700 ettari tra i comuni di Assemini, Capoterra e Cagliari, in una zona che alla fine degli anni Venti era infestata dalla malaria.

Il progetto del generale che prevedeva di dare lavoro a 1500 persone e di sanare lo stagno di Santa Gilla, fu dunque accolto. Nel 1921 firmano il contratto e iniziano i lavori. Lo stagno fu liberato dalle zanzare malariche, e la salina diede lavoro, come previsto, a circa duemila operai che lavoravano direttamente lì, e a tutte le imprese che avevano a che fare con la raccolta del sale. Divenne un vero e proprio volano per lo sviluppo economico e l’occupazione. Nel 1927 ci fu la prima raccolta, settemila tonnellate circa. Anche se, sei mesi prima, il generale morì. Ma Guido, uno dei suoi figli, portò avanti il progetto. Non solo: fece costruire un villaggio per tutti coloro che lavoravano nell’azienda. Ecco dunque sorgere le palazzine padronali, e quelle per gli impiegati e i dipendenti specializzati, di cui oggi si possono osservare i ruderi con i mattoni in ladiri (fango e paglia). Pian piano prende vita il villaggio, denominato Macchiareddu, dove insieme alle abitazioni padronali, furono costruite le case per gli operai, e tutta una serie di servizi socio- ricreativi che ancora oggi destano ammirazione per lungimiranza e organizzazione sociale.

Sembra quasi di scorgerle le cinque file di case operaie, di quattro abitazioni ciascuna, circondate da un giardino su cui si coltivavano ortaggi, agrumi, e allevavano polli, galline e maiali.

Tra le figure professionali specializzate nelle attività della salina vi era l’elettricista, l’idraulico, il motorista, e l’autista del pullman. “La salina era grande, e impegnativa. Era dunque necessario assicurarsi la presenza di esperti che potessero intervenire subito”.

Ai tempi di Lecca, l’ultimo degli abitanti del villaggio, era la famiglia Galimberti a possedere il maggior numero di azioni. Fu Silvio Galimberti a proporgli di occuparsi della manutenzione della salina, in qualità di Direttore. “Conosco tutto di lei, gli studi che ha fatto e poi lei è nato qui”, gli disse. In effetti aveva tutte le carte in regola: un diploma da perito tecnico industriale con specializzazione in meccanica, e la vita nella comunità del sale. Ma dovette insistere un po’ perché. “Mi aspettavano in miniera, avevo dato la parola”. Dopo aver compiuto il servizio militare- era stato istruttore di reclute- aveva ripreso il suo lavoro come responsabile capoturno nelle miniere di San Leone, a Capoterra, dove si estraeva la magnetite. Ma, Galimberti non si diede per vinto e il 25 agosto del 1956 Lecca iniziò il nuovo lavoro. “Per quarantadue anni ho fatto il Direttore della manutenzione”. Conosceva ogni dettaglio della salina e del villaggio. Il nuovo direttore della manutenzione era nato lì, in una casa operaia della quarta fila.

Con le risorse del piano di rinascita, siamo negli anni 70, in Sardegna nasce il polo petrolchimico, otto società poi confluite in Rumianca Sud, che danno inizio alla lavorazione dei prodotti della chimica inorganica (cloro – soda e derivati), legati all’industria del sale, e organica (cracking e derivati).

Per raggiungere la sede della Rumianca si percorreva la strada che costeggiava la salina e il villaggio Macchiareddu. “A sinistra c’era la portineria Conti Vecchi dove i lavoratori probabilmente si recavano per firmare l’entrata e uscita dal lavoro, poco distante vi era un bar-tabacchi che vendeva anche generi alimentari, più avanti ancora c’erano le case degli operai”, ricorda l’ex Direttore della manutenzione dell’Enichem (ex Rumianca), “mentre a destra c’era la palazzina dei Dirigenti, due campi da tennis, e poi la campagna”. Nella campagna s’ergevano alberi di eucaliptus, frutteti e vigneti. “La salina”, spiega Sarritzu,” rappresentò la possibilità per la Sardegna di essere industrializzata. La Rumianca comprò quei terreni per fare gli stabilimenti e li costruì proprio nei pressi della salina per abbattere il costo del sale”.

In quel che resta del villaggio Macchiareddu spiccano le palazzine padronali che in origine erano cinque: nelle prime tre abitavano l’ingegnere Guido Conti Vecchi, il direttore, e i familiari, nella quarta e quinta invece, l’ingegnere che gestiva l’esercizio della salina, i tecnici esperti, il responsabile della manutenzione, e un impiegato amministrativo. Le case dei lavoratori furono demolite dall’IRI intorno agli anni 80.

Le case operaie, siamo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, erano costruite una di fianco all’altra, quattro appartamenti su cinque file. In ogni casa vi erano quattro stanze, collegate l’una all’altra da una porta comunicante, e il bagno col vaso alla turca. Il portoncino d’ingresso si apriva nella stanza della cucina. C’era l’illuminazione ad energia elettrica, ma non l’acqua, soltanto un rubinetto esterno dove ci si recava con brocche e recipienti. I bambini nascevano in casa con l’aiuto di un’ostetrica che arrivava da Assemini con il calesse. “Ai miei tempi c’erano una ventina di famiglie con quattro o cinque figli ciascuna. Noi eravamo quattro, ma c’era anche chi ne aveva sei e sette”.

Ogni casa aveva il suo giardino:” Mia madre piantava le rose”, ma c’era anche il pollaio, si allevavano conigli e maiali, si coltivava l’orto. “Il giardino era abbastanza grande, venti metri per 10, ed era recintato”. Lecca ha conosciuto la guerra: “Si pativa la fame, ma noi per fortuna potevamo mangiare carne, uova, e frutta e verdura di nostra proprietà”.

Nel villaggio vi erano servizi educativi, religiosi, ricreativi e sanitari: nell’ultima fila delle case operaie c’erano l’asilo e la scuola elementare. Vi potevano accedere tutti, senza distinzioni di censo:” Ho frequentato asilo, scuola elementare e media con Maria Luisa Conti Vecchi, nipote di Guido. Ci sentiamo ancora”. Le insegnanti arrivavano con il pullman delle saline da Cagliari. Per andare a scuola i maschi indossavano grembiuli neri, le femmine invece, bianchi o azzurri. Con i cubetti di legno, a forma di vocali e consonanti, s’imparava l’alfabeto e componevano le parole. Si giocava con i tricicli, i cerchietti, i cerchioni delle biciclette, a pincaro, su pincareddu, luna monte e al salto con la fune. C’erano le altalene, gli attrezzi per la ginnastica artistica, gli anelli e le corde.

La domenica mattina, un incaricato andava ad Assemini a prendere con il calesse il sacerdote che avrebbe tenuto la messa nella piccola Chiesa del villaggio.

Vi erano inoltre il tabacchino e lo spaccio. “Il tabacchino era gestito dalla famiglia Campodonico. Lui si chiamava Petro Campodonico ed era di Carloforte. Aveva due figlie, Vittorina e Anna, che lavoravano nello spaccio, ed era conosciuto come lo Spaccio Sali e Tabacchi numero tre”.

Nello spaccio si vendeva pane, grano, sale e tabacco e altri generi alimentari secondo le quantità stabilite dai criteri dalla tessera annonaria. Mortadella, salame e formaggio venivano tagliate a mano. “Il pane arrivava dal forno Mattana di via Sassari a Cagliari. Frutta e verdura erano di produzione nostra”. Non mancava inoltre l’assistenza sanitaria: una volta alla settimana arrivava da Cagliari un medico per visitare i malati o prescrivere ricette.

Intorno agli anni Venti e Trenta il mezzo di locomozione in uso era il calesse trainato dai cavalli. Donna Costanza, moglie di Guido Conti Vecchi, aveva fatto costruire una scuderia e messo su un’azienda agricola: campi di grano, orti, frutteti, silos come deposito merci, e animali. I cavalli servivano inoltre per trasportare i vagoni del sale. Il responsabile della gestione della scuderia e dell’azienda agricola svolgeva il suo lavoro, girando per i campi con il calessino.

Le case operaie erano lontane dalle ville padronali, eppure, precisa l’ex direttore della manutenzione, i Conti Vecchi non erano classisti. “I figli giocavano con noi e la domenica, quando si andava in gita, prendevamo lo stesso pullman, mangiavamo insieme, e condividevamo i pasti”.

Nella comunità del sale c’era un costante via vai di persone. Degli spostamenti da Macchiareddu a Cagliari e viceversa si occupava suo padre: andava a prendere insegnanti, operai, e impiegati amministrativi che non risiedevano nel villaggio e poi li riportava in città. E sempre lui si occupava di accompagnare e andare a riprendere gli studenti delle scuole medie, le famiglie che andavano a fare la spesa al mercato del pesce e della carne, o chi per altri motivi doveva recarsi in città.

C’era un’intensa vita sociale, vi prendevano parte anche i cittadini da Cagliari, soprattutto i più agiati che partecipavano alle feste da ballo nella sala del dopolavoro, o giocavano nei campi da tennis, giacché il tennis club Cagliari nasce nel 1955. Il dopolavoroera una sala piuttosto ampia situata vicino alla chiesa. S’incontravano lì a fine serata per giocare a carte, ballare. “I Conti Vecchi chiedevano a chi avesse il desiderio di occuparsene, di organizzare anche spettacoli teatrali, in genere commedie”. Nella sala si trascorrevano piacevoli serate anche davanti alla tv, tra i programmi più seguiti, Lascia e raddoppia”. “A Cagliari non c’era ancora nulla, noi avevamo anche il campo di calcio. Le famiglie più agiate venivano da noi per le feste e lo sport”.

Vicino al dopolavoro c’era un cantiere dove abitavano il cuoco e l’aiuto cuoco, perché a mezzogiorno suonava la campanella per la mensa. Mentre poco più distante c’era il laboratorio chimico dove venivano svolte le analisi del sale e delle acque madri.

Qualche chilometro più avanti vi era la sede della Rumianca che nel 1983 fu assorbita dall’Enichem (la nuova azienda petrolchimica del gruppo Eni), dove il sale veniva trattato e trasformato: tra i vari composti, l’ipoclorito di sodio, la soda caustica, e l’acido solforico. “L’ipoclorito di sodio veniva comprato dall’azienda che produceva e vendeva la varecchina”, spiega Sarritzu.

Siamo negli anni Sessanta, l’industria del sale poteva disporre di moderni macchinari: per il trasporto del sale vengono impiegati dei carrelli metallici, che prendono il posto dei vagoncini trainati dai cavalli. Nascono nuove infrastrutture: i Conti Vecchi, per facilitare il trasporto del sale e gli scambi commerciali, fecero costruire una strada che collegava Cagliari a Macchiareddu.

L’industria del sale è unica, non inquina e impiega risorse naturali libere. “Non esiste al mondo un’industria come il sale”, conclude Lecca, “perché si serve dell’acqua del mare che non si paga, dell’energia solare che non si paga, dell’energia eolica che non si paga, e la sua attività non inquina”.

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