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Nell’era della globalizzazione, del mercato, del consumismo e della tecnologia, muta il concetto di minoranza. Per tanti anni esso si è fondato su basi etniche, culturali e linguistiche, oggi si fonda sempre di più su basi economiche.
Karl Polany, agli albori del secolo scorso, spiegava, ne La Grande Trasformazione, che era in atto un mutamento anomalo e innaturale nelle persone, provocato dall’economia mercantile, che fagocitava gli altri aspetti dell’economia, come la redistribuzione e il dono. Polany sosteneva che progressivamente il valore di mercato sostituiva gli altri valori tipici di una società tradizionale e solidale, o segmentaria, come la definiva Durkheim.

Rapportato al giorno d’oggi, e alle rivendicazioni etniche di oggi, il senso del denaro ha occupato lo spazio della considerazione. Il valore di una persona, o di una regione, o di un popolo, lo si stabilisce, oggi, anche e soprattutto a livello popolare, sulla base del prodotto interno lordo pro-capite. Il senso comune delle cose si è trasferito, dunque, dai simboli alla cifra monetaria, dalla qualità alla quantità, dai sentimenti alla matematica, sicché ogni manifestazione di ricchezza, viene scambiata per buona amministrazione e per virtù. Ne consegue che quella componente umana fondamentale per attribuire senso ad una rivendicazione, quella che Placido Cherchi definiva “l’autocoscienza del valore”, perde forza di fronte ad un paradigma sempre più economicistico.
Il sistema mondo, lo stesso ipotizzato dall’economista e sociologo Immanuel Wallerstein sulla base dell’interpretazione storica di Fernand Braudel e degli altri storici degli “annales”, trova quindi nel compimento della grande trasformazione prevista da Polany la giustificazione, spesso etnocentrica e razzista, delle ingiustizie e delle disparità.
Ecco dunque il senso di superiorità delle nazioni sedicenti virtuose, quelle cosiddette sviluppate, nei confronti dei paesi che, in genere, hanno subito la colonizzazione o pratiche coloniali e che oggi sono sotto il giogo del post-colonialismo.
A questo si accompagna una operazione di destoricizzazione. Il blocco della storia, la fissazione immobile del tempo nel periodo presente, impedisce la conoscenza dei meccanismi di sfruttamento che hanno comportato la disparità, togliendo, nel contempo, alla regione sfruttata la possibilità di progettare un destino basandosi sulla propria storia. Ecco allora i “popoli senza storia”, come li definiva Eric Wolf. L’esempio manifesto di questa teoretica della superiorità culturale delle nazioni con il più elevato PIL pro-capite lo si legge nel noto testo di Landes sulla povertà e la ricchezza delle nazioni, dove in modo elegante e forbito, si insinua l’idea che, tutto sommato, c’è sempre una giustificazione idealista, culturale e morale ad essere centrali in quel sistema mondo.

Su scala minore, e volendo applicare queste trasformazioni su dimensione regionale e alle minoranze, ci renderemo conto che la base etnica, la stessa di cui parlava A.D. Smith ne “L’Origine etnica delle nazioni”, sta perdendo peso nello scacchiere delle rivendicazioni, a favore della componente economica.
La rivendicazione economica, infatti, è diventato il principale motore di emancipazione, vera o presunta, di aree geografiche. Se prima la rivendicazione economica originava dalla disparità in negativo, oggi essa origina, al contrario, da una disparità positiva.
Una volta la rivendicazione etnica era una necessità, una lotta che originava dalle ingiustizie e dalla trascuratezza dello stato centrale. Spesso invece le lotte di oggi danno l’impressione che l’indipendenza sia un fatto per ricchi, che sia un lusso.
Al punto che, oggigiorno, nascono persino nuove rivendicazioni, un tempo meno accese, e persino nuove etnie, come quella padana, che vengono inventate di sana pianta.
Il caso padano è certamente, da questo punto di vista, il più eclatante. La bizzarra ricerca di basi fondative dell’etnia, con il richiamo a buffonate celtiche e ad ampolle con l’acqua della sorgente del Po, denota il tentativo di costruzione di miti identitari fasulli e di una finta cosmogonia che dovrebbe, sotto questo profilo, fornire gli elementi caratterizzanti e fondativi dell’etnia, indispensabile per potersi sentire, almeno nella finzione, popolo.
Ci troviamo di fronte, nel caso della Padania, ad un tipico meccanismo di sfruttamento del sistema mondo. In Italia, infatti, storicamente si è ricreato una sorta di sistema mondo su scala nazionale, con una parte ricca, il Nord, che sfruttava una parte meno ricca, il Sud. Con il tempo, però, il divario è diventato insostenibile e ha iniziato a minare seriamente l’unità nazionale. Unità nazionale che si è dovuta, pertanto, assumere la responsabilità di ridistribuire geograficamente le risorse. La rivendicazione della parte forte del paese mira, piuttosto, a proseguire con una situazione contermine di vantaggio economico, di sfruttamento più o meno occulto, senza però che vi sia il meccanismo di ridistribuzione.
In Spagna, invece, la regione più ricca del paese, la Catalogna, si ritrova ad uno stadio giuridico piuttosto avanzato delle proprie rivendicazioni indipendentiste. La Catalogna attorno al suo primato economico ha saputo aggregare consistenti forze popolari, a differenza dei Paesi Baschi che ormai hanno superato la fase della lotta armata, terroristica, dell’Eta. I Baschi sono, sul piano culturale, etnico e linguistico, insieme ai Saami della scandinavia (altrimenti detti Lapponi) la popolazione certamente con la più forte caratterizzazione d’Europa. Una popolazione che parla una lingua pre-indoeuropea e che, secondo le indagini genetiche svolte a partire dalla celebre equipe di Cavalli-Sforza, è giunta in Europa in epoche antichissime, di molto precedenti al neolitico.
Ma, evidentemente, nonostante secoli di lotte e di rivendicazioni soprattutto nei confronti della parte spagnola, la più consistente, i baschi non riescono a far valere il proprio desiderio di fondare una nazione, loro che una nazione di fatto, sul piano etnico, linguistico e culturale, lo sono.
L’attaccamento ai colori nazionali è data da uno dei più potenti simboli identitari, lo sport. L’Atletico Bilbao, caso unico in Europa, tessera solo ed esclusivamente giocatori baschi, sia di nazionalità spagnola che francese. Una sorta di nazionale, un modo per legarsi ad un totem identitario.
Sul piano sportivo, allo stesso modo, si distinguono le nazioni britanniche, Galles, Scozia e Irlanda del Nord, ciascuna con la propria nazionale di rugby e di calcio. Nel caso del rugby, invero, si assiste ad una componente ancora più eclatante, ovvero la riunificazione dell’Irlanda. Una forma di unità nazionale ipotetica che solo la simbologia dello sport può ricreare. Anche in questo caso, la tensione unitaria, attuata anche mediante il ricorso alla lotta armata e al terrorismo, specie negli anni ’70 e ’80, si è scontrata con il duro intervento repressivo dei britannici. La minoranza cattolica, in Irlanda, non è altro che la discendenza irlandese che convive con la discendenza inglese, i protestanti che, storicamente, hanno assunto il controllo delle risorse locali. Una situazione complicata, perché, in questo caso, il rapporto di tipo coloniale è interno alla stessa area geografica. Anche in questo caso, negli anni ’90, si è arrivati alla rinuncia dell’Ira alla lotta armata, avviando un processo politico per tentare l’unificazione con il resto dell’Irlanda.

Tuttavia è stata la ricca e “petrolifera” Scozia, anche in questo caso, come la Catalogna, a giungere recentemente ad un referendum che poteva stabilire un irreversibile processo di indipendenza. In questo caso, la tensione verso l’indipendenza era giustificata come una scelta, una opportunità, piuttosto che come l’esigenza di una minoranza. Stare riuniti sotto la bandiera britannica, infatti, insieme all’Inghilterra, appare più una scelta che una costrizione.

Diverso è il caso delle due isole mediterranee, la Sardegna e la Corsica. La loro storia ha diversi punti in comune.
Per inquadrare la situazione di queste due isole, si può ricorrere ad un concetto di Gregory Bateson definito come “schismogenesi”, cioè la genesi della separazione. Infatti, in misura crescente, Sardegna e Corsica hanno dato segnali di insofferenza nei confronti dei rispettivi governi nazionali.
La Corsica ha gravitato attorno all’orbita della penisola italiana per secoli, fino a che non è passata alla Francia, che ha intrapreso una pressante opera di francesizzazione. La storia della Corsica è di una costante tensione verso l’indipendenza in una situazione, però, di debolezza cronica, peraltro ingenerata dallo storico sfruttamento delle sue risorse. Una tensione che, nel dopoguerra, ha visto anche in questo caso il terrorismo e lotta armata imperversare, ottenendo sempre una dura reazione francese. Solo negli anni ’80 e ’90 la Corsica ha potuto ottenere una blanda autonomia legislativa, e soltanto recentemente, i partiti corsi, finalmente uniti, hanno potuto vincere le elezioni regionali.
A differenza della Corsica, sempre soffocata nelle sue espressioni dalla Francia, la Sardegna ha potuto godere sin dall’immediato dopoguerra di uno statuto autonomo. La genesi dell’unità d’Italia, inoltre, vede la Sardegna assorbita pacificamente nello stato unitario ed anzi, il Regno di Sardegna e la “fusione perfetta” col Piemonte mostrano un certo ruolo nella genesi unitaria. Tuttavia, nel corso di questo processo politico, la Sardegna ha subito una costante rapina delle risorse ed un utilizzo, da parte dello Stato centrale, del suo territorio sacrificante per la sicurezza civile e per la stessa economia. Da questo punto di vista, pur non arrivando allo scontro violento, il rapporto con lo Stato assume similitudini con l’isola gemella.
In situazioni di lealtà nazionale e di corretto rapporto sussidiario, Corsica e Sardegna, isole dove l’opera di nazionalizzazione culturale e linguistica da parte dei potenti stati a cui appartengono è in fase avanzata, non avrebbero dato segni di schismogenesi. Ma la costante opera di trascuratezza e di scorrettezza, senza che vi siano sufficienti momenti di recupero del rapporto positivo, nei confronti di queste isole, sta portando i loro popoli ad una rottura morale nei confronti dei rispettivi stati nazionali. Tuttavia, non essendoci stato quello sviluppo economico sufficiente a far crescere l’autocoscienza del valore, tali tensioni risultano, soprattutto nel caso della Sardegna, governate in modo frammentario, contraddittorio e conflittuale.
E’ una legge da analizzare, questa. Più un popolo è sfruttato e trascurato, più diminuisce in esso l’autocoscienza del valore e la capacità propositiva di imporsi e di confrontarsi con lo Stato centrale. Più un popolo resta indietro sulla strada di quelle modalità di sviluppo imposte da altri, e più si sentirà frustrato e incapace di badare a sé stesso.
Il risultato è la forte e persino aspra polarizzazione tra componenti indipendentiste e non, con accenti estremisti e radicali, e la frammentazione all’interno delle stesse forze di proposizione delle istanze locali.
Nel frattempo, Kurdi e Palestinesi lottano per una sopravvivenza che non è solo culturale, ma anche fisica. Ma quella è un’altra storia ancora.

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