MedFood vi propone un viaggio nella tradizione gastronomica delle piccole comunità delle malghe liguri, dove, nelle case dei pastori in transumanza, era diffusa la cosiddetta cucina bianca. Espressione gastronomica più intima della civiltà agro-pastorale di un’ampia area delle Alpi Marittime, la cucina bianca unisce le Valli Arroscia, Argentina, Nervia, Tanaro e il territorio di Briga, per metà italiano e per l’altra metà francese.
Un itinerario di cultura oltre che gastronomico, lungo i sapori e le tradizioni della transumanza, quello che attraversa la civiltà delle malghe delle Alpi Marittime, una terra difficile dove un tempo si sopravviveva allevando il bestiame e praticando un’agricoltura “estrema”.
Cucina Bianca, per la verità è un nome relativamente recente: risale agli anni Cinquanta del Novecento, allorché il comune di Mendatica decise di attribuire questa denominazione a qualcosa che fino a quel momento era stata considerata una necessità poi trasformatasi in consuetudine e che casualmente implicava il colore bianco: quello dei farinacei e dei latticini, ma anche quello di alcuni erbaggi selvatici e delle aromatiche.
La strada della cucina bianca di montagna si sviluppa tra Liguria e Piemonte, tra Italia e Francia e si snoda sui sentieri percorso dai pastori tra quei piccoli paesi in cui a lungo è stata diffusa proprio questa forma di alimentazione. Una cucina intrinsecamente di stagione e territoriale, basata esclusivamente su quanto disponibile e su ciò che poteva crescere a più di mille metri di altitudine: aglio, porri e cipolle per lo più, cavoli, rape e patate, cicerchie anche, tutti prodotti poco colorati a cui si aggiungevano lumache, galline e uova e ovviamente i farinacei, il latte e i latticini. Tra questi il caprino e il pecorino di pecora Brigasca, animale considerato quasi sacro, che la popolazione locale definisce “da battaglia” dal momento che si è rivelato particolarmente adatto a vivere ad alta quota dove si trova ancora un foraggio unico al mondo: solo qui, infatti, le piante delle Alpi convivono con quelle mediterranee. Tra i formaggi, oltre il Toma di pecora brigasca molto popolare è il Brus, una ricotta fermentata e inacidita che viene rimestata per circa una settimana. Utilizzato ancora oggi come un formaggio vero e proprio o come base per condimenti saporiti, come quelle salsine dal sapore molto forte che ben si sposa con la delicatezza della farina e la dolcezza della patata, il Brus qui è considerato il simbolo della vera cucina di montagna.
Quasi del tutto assente sulle tavole era, invece, la carne. Troppo importante il bestiame perché andasse al macello; si preferiva perciò destinarlo al pasto solo in rare occasioni, magari nell’ambito delle feste principali legate al ciclo della vita o dell’anno. Quando e se capitava di consumare carne, si trattava generalmente di qualche coniglio o galline, perché i polli si tenevano per le uova.
A completare la dieta dei pastori e delle loro famiglie erano alcune erbe spontanee, un terzo delle essenze erbicole europee del resto sono liguri. Alle erbe sono da aggiungersi i frutti del bosco: lumache e funghi da una parte, noci e castagne dall’altra. Tutti alimenti bianchi per colore, con una sfumatura di bianco o comunque un tono cromatico molto delicato, la cui raccolta doveva essere di vitale importanza durante gli spostamenti dei pastori.
Nonostante la vicinanza col mare, della cucina mediterranea, invece, nemmeno l’ombra. Quasi del tutto assente perfino l’olio, considerato dal popolo delle malghe quasi un medicamento, un bene prezioso da usare con parsimonia, “cu u truncu” si diceva, intendendo con ciò riferirsi alla dose che si otteneva intingendo un rametto nella bottiglia.
Per effetto dell’altitudine in questa area non comparvero mai nemmeno il pomodoro e il profumatissimo basilico ligure, ingrediente fondamentale della cucina regionale che, poco o male risultava adatto a crescere in questi territori.
Una cucina, quella bianca, che seppur poco colorata non doveva mancare di sapori derivanti da prodotti certamente sani e tipici dell’ambiente montano, frutto della secolare transumanza agricola e pastorale.
Prodotti spontanei, raccolti dai pastori lungo i sentieri mentre camminavano con le greggi, hanno dato origine a una gastronomia particolare, lontana dalla cucina mediterranea tradizionale, le cui ricette si tramandano da secoli e sono caratterizzate da preparazioni molto semplici dal momento che generalmente i piatti venivano preparati durante il viaggio, in rifugi poco o per nulla attrezzati.
Ricette in cui a farla da padrone erano ingredienti che ritroviamo anche nella cucina piemontese e occitana al punto che alcuni piatti sono chiamati nello stesso modo a Tenda in Francia, a Mendatica in provincia di Imperia come pure a Caprauna nel cuneese. La transumanza agricola e pastorale evidentemente qui ha unito le popolazioni della montagna ligure, del cuneese e delle valli occitane, dando vita a una singolare gastronomia “etnica”. Una vera e propria cultura alimentare nata alle pendici delle Alpi marittime, dove la migrazione stagionale di greggi e pastori unendo i popoli della montagna ha fatto in modo che potessero originarsi piatti unici, appetitosi, energetici e la cui preparazione non richiedesse lunghi tempi.
Il cibo, sappiamo, racconta sempre delle storie e gli alimenti eccellenti e le ricette antiche di cui andremo a raccontarvi narrano la storia di quegli uomini e quelle donne che per lungo tempo hanno condiviso la vita nelle malghe di montagna, piccoli insediamenti posti tra il paese e i pascoli, avamposti autosufficienti dove i pastori salivano all’inizio della stagione calda e da cui discendevano appena l’autunno iniziava a palesarsi.
È proprio qui, nelle malghe, che essi potevano combattere la fame, utilizzando quel poco che la montagna e il bosco rendeva loro disponibile.
Gli spostamenti per le “genti di malga” non dovevano essere agevoli e le donne costrette a fare di necessità virtù si trovavano costrette a cucinare i pochi ingredienti di cui disponevano, cercando di fare il miglior uso possibile di ciò che c’era. Impararono presto a mescolare e amalgamare al meglio ortaggi ed erbe selvatiche che aggiungevano agli sfarinati e ai latticini dando vita a piatti unici, nuovi e straordinari nella loro originalità. Ricette che sembrano arrivare da un’altra epoca, ben più lontana del periodo in cui in realtà furono concepiti. Tra questi le Turle, ravioli di patate, menta e formaggio o le tante torte di cipolle, porri e patate, patate che alcune volte venivano bollite e diventavano uno degli ingredienti necessari alla preparazione dell’Agliè, considerato una variante dell’Ajoli provenzale. Frequente era la preparazione della Brussusa o il popolare Bernardun e ancora i Friscio de Mei o i Minietti e gli Streppa e caccia là.
Piatti semplici che sono quasi dei libri di storia, dal momento che narrano in modo diretto come, fino a non molti decenni fa, scorreva la vita in questo sorprendente angolo di Liguria. Piatti che vengono distinti in alcuni casi in maschili e femminili come i Sügeli che venivano cucinati sempre dalle donne nella cucina di casa e che per quanto semplici non solo necessitavano di un piano di lavoro, ma richiedevano e implicavano una certa delicatezza nel momento in cui si trattava di “metterli in forma”. Un piatto tipicamente maschile erano, invece, considerati gli Streppa e caccia là: più rudi e rustici venivano preparati direttamente dai mariti durante il periodo di permanenza sui pascoli. Potevano, infatti, essere fatti perfino all’aperto senza bisogno di altro che di una ciotola, poche erbe spontanee o verdure raccolte lungo i sentieri insieme a qualche fungo quando si era fortunati. Generalmente venivano consumati dopo averli conditi con una crema di latte, aglio e Brus. Era questa una delle tante strategie che gli uomini, costretti a trascorrere lunghi periodi lontani dalla famiglia e in solitudine, attuavano per riappropriarsi idealmente e ricreare i sapori di casa.
In queste terre, ancora oggi, si racconta che le mogli fossero a tal punto riservate che in luogo di dire “ti amo” ai propri mariti, preferissero esprimere i loro sentimenti cucinando per essi un piatto. Forse, anche per questo motivo, oggi ogni paese conserva il suo piatto simbolico, quello che meglio lo caratterizza e insieme lo rappresenta, pensiamo alle Raviole di Montegrosso Pian Latte o il già citato Bernardun di Piaggia, ricette antiche la cui preparazione e memoria attualmente è portata avanti non solo dalle famiglie che abitualmente li consumano ma anche dagli agriturismi (sette in tutto) posti sulla Strada della Cucina Bianca e che ne hanno fatto il punto forte dei loro menù.
L’unicità e l’originalità d questa cucina è rintracciabile nell’abilità e nel saper fare delle donne di malga che nel tempo ha saputo trasformare, addomesticandola, la natura in cultura, attingendo sapientemente a quanto i loro uomini producevano. Sono queste donne ad aver dato vita a piatti straordinari e quasi sacri, difficili da trovare altrove. Sempre loro, oggi sono le uniche depositarie delle ricette della vera cucina bianca ligure, così come gli agriturismo locali possono esserne considerati i veri portavoce di questa cucina che potremmo dire essersi dimostrata più che “biologica” ben prima che questo termine comparisse: per molti decenni, infatti, l’unico antiparassitario disponibile era costituito dal freddo.
Se un tempo le malghe potevano considerarsi centri di vita e condivisione, con le loro piccole chiese e le scuole in cui i maestri regolarmente si recavano per insegnare ai figli dei pastori, attualmente esse sono ridotte a piccole frazioni che abitate solo d’estate risultano quasi del tutto abbandonate. Luoghi in cui vivere, soprattutto nel passato non doveva essere facile. Ambiti di vita legati a un concetto di comunità fondato sullo stare insieme e la solidarietà, perché davvero qui l’unione faceva la forza e spesso poteva fare la differenza. Con le frane all’ordine del giorno a bloccare gli accessi ai pascoli, un’agricoltura a dir poco difficile, le coltivazioni altrettanto ardue, non è difficile comprendere come ogni metro di terra e l’aiuto reciproco potessero essere considerati assai preziosi.
Laddove c’è l’uomo, tuttavia, non può che esservi vita e infatti ogni malga aveva il suo piccolo orto intorno, coltivato con quanto riusciva e poteva crescere ad alta quota. Verosimilmente, fu proprio merito della felice congiunzione tra il clima marittimo e quello alpino se il pascolo estivo si rivelò fondamentale a preservare nel corso del tempo la biodiversità che ancora oggi caratterizza queste zone.
Con il progressivo abbandono dei pascoli, la Cucina Bianca sembrava destinata all’oblio e, invece, la passione degli abitanti di queste valli, è riuscita nell’intento di fare di questa cucina semplice e delle ricette della sua gastronomia un’attrazione turistica di grande valore culturale e il cui risultato, fatto di piatti tradizionali, merita di essere provato almeno una volta nella vita. un patrimonio importantissimo quello della Cucina Bianca ligure, da gustare ma anche da raccontare e soprattutto tramandare.
Durante l’anno si ha la possibilità di gustare i piatti che le donne nel tempo hanno inventato e tramandato in tanti piccoli ristoranti e agriturismo di ottimo livello che si trovano sparsi fra queste montagne, mentre altri continuano a nascere. Diverse sono anche le sagre e le manifestazioni gastronomiche attraverso le quali i paesi celebrano il prodotto o il piatto a cui sono più legati o che simbolicamente e storicamente meglio li rappresenta. Un accenno merita senza ombra di dubbio la Festa della Cucina Bianca, organizzata ogni anno a Mendatica: la vera vetrina attraverso cui poter conoscere tutte le specialità e i segreti della cucina delle antiche malghe liguri in un unico grande evento.
Eccellenze del Territorio
Pecora Brigasca
Area
di produzione
Territorio posto al confine tra la Liguria, il
Piemonte e la Francia: provincia di Imperia e alcuni Comuni della
provincia di Savona e di Cuneo.
Lo dice il nome: brigasca deriva da La Brigue, un paese francese della Val Roya noto per essere stato nei secoli passati il più importante centro di pastorizia di tutta l’area di confine tra Liguria, Piemonte e Provenza. La Brigue nel tempo è stata alternativamente francese, italiana e poi ancora francese, ma da sempre qui si parla il brigasco, un dialetto compreso di qua e di là dalla frontiera che discende dall’antica lingua d’Oc
La pecora brigasca, la cui carne e i latticini sono reperibili tutto l’anno, è una razza ovina autoctona e con tutta probabilità ha avuto origine dallo stesso ceppo da cui deriva la frabosana. Un tempo era particolarmente diffusa nelle Alpi marittime, nello specifico nella zona ove si congiungono la Val Roja, la Valle Argentina, la Valle Arroscia e la Val Tanaro.
Tra questi monti, in mezzo ai quali passa la strada Marenca, la pecora Brigasca, dal profilo frontale montonino, sebbene più piccola di taglia e meno robusta, presenta nei maschi corna a spirale rivolte all’indietro simili a quelle del montone e un aspetto più ruspante rispetto alle altre razze ovine.
Un animale rustico, dotato di arti muscolosi e unghielli forti, scuri, adatti al pascolo in zone impervie, la razza prediletta dalle popolazioni locali: oltre ad essere particolarmente docile si era, infatti, dimostrata resistente al freddo e in grado di garantire una buona produzione di lana, latte e carne. L’allevamento tradizionale prevede un periodo di sette-otto mesi in alpeggio e di circa quattro mesi in bandia, la zona costiera dove il clima mite permette di mantenere il pascolo all’aperto anche nei mesi invernali.
Il percorso, nello specifico, è così caratterizzato:
- Inverno: le pecore pascolano sulla costiera albenganese;
- Fine di Giugno: il gregge si trasferisce all’alpeggio sul Monte Saccarello.
- Autunno inoltrato: il gregge ridiscende ad Albenga.
Gli allevatori che curano un
allevamento di questo tipo mantengono aziende di piccole dimensioni,
distribuite su un territorio la cui orografia, fatta di strade
strette e tortuose, determina costi di produzione e di trasporto
molto alti. Su questi alpeggi, con il latte della brigasca e con
tecniche e attrezzi legati alla tradizione millenaria della
transumanza viene prodotto da generazioni un latte di pregiata
qualità e formaggi come la “Toma
di pecora Brigasca” (un
formaggio di forma quadrata irregolare conosciuto anche con il nome
di Sora), la ricotta e il “Brus”.
La toma
è prodotta addizionando il caglio al latte proveniente dalla
mungitura serale aggiunto a quello del mattino. Dopo la coagulazione
si rompe la cagliata con il rubatà, il classico spino in legno, e si
lascia depositare. Il coagulo è poi raccolto con una tela grezza
(raireura) con la quale si forma una sorta di fagotto sul quale è
depositata una grossa pietra. Dopo circa 12 ore la massa è tolta
dalla tela e tagliata in parti simmetriche: le future tome. I
formaggi sono salati a secco utilizzando sale marino e posti a
stagionare in luoghi freschi, su tavole in legno, per un minimo di 60
giorni. Il siero recuperato dalla caseificazione è portato ad una
temperatura prossima all’ebollizione per la produzione di ricotta
che, se lasciata fermentare per almeno 10 giorni, diventa
Brus.
L’importante ruolo di presidio del territorio operato da
questi allevatori è stato riconosciuto dall’Associazione Slow Food,
nel 2003, con la creazione del Presidio della “Toma di
Pecora Brigasca” che, sostenuto dalla regione Liguria, vuole
valorizzare le tome a latte crudo fatte negli alpeggi rimasti sul
confine e sostenere il ruolo determinante dei pastori nella tutela
dell’ambiente naturale, che ha subito effetti assai negativi con
l’impoverimento del patrimonio zootecnico.
La pecora era una fonte di reddito primaria per le piccole comunità locali e le cronache narrano di contese per il possesso dei pascoli migliori. Nel 1947 la definizione dei confini politici e amministrativi rese più difficile lo spostamento del bestiame, causando un primo declino numerico delle greggi. Oltre che sull’economia di queste zone montane, l’impoverimento del patrimonio zootecnico ha avuto effetti assai negativi sul paesaggio.
All’inizio
del XX secolo in tutta l’area di diffusione della brigasca erano
allevati 60.000 capi, ma oggi delle antiche greggi resta poco. In
Liguria pascolano ancora circa 1.800 capi, in particolare nelle aree
di confine, e 800 sono allevati nella francese Val Roya.
Il
Presidio, sostenuto dalla Regione Liguria, vuole valorizzare la razza
brigasca allevata nei pochi alpeggi rimasti sullo spartiacque che
segna il confine con la Francia e sostenere il ruolo determinante dei
pastori nella tutela e nella salvaguardia dell’ambiente naturale.
I
pochi produttori rimasti lavorano duramente spostando le greggi di
pascolo in pascolo in situazioni spesso difficili, ma hanno grande
passione per il proprio lavoro: il Presidio vuole aiutarli a
migliorare queste condizioni.
I piatti preparati utilizzando i prodotti e i sottoprodotti della brigasca si caratterizzano per un sapore particolare, attribuibile sia all’ambiente in cui essa cresce, il massiccio del Saccarello, la zona europea con la più ampia varietà di specie vegetali che da sempre si giovano della benevola influenza del Mediterraneo, sia per le tradizioni culinarie, frutto del fortunoso meticciato tra la cucina mediterranea, quella alpina e la cucina bianca tipica delle Alpi Liguri.
Toma di pecora brigasca
Con il latte della pecora brigasca, o con l’eventuale aggiunta di latte di capra, si produce la “Toma di Pecora Brigasca”, un formaggio ovino grasso, di media stagionatura, a pasta molle, presidio Slow Food dal 2003.
Il termine “toma” deriva dal provenzale antico toma, a sua volta dal greco tomḗ (taglio), ricordando l’etimologia della mozzarella e probabilmente dovuto al taglio delle forme prima di metterle a maturare.
Ottima consumata semplicemente con del pane casereccio e con un calice di vino rosso locale, la toma si presenta di forma parallelepipeda di varie dimensioni a base irregolare, con scalzo diritto o convesso irregolare, alto circa 3 cm. Il peso varia sensibilmente da forma a forma. La crosta è sottile, morbida, rugosa, di colore grigio ammuffito; la pasta è morbida, untuosa, di colore bianco o paglierino, anche scuro se stagionato. L’occhiatura è rada, di medie dimensioni, regolarmente distribuita. La Toma di pecora Brigasca ha proprietà gustative ed olfattive di altissima qualità e ricorda nel retrogusto il mix di aromi e delle fioriture di alta montagna.
Per produrre la celebre e saporita toma si utilizza il latte della mungitura serale e quello della mungitura mattutina. I due latti vengono portati a 34° e addizionati di caglio di agnello. Dopo la coagulazione, la cagliata viene rotta con uno spino di legno, il rubatà, e viene raccolta con un telo grezzo, detto raireura, con la quale si forma un fagotto sopra il quale viene deposto un grosso masso, utile per fare spurgare il liquido in eccesso. Dopo circa 12 ore il cacio viene liberato dal masso e dalla tela, tagliato in parti simmetriche e messo a maturare in fascere di legno. Trascorsi 15 giorni il formaggio viene lavato con acqua corrente fresca, asciugato, salato e messo a stagionare per almeno 1 mese, meglio se 40 giorni su tavole di legno e in un luogo fresco.
La Toma si produce nell’intero arco dell’anno, in prevalenza da gennaio a ottobre, quindi con un calo della produzione al principio della stagione fredda.
Brus
Il “Grande dizionario piemontese-italiano” del cavalier Vittorio di Sant’Albino (inizio Ottocento) lo definisce “specie di cacio fortissimo, fatto con altro cacio vecchio ed assai fermentato, impastato nell’acquavite, con burro e alcune droghe, che poi si chiude e si conserva in iscatolette“.
C’è chi sostiene che il nome derivi dalla parola dialettale piemontese “brusé”, cioè “bruciare”. In effetti, assaggiando un Brus molto piccante questa sensazione gustativa si sente. Il formaggio fa parte delle Tome di pecora Brigasca che sono Presidio Slow Food.
Buono col pane (magari di Triora) e pomodoro fresco, così come con le patate al cartoccio, il Brus, detto anche Brùsso, Bruzzo, Bruso, Brussu, è una ricotta di pecora inacidita e fermentata caratteristica delle Alte Valli Argentina, Arroscia e Nervia, comuni montani in provincia di Imperia.
Si presenta sottoforma di latticino spalmabile, a pasta molle, densa e cremosa, dunque dalla forma non ben definita, di colore bianco o grigio. Generalmente lo si trova in commercio dentro piccoli contenitori. E’ impiegato per lo più per condire le paste, per preparare minestroni di verdure e nella torta di Brosso, ma si dice risulti particolarmente sfizioso quando utilizzato per condire la polenta, verosimilmente per via della sua intensità aromatica mediamente elevata che con la maturazione può diventare piccante.
Il Brus si ottiene lavorando la ricotta nel siero che rimane dopo la produzione di formaggi. Questa, viene raccolta e messa negli scorsi, contenitori di larice o ciliegio, a fermentare con grappa, alcolici fermentanti, aceto, olio di oliva, pepe o peperoncino. A volte si aggiunge anche il sale. All’interno degli scorsi, in cantina, il prodotto matura in una settimana circa durante la quale viene mescolato quotidianamente.
Per un lungo periodo fu considerato un cibo povero perché utilizzato dai lavoratoriagricoli dell’entroterra ponentino per condire la pasta o le patate o molto più frequentemente semplicemente spalmato su una fetta di pane casareccio.
La produzione un tempo molto diffusa in Liguria, conobbe una fase di declino per circa venti anni, per poi ricomparire grazie al recupero delle tradizioni culinarie. Attualmente questo prelibato formaggio è conosciuto nel luogo di produzione, ma poco altrove, tanto da essere Presidio Slow Food.
Nello specifico, fa parte dell’Arca del Gusto, progetto della Fondazione Slow Food che raccoglie le piccole produzioni di eccellenza gastronomica minacciate dall’agricoltura industriale, dal degrado ambientale, dall’omologazione.
La creatività dei pastori e i tappeti della pecora brigasca
E’ proprio vero: l’unione fa la forza e qualche volta è perfino in grado di produrre idee originali, capaci di riportare a galla tradizioni altrimenti destinate a cadere nell’oblio.
E’ quanto accaduto a tre imprenditori liguri, dediti all’allevamento della Pecora Brigasca: Aldo Lo Manto titolare dell’azienda Il Boschetto di Bastia d’Albenga, Simona Pastorelli responsabile dell’agriturismo Il Castagno di Mendatica, e Nevio Balbis di Sanremo, i quali, grazie al progetto MareTerra di Liguria che si è avvalso di un contributo della Fondazione Carige, hanno costituito un Consorzio attraverso il quale hanno potuto sperimentare e affiancare alla produzione dei tre formaggi locali (la Sora, la Toma e il Brus) la lavorazione della lana, con la quale producono tappeti rustici di varie dimensioni.
La pecora ha sempre rappresentato una importante e irrinunciabile fonte di reddito per le piccole comunità locali; è la cronaca locale a narrare di vere e proprie contese per il possesso dei pascoli migliori. La lavorazione della lana in quest’area non è certamente una novità: in passato, si dice che perfino quella non adatta alla filatura venisse raccolta e poi utilizzata per farne materassi e cuscini.
Benché il prodotto fosse ricercato, perfino dai mercanti scozzesi e irlandesi, il reddito che ne derivava, tuttavia, era molto basso, specie rispetto alle ore di lavoro necessarie e progressivamente perse valore al punto che negli ultimi tempi era regalato o scambiato con altri servizi e prodotti, o usato per concimare gli alberi da frutto.
Proprio per evitare che questo prodotto genuino della pastorizia andasse perduto definitivamente, i tre imprenditori hanno ben pensato di unire le forze e la materia prima per riutilizzare la lana delle pecore. Un’idea che fin da subito ha entusiasmato tutti, e che ha finito per coinvolgere anche l’industria tessile sarda che ha accettato di lavorare i diciassette quintali di lana raccolti dalle tre aziende, provenienti dalla tosatura primaverile, attenendosi alle richieste e seguendo il marchio proposto dalle aziende liguri.
Da questo progetto sono nati circa quattrocento tappeti con logo di garanzia e provenienza. La lana di pecora brigasca è particolarmente grossolana e resistente, caratteristica questa che la rende adatta alla fabbricazione di tappeti, una tradizione che sembrava essere andata ormai perduta.
I tappeti di lana di pecora brigasca sono stati realizzati presso l’Azienda Tessile Crabolu di Nule in provincia di Sassari, tramite tessitura in rilievo, a ricci, che in Sardegna è definita a “pipiones”, una tecnica che permette di ottenere un tessuto di maggior volume e morbidezza.
I manufatti presentano ben quattro modelli specifici, quattro loghi che rappresentano gli emblemi della pastorizia delle Alpi Marittime: il Mago Custode, figura tipica incisa sull’ardesia delle case dell’Alta Valle Arroscia; l’Agnus, in piedi e con aureola e falce, come compare anche sui portali delle chiese locali; la Rosa dei Pastori, simbolo locale che ritroviamo inciso su mobili, collari per gli animali e pietre e, infine, la Testa della pecora brigasca.
I tappeti, particolarmente apprezzati soprattutto dagli estimatori delle tradizioni montanare e dagli amanti dei prodotti artigianali, si possono acquistare presso le tre aziende liguri, sui banchi dei mercati e delle sagre a cui partecipano i produttori o direttamente su internet. Considerato il successo riscosso, l’obiettivo dei produttori ora è quello di produrre anche altri oggetti per la casa, come ad esempio le coperte
Il tappeto realizzato e commercializzato dal Consorzio è stato esposto alla mostra Wools of Europe
Le aziende
Il Boschetto di Bastia d’Albenga
E’ in questa terra sospesa tra i monti e il mare che Aldo Lo Manto, tra gli ultimi testimoni di una antica tradizione, ha il suo gregge di pecore, il più numeroso di tutta la Liguria. Egli è l’unico pastore in Liguria a praticare ancora la transumanza esclusivamente a piedi, per un tragitto assai lungo attraverso il quale da circa trent’anni parte dal mare per raggiungere le Alpi Marittime. Una volta arrivato a destinazione vive tra una roulotte e una tenda: le comodità sono poche, racconta, e bisogna fare di necessità virtù.
Ogni anno, intorno alla fine di giugno, Lo Manto, sposta il suo bestiame e dal 2012 ha coinvolto in questa esperienza unica anche gruppi di persone che possono camminare con i pastori entrando in sintonia con la natura e gli animali, assistere alla mungitura, ma soprattutto ammirare lo splendido scenario di quei luoghi in cui i pastori, con le greggi, si fermeranno fino ad ottobre.
Per poter accompagnare Lo Manto nella transumanza è nata una associazione, dal nome evocativo: “I transumanti”, il cui scopo principale è quello di far riscoprire e insieme promuovere e valorizzare un territorio che ancora oggi vanta una cultura antichissima. Con i suoi collaboratori, Lo Manto non si limita semplicemente a recuperare e mantenere viva una tradizione secolare che rischia di essere dimenticata. Preservare le attività agropastorali ad essa legate favorisce, infatti, lo sviluppo compatibile dell’agricoltura e della produzione alimentare e, attraverso la riscoperta, la difesa e la valorizzazione dei prodotti del territorio, incoraggia l’evoluzione della cucina e la ricerca in campo gastronomico A ciò è da aggiungersi, infine, la preziosa segnalazione di specie animali e vegetali utile al mantenimento del patrimonio insostituibile di biodiversità.
A Bastia d’Albenga, ha sede l’azienda agricola Il Boschetto di cui Aldo Lo Manto è titolare e qui sono prodotti gli ottimi “Formaggi del Boschetto”, delizie nate dal latte delle rare pecore Brigasche, che ancora conservano il profumo e il sapore della terra ingauna.
Con la sua azienda Aldo Lo Manto si fa portatore di una professione antica e difficile, il pastore, perpetuando l’eredità del padre arrivato dalla Sicilia alla fine degli anni sessanta: un lavoro che comporta senza ombra di dubbio tanti sacrifici ma che regala al tempo stesso anche tante soddisfazioni.
Contatti:
Azienda Agricola
“I Formaggi del Boschetto”
di Lomanto Mario Aldo
Regione Boschetto – Frazione Bastia
17031 ALBENGA (SV)
Telefono e Fax 0182 20687
Cellulare 339 4167938
www.iformaggidelboschetto.jimdo.com
mail: iformaggidelboschetto@email.it
Agriturismo Il Castagno
A Mendatica (IM) è situato Il Castagno, azienda agrituristica a indirizzo zootecnico, orticolo e frutticolo.
L’azienda agricola ha una estensione di 11 ettari e produce formaggi e salumi tipici della Valle Arroscia, oltre ad ortaggi, frutti del sottobosco e alimenti per gli animali allevati.
L’Azienda ha impostato gran parte della sua dimensione d’attività sulla pecora brigasca e sul suo latte. Si allevano anche capre e vacche, ma è la pecora brigasca ad essere considerata il vero fondamento della storia pastorale di quest’area geografica. Allevare pecore brigasche per la gente del luogo vuol dire essere presidio del territorio e fare qualcosa per l’equilibrio ambientale.
Presso Il Castagno è possibile sia pernottare che gustare i prodotti locali ed i cibi preparati dalla Signora Terzialia: piatti tipici della montagna ligure legata alle tradizioni della Valle Arroscia. Le materie prime impiegate per la preparazione dei pasti sono quasi esclusivamente prodotte in azienda, col sole, l’acqua e l’aria di questa bellissima valle.
E’
presente, inoltre, una fattoria didattica la cui attività prevede la
visita dell’azienda e l’incontro con i cuccioli; i laboratori
didattici offrono, invece, la possibilità di vivere l’esperienza
del ciclo del latte, dalla
mungitura fino alla produzione del formaggio.
L’attività si
svolge in primavera e autunno, mentre i laboratori sono possibili
tutto l’anno.
Contatti:
Azienda Agricola
Il Castagno
Via San Bernardo, 39
18025 Mendatica (Imperia)
Telefono 0183 32 87 18 –
Cellulare 349 29 61 932
mail: il.castagno@libero.it
Nevio Balbis
Via Montà Di Lanza, 80
18038 Sanremo (IM)
Cel. 333 3302604
Le ricette del territorio
Brussusa
Si preparava con ciò che rimaneva dell’impasto del pane, diffuso nell’area brigasca e nelle malghe dell’Alta Valle Arroscia e Tanarello. L’impasto veniva spianato e ripiegato su se stesso con ripieno di aglio e Brus e poi cotto nel forno a legna.
Ingredienti
Per la pasta:
500 g di farina
lievito madre o lievito di birra
q.b. di acqua
q.b. di sale
brussusa
Per il ripieno:
200 g di Brus
2 spicchi di Aglio di Vessalico
q.b. di olio
Procedimento
Formate un morbido impasto di farina, lievito sciolto nell’acqua tiepida e sale.
Lasciate lievitare due ore, poi fate dei panetti e tirateli con il mattarello dello spessore di circa 1 cm.
Fate rosolare l’aglio tritato nell’olio e aggiungete il Brus. Stendete un po’ di ripieno nel centro della pasta, ripiegate i due lati verso l’interno e infornate per circa un’ora e mezza a 250°.
Turle di Mendatica (ravioli di patate e formaggio)
Il nome “turla” deriva da quello di una grossa mandorla di legno che aveva il compito di fermare le due ante di armadi e mobiletti, la cui forma ricorda un po’ quella dei ravioli.
IngredientiI:
Per la pasta:
250
g di farina
1 uovo
acqua q.b.
Per il ripieno:
350
g di patate
1 Kg di Toma morbido
2 tuorli d’uovo
50 g di
parmigiano grattugiato
1 rametto di menta fresca
Per condire:
burro
parmigiano
qualche
foglia di menta
1 limone, la scorza
Procedimento:
Lavate
le patate, ponetele in una casseruola, copritele di acqua, salate e
portate a bollore. Cuocete le patate fino a che saranno tenere,
scolatele, eliminate la buccia e passatele allo
schiacciapatate.
Mescolate le patate con i formaggi, i tuorli
d’uovo e le foglie di menta tritate, condite con sale e
pepe.
Preparate la pasta unendo l’uovo e la farina e aggiungendo
un cucchiaio di acqua alla volta, fino ad ottenere un composto
omogeneo ed elastico.
Tirate
la pasta piuttosto sottile, con l’aiuto di un cucchiaio ponete
mucchietti di ripieno ben distanziati, ripiegatevi sopra la pasta e
ritagliatene dei ravioli.
Portate a ebollizione l’acqua salata,
cuocete i ravioli per pochi minuti, scolateli e passateli per qualche
istante in una padella con burro, qualche fogliolina di menta e la
scorza di limone a filetti.
Servite ben caldi con abbondante
parmigiano grattugiato.
Raviore
Sono considerate il piatto tipico di Montegrosso Pian Latte. Sono fagottini ripieni di un considerevole numero di erbe selvatiche crude autoctone (fino a 20 tipi diversi), a crescita spontanea tra cui l’erba amara, l’erba Luisa, gli spinaci selvatici (Engrari), menta, ortiche, etc. Tradizionalmente erano conditi con acqua di cottura, poco burro, e abbondante formaggio pecorino e successivamente anche col pomodoro; il recente incontro con l’olio extravergine di oliva ne ha esaltato il sapore. Esiste una variante a Cosio d’Arroscia in cui le Raviore, di dimensioni più grandi, sono cotte sulla piastra del forno.
Si preparano lavorando la farina e l’acqua fino ad ottenere una pasta elastica, che dovrà essere stesa e tagliata in piccoli rettangoli.
Si prepara quindi un trito di erbe selvatiche tra cui l’erba amara, l’erba Luisa, gli spinaci selvatici, menta e ortiche. Il trito deve essere poi versato con l’aiuto di un cucchiaio al centro di ogni rettangolo e la pasta dovrà essere infine chiusa a formare un piccolo fagottino. A questo punto le raviore possono essere cotte in acqua bollente e saltate in padella con un mestolo di acqua di cottura, burro e abbondante formaggio di pecora.
la Raviora nel marzo del 2015 ha ottenuto il riconoscimento De.Co., ovvero la sua produzione è tutelata e sottoposta ad un disciplinare approvato da una Commissione creata apposta.
Agliè
È una variante dell’aiolì provenzale: si tratta di una salsa simile alla maionese, con patate ed un forte profumo di aglio, che si accompagnava alle lumache e alle patate bollitee solo più di recente, anche con bollito di gallina o parti secondarie di vitello.
Ingredienti
4 tuorli d’uovo
½ litro di olio di oliva
1 patata piccola
Aglio di Vessalico a piacere
q.b. di sale
Procedimento
Bollite la patata e schiacciatela.
Dopo che si è raffreddata aggiungete i tuorli, montateli girando con un cucchiaio di legno e versate l’olio a filo.
Ottenuta una crema soda, aggiungete l’aglio schiacciato e il sale.
Streppa e caccia là
Da sempre sono considerati un piatto maschile; in origine, infatti, venivano preparati dagli uomini in transumanza quando in totale solitudine volevano ricreare i sapori di casa.
Si presentano come una pasta condita con crema di latte, aglio e Brus.
Ingredienti
Per la pasta:
600 g di farina
q.b. di acqua e sale
q.b. verdure stagionali (patate, fagiolini, cavolo verza, rape)
Per il condimento:
2 porri
200 g di crema di latte o panna
200 g di Brus
1 spicchio di Aglio di Vessalico
q.b. di olio
q.b. di sale
q.b. di formaggio stagionato
Procedimento
Formate un impasto morbido e malleabile di acqua, farina e sale.
Portate ad ebollizione l’acqua salata, versate a tocchetti le verdure, tirate la pasta facendo ruotare le mani e strappate con le dita sottili strisce di pasta da mettere immediatamente in acqua.
Scolate dopo 5 minuti, versate il condimento conl’aggiunta di acqua di cottura per meglio legare le parti e armonizzare i sapori.
Friscio de Mei
Anche per i pastori era buona usanza concludere i pasti con un dolce, specie nei giorni di festa. Tradizionalmente sulla tavola erano solite comparire le frittelle di mele
Ingredienti:
500 g di farina
200 g di zucchero
700 g di mele
1 pizzico di sale
q.b. di latte e olio
Procedimento
Private del torsolo, sbucciate e tagliate le mele a cerchi. Preparate una pastella fluida.
Friggete in olio bollente le fette di mele passate nella pastella.
Spolverate di zucchero la frittella calda.
Gli Eventi
Festa della cucina bianca di Mendatica.
Da diversi anni è tradizione che il borgo di Mendatica, nel mese di agosto, organizzi una serata in cui, tra aie e caruggi, ospita un itinerario gastronomico alla scoperta delle malghe tipiche della transumanza.
La protagonista dell’evento è la Cucina Bianca, attraverso la quale si vuole conservare la memoria di un patrimonio che ogni anno viene riproposto attraverso un percorso itinerante dove ad ogni punto di degustazione corrisponde un piatto caratteristico preparato dalle singole famiglie del borgo.
Festa della transumanza
Ogni
anno il penultimo fine settimana di settembre viene celebrato a
Mendatica il rito della transumanza. Per secoli questa località
della valle è stata crocevia della strada della transumanza, punto
di passaggio dei pastori che a fine estate scendevano dalle terre
brigasche ai pascoli invernali della costa.
Si festeggia la
discesa dai pascoli delle greggi fino in paese, ma la giornata vuole
anche essere un momento didattico per tutte le scuole, grazie
all’organizzazione di veri e propri laboratori in cui, con
l’intervento dei pastori della zona, si mostrano tutte le fasi di
preparazione del formaggio, toma compresa.
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