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Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica

Nella Milano degli anni Settanta del Novecento, attraversata da dolorose contraddizioni, maturò e si compì il delitto di Giorgio Ambrosoli, avvocato integerrimo morto nel deciso tentativo di difendere la legalità. Corrado Stajano racconta le vicende che portarono all’omicidio in Un eroe borghese, pubblicato da Einaudi nel 1991 e mai tramontato.

In una città in cui nei decenni precedenti lo sviluppo economico aveva ampliato vistosamente il ceto medio, in cui i cortei operai non passavano inosservati, in cui la scia di sangue lasciata dai gruppi armati rendeva tutti vulnerabili, a prescindere dalla classe di appartenenza, il 24 settembre 1974 Ambrosoli, a meno di un mese dal quarantunesimo compleanno, fu equivocamente scelto dal governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, una delle numerose pedine che in modo maldestro si aggiravano nella diabolica scacchiera del faccendiere Michele Sindona.

Ambrosoli, cresciuto in una famiglia di estrazione borghese ed educato sulla base di severi principi e di una salda fede cattolica, capì subito quanto difficile e rischioso fosse il suo compito, ma andò avanti, animato da incrollabile onestà. Era «rigido, intransigente, moralista, incapace di sfumature e di ambiguità, con una durezza corretta soltanto dall’ironia» spiega tra le righe Stajano. E fra pile di documenti e sequenze di numeri l’avvocato scovò con maestria truffe e falsità. Risalì ai contatti, frequenti e intensi, che Sindona aveva con la politica, con la massoneria, con il Vaticano e con la mafia italo-americana.

Un eroe borghese

«È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese […]. A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito».
In queste parole, scritte in una lettera alla moglie Anna Lorenza Gorla e riportate da Stajano nel suo libro, è sintetizzato il pensiero che indicò la strada all’uomo e al professionista Ambrosoli.

Una strada, sempre in salita e irta di ostacoli, che solamente i grandi possono percorrere. Una strada tracciata con lezioni di elevato spessore e costellata di umanità mai scontata, quella seguita dal commissario, che oggi non dovrebbe essere dimenticata.
L’autore si affida a numerose fonti giudiziarie e parlamentari, fondamentali per comprendere le tappe che scandirono il viaggio di Ambrosoli verso la morte e il meccanismo che alimentò le trame occulte degli anni Settanta e non solo.

Allora, ma adesso non tutto è cambiato, si verificavano infatti stranezze degne del peggior mondo al contrario. E capitava che Giulio Andreotti, una delle più alte cariche dello Stato, considerasse Sindona il salvatore della lira. Capitava che un uomo retto come Ambrosoli venisse lasciato senza protezione alcuna a combattere il malaffare, mascherato da abilità finanziaria. Capitava che un uomo solo come Ambrosoli, a lungo sostenuto soltanto dall’apporto del maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, facesse emergere la complicità del sistema, solerte esecutore dei voleri di Sindona o, nella migliore delle ipotesi, sordo e cieco spettatore. Capitava che Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, rispettivamente governatore (succeduto a Carli) e vicedirettore generale della Banca d’Italia, finissero tra le maglie di una vergognosa inchiesta della Procura di Roma per togliere al commissario ogni sostegno.

Capitava che un uomo coraggioso come Ambrosoli, nonostante la ricezione di inquietanti minacce, lavorasse alacremente per chiudere un procedimento di liquidazione, riuscendoci dopo cinque anni e contribuendo in maniera determinante al riconoscimento della responsabilità civile e penale di Sindona. Capitava che un uomo capace come Ambrosoli collaborasse con la magistratura statunitense per il crack della Franklin National Bank, anch’essa controllata da Sindona, deponendo da testimone nell’ambito di una rogatoria internazionale il giorno prima della sua morte.
L’11 luglio 1979, così, i proiettili di William Joseph Arico fermarono per sempre la mente illuminata di Ambrosoli. Ad armare la mano dell’assassino era stata la mafia italiana che operava negli Stati Uniti. A volere quell’omicidio era stato Sindona, giocatore perenne che secondo Stajano affidava tutto se stesso alla prossima mano di carte.

Ai funerali dell’avvocato, il 14 luglio 1979 nella chiesa di San Vittore al Corpo a Milano, non partecipò nessuna autorità del Governo. Un’assenza, questa, che probabilmente si intendeva far apparire come mera e ingenua indifferenza, per quanto discutibile. Alla luce delle carte processuali relative al caso Sindona, invece, assume significati ancora più pesanti e si carica di negatività. Negatività che la Storia non può nascondere se si vuole vedere il domani con lo sguardo limpido di Giorgio Ambrosoli.

Michele Sindona fu condannato all’ergastolo con il trafficante di eroina Robert Venetucci, che aveva fatto da tramite tra il faccendiere e il sicario, e morì il 22 marzo 1986 dopo aver bevuto un caffè al cianuro nel carcere di Voghera. Per la magistratura di Milano fu suicidio. William Joseph Arico, arrestato in seguito a varie vicissitudini, uscì di scena il 19 febbraio 1984 durante un tentativo di evasione dal carcere di New York, precipitando da oltre quindici metri di altezza.

Il libro di Corrado Stajano rende all’eroe borghese almeno un briciolo di quella giustizia che in vita non gli fu concessa e lancia un messaggio ancora attuale: nella paventata crisi della classe media, adesso forse solamente in via di trasformazione, e nel degrado che investe a ogni livello la società non tutto si perde se c’è qualcuno disposto a lavorare per fermare l’avanzata del deserto morale.

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