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Con il termine “Autismo” si indicano oggi persone con uno sviluppo particolare nelle aree della comunicazione, dell’interazione sociale e degli interessi personali.
Fin da prima che fosse coniato il termine autismo, le persone che rientravano in un quadro clinico di questo tipo erano considerate alla stregua di quelle che presentavano dei ritardi cognitivi, e così curate. Successivamente, quando è stata identificata una netta differenza fra le due condizioni di autismo e di ritardo nello sviluppo, l’autismo è stato comunque considerato una condizione fortemente invalidante. Solo a partire da Asperger, i cui scritti sono stati presi in considerazione dieci anni dopo la sua morte avvenuta nel 1980, si è evidenziata una differenza fra le patologie gravi, sfocianti nel forte auto-isolamento e nella necessità ossessiva di mantenere rituali ripetitivi, e quelle meno gravi. Asperger definisce l’autismo come un disordine infantile a evoluzione positiva e attribuisce ai suoi pazienti capacità intellettive ottime, a volte tali da superare quelle dei normodotati.

Recentemente, soprattutto nel mondo anglosassone, sono stati pubblicati numerosi libri scritti da persone rientranti nel quadro clinico della Sindrome di Asperger in cui essi raccontano le proprie esperienze, il modo in cui vivono la loro condizione, i propri percorsi cognitivi. Così facendo si è potuto approfondire lo studio di questa particolare condizione che oggi non impedisce una vita autonoma, la possibilità di lavorare, di sposarsi e avere una vita significativa come avviene per qualsiasi persona neurotipica. È nata così la corrente dei disability studies che ha portato anche a delle teorie identitarie, come quella della sociologa Judy Singer che, nel 1999, attribuì agli asperger, o aspies, una diversità neurologica, coniando il termine di neurodiversità. Secondo queste teorie gli autistici non dovrebbero subire nessuna terapia, considerata un abuso, in quanto dotati di un diverso apparato neuronale rispetto ai neurotipici.

Questi studi hanno messo in luce che l’autismo rientrante nella Sindrome di Asperger non può definirsi come una disabilità, bensì come una diversità, una struttura neuronale differente che si esprime con operazioni cognitive diverse.
Gli studi sulla disabilità portano a ripensare i rapporti con le persone che alcuni testi recentemente pubblicati definiscono “aspies”: spesso le loro caratteristiche determinano forti incomprensioni sia in ambito familiare sia fuori dalla famiglia, nel percorso scolastico e poi lavorativo. Esse son dovute a una scarsa conoscenza delle strutture mentali reciproche che sfocia irrimediabilmente in una altrettanto scarsa comprensione dei comportamenti.
Secondo Simon Baron-Cohen le persone dello spettro autistico sono dei “sistematizzatori” naturali, e devono apprendere in maniera scientifica quelle che i neurotipici chiamano abilità sociali e relazionali, di cui i neurotipici, che Baron-Cohen chiama “empatizzatori”, sono, invece, naturalmente dotati.
Una persona con la Sindrome di Asperger troverà interessanti cose diverse su cui focalizzerà un’attenzione che le persone neurotipiche definiranno “ossessiva”.
È bene essere consapevoli di queste differenze poiché le incomprensioni provocano situazioni di forte frustrazione sfocianti in ansia, rabbia e depressione.
Per trovare un equilibrio è necessario capire, cercare di dare una risposta coerente a ciò che a prima vista appare come un comportamento inspiegabile.
Oggi il modo di concepire l’autismo è cambiato e piano piano, attraverso associazioni e la letteratura sull’argomento, la società sta assorbendo questo mutamento. Nel 2004 è nato il movimento Aspies for freedom che sostiene che l’autismo e la sindrome di Asperger non sono negativi e non sono sempre una disabilità. Il termine “Aspies” è stato coniato da Liane Holliday Willey che così definisce se stessa nel libro “Pretending to be normal” del 1999.

Ecco cosa dice a proposito Flavia Caretto, presidente dell’Associazione CulturAutismo e autrice di diverse pubblicazioni sulla disabilità in generale e sull’autismo:

L’autismo non è una “malattia”, o almeno non lo è “necessariamente”, poiché non sempre le persone con autismo presentano dei “sintomi clinicamente significativi”. A volte, hanno solo un modo di pensare e di vedere il mondo diverso da quello della maggioranza.

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