
La casa, quel “dentro e fuori” che nutre la vita. Quand’ero bambino…
La luce del display si accende, invio un messaggio, “Hai una città incantata? Quella dei desideri, dimmi, ce l’hai?
“La città dei miei sogni ha un parco dove le piante crescono rigogliose, vi sono poche persone, e tutte amano il mare che bagna le rive delle propaggini meridionali. Il sole splende per trecento giorni all’anno, i palazzi sono bassi e colorati, i balconi fioriti, e le feste patronali sono la gioia di bimbi e mamme. Ho vissuto lì fino ai quattro anni, al borgo Sant’Elia”. Nicola Leschio, nasce nel 1958 a Cagliari, viene battezzato nella chiesa del borgo, un rione di Cagliari, e intorno ai cinque anni si trasferisce con la sua famiglia nel quartiere la Palma, ma continua a frequentare gli amici e cugini che risiedevano lì, fino all’adolescenza. Dipendente in pensione del Ministero della Difesa, oggi si occupa di counseling.
“Profumi, colori…anni indimenticabili”. Inizia così il suo racconto. La costa, battuta dai venti di libeccio, poteva essere inondata da forti mareggiate, ma vi era una massicciata che proteggeva la banchina e consentiva di sostare lì, camminare, giocare, e contemplare il mare con i suoi umori, il luccichìo del sole, la luna, le barche. Tante, perlopiù chiatte, ben legate ai pali poco distanti, is ciusu, su cui venivano depositate le nasse o le reti, e insieme a loro c’era anche un’alga dal profumo intenso che cresceva lì. Gli anziani la chiamavano su caulazu. “Forse perché assomiglia alla foglia del cavolo”. L’alga sboccia sulla roccia calcarea del promontorio Sant’Elia. “Aveva un profumo talmente intenso e piacevole, che quando torno lì, a seconda delle condizioni di temperatura o vento, lo sento di nuovo”.
All’avventura. C’era un guscio di noce, e un’apertura nella banchina, come non cedere all’impulso di oltrepassare il pertugio e lasciare scivolare quel guscio tra i flutti? Un super lancio per andare lontano, lontano. Pericoloso? Sì. Poi c’era il portale del Lazzaretto che, essendo buio, incuteva paura e curiosità. Ma, una volta superato, la luce abbagliante del sole che investiva lo spazio centrale e aperto dell’edificio di forma quadrangolare, suscitava subito un certo sollievo e poi c’erano tanti bambini con cui giocare. Le famiglie, numerose, convivevano nell’edificio in spazi piccoli, senza privacy. “Era un grande open space. Dei separé, piuttosto fatiscenti, demarcavano i confini familiari”. Il pavimento del cortile era fatto di ciottoli, un tappeto di pietre lisce, qualche bambino ci camminava a piedi nudi e si feriva. Nello spazio centrale, inoltre, vi era un pozzo e una piccola chiesetta, “Simile a un’edicola”. Si respirava anche un’aria di mistero, perché nell’edificio, oltretutto, vi erano passaggi e sottopassaggi: a sinistra dell’ingresso, per esempio, sotto la rampa di scale che conduceva al primo piano, vi era un vecchio cancello color ruggine, sempre chiuso… Un altro portale, invece, conduceva al mare, preceduto da uno spazio antistante, dal pavimento bianco, che rifletteva una luce quasi accecante. Infine, i profumi del mare, del pescato, e del bucato steso che sventolava appeso ai fili, tenuti insieme da quattro bastoni che delimitavano il cortile. Le suggestioni erano tante.
E come non restare incantati davanti ai venditori di noccioline che sostavano davanti al portale d’ingresso, o al tabacchino, alla latteria e al bar, dove gli adulti giocavano a carte. “Il gestore del bar, era un signore simpatico che mi regalava sempre le caramelle”. Le immagini scorrono in un gioco di contrasti che non cessano mai di sorprendere: l’acqua del mare e l’acqua potabile che sgorgava generosa dal rubinetto pubblico proprio davanti allo stabile dove le famiglie che vi alloggiavano, si recavano per riempire le bacinelle di metallo. Il silenzio della notte, cullato dal rumore del mare, s’accompagnava al frastuono del mattino, al vociare dei bambini, ai rumori del quotidiano.
Ma che cos’era stato il Lazzaretto? Un ricovero per donne, uomini, merci e animali che dovevano passare la quarantena (dal 1600 al 1800), in quanto provenienti da paesi in cui erano diffuse epidemie di malattie contagiose come la peste. Fu chiuso, alla fine dell’Ottocento, con l’avvento delle nuove tecniche di profilassi medica. È nel secondo dopoguerra che si aprì a nuove voci, fu occupato dagli sfollati provenienti dalle vicine grotte di Bonaria, e dalle famiglie che diedero vita al primo nucleo del quartiere Sant’Elia. Oggi è dunque un edificio monumentale. Si affaccia sul mare e sorge ai piedi della collina di Sant’Elia. Ha mantenuto la struttura originaria, un portico (il secondo, quello che conduceva al mare, non c’è più), due piani e uno spazio centrale, di forma quadrangolare. Oggi è un centro polivalente d’incontro tra cultura e attività sociali.
Dove giocavi? Sulla strada sterrata davanti a casa, nel cortile del Lazzaretto, e negli spazi aperti che oggi sono occupati dai palazzi. Vi era anche un grande muro, che chiamavano muraglia, trafficato da camion e autocarri che nei bambini suscitavano un certo timore.

Oggetti, immagini, sensazioni ed emozioni impresse nella memoria. Le bacinelle di metallo colme d’acqua, il portico buio, l’ampia terrazza che si affacciava sul mare, i bambini che camminavano sulla barandiglia (era chiamata così), del primo piano,una sorta di balcone con ringhiera e pavimento di metallo, larga circa un metro, su cui i bambini, scrutando dentro i fori dei tubi degli scarichi pluviali, potevano vedere che cosa vi fosse sotto, e respirare il brivido del vuoto, la vertigine. E poi le nasse, cumuli e cumuli, i volti abbronzati dei pescatori, soggetto e cornice di un luogo in cui vivevano in simbiosi perfetta.
Il borgo era un cuore palpitante di vita, “Allegria, nonostante le difficoltà quotidiane, rispetto e solidarietà sociale”.
Il racconto di Nicola è dunque un viaggio nella memoria quasi palpabile, in cui il protagonista principale è il mare che non si smette mai di contemplare, insieme a un pot-pourri di profumi e colori dal respiro indimenticabile. “Sul monte, dal castello di Sant’Ignazio, si gode di un panorama straordinario, e mi ricordo che sulla strada per arrivare alla sommità si trovavano gli iris che crescevano in quantità enormi”. Infine, le luci del faro che illuminava il sentiero verso la banchina nelle notti d’estate.
La vita nel vecchio borgo era meno incerta di quanto si pensasse. “Anche se sembrava che vi fosse disordine, poi in realtà filava tutto liscio”. Quando la rete del pescato non reggeva, a riparare le maglie pensavano i vicini di casa, la Chiesa.
Il borgo col tempo ha cambiato volto. Non vi sono più quegli spazi aperti dove si giocava a rincorrersi e a pallone. Al loro posto sono subentrati dei grandi palazzi e Nicola, pur riconoscendo le esigenze abitative dei tanti che lì trovano casa, prova un po’ di nostalgia.
Ripeto la domanda: “E’ sempre lei la città dei tuoi sogni?
“Sì, è sempre Cagliari. Il quartiere Sant’Elia è ancora oggi la zona che mi piace di più. Nel vecchio borgo c’è tutto, il mare, la montagna, la campagna, il profumo del sale e della collina dove ancora crescono gli iris”.