Sangue, il film di Delbono
Share

E’ forse una coincidenza che a qualche giorno dalla presentazione del film Sangue di Pippo Delbono al Festival del Film di Locarno 2013, l’ospite d’onore Werner Herzog, durante la sua Master Class, parli del rispetto nei confronti della morte.
Come già Grazia Paganelli citava nel Castoro “Segni di vita. Werner Herzog e il cinema”: “Esiste un confine che non deve essere varcato e il confine è costituito dalla privacy e dalla dignità della morte di un individuo“.
Già ne parlava Andrè Bazin, grande critico e storico del cinema, quando nel suo saggio “Morte ogni pomeriggio” (del 1949) dichiarava che “l’amore, come la morte, si vive e non si rappresenta…o almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura” concludendo che “questa violazione si chiama oscenità” e quindi “la rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica”.

Non è questo il caso della discutissima opera di Delbono che di metafisico ha davvero poco.
Apprezzabile l’utilizzo di uno strumento come un videofonino per realizzare gran parte del film – sebbene – ci tiene a ricordare il regista – questa prassi non costituisce un dogma.
Sembra funzionale difatti alla resa di un diario molto personale, che filma il lento spegnersi di una madre malata fino a violarne la dignità della morte.
Ma non solo. Pippo elabora connessioni azzardate, talvolta ridicole, innestando al suo personale dramma familiare l’altrettanto triste vicenda che coglie vittima Giovanni Senzani, ex brigatista, giustiziere di Roberto Peci nel 1981.
La morte di Anna, moglie di Senzani, quasi coincidente con quella di Margherita, la madre di Pippo, sembra voler generare un collegamento emotivo, un ponte tra due realtà differenti riunite in un unico dramma.

Due uomini ormai soli che condividono la propria esperienza di amore e morte, e di violenza: Senzani racconta con spiazzante freddezza l’esecuzione di Peci, l’orrore della morte; Delbono mostra le macerie della città L’Aquila, sepolta viva, osando un evitabile (ridicolo?) parallelismo con la bandiera dell’Albania, stato in cui, nel corso dei 92 minuti del film, si reca per procurare alla madre morente il veleno dello scorpione blu.
Delbono istiga alle armi, richiama la violenza della rivolta camminando tra le rovine di una città morta, forse metafora di un Paese, del suo film.

Ma ciò che corrode di Sangue, non risiede attorno alla figura dell’ex brigatista (ove tra l’altro vi son annidiate fiumi di polemiche politicizzanti), ma nella sensazione di superfluo, di non necessario che più volte si percepisce nel corso del film.
Delbono cerca la condivisione dell’esperienza, che non è mia né tua, ma vuole diventare universale.
Subito dopo la chiusura della bara della madre Pippo esclama: “Questa non è più mia madre. E’ La Madre”.
Tuttavia questo nobile tentativo risulta vano, schiacciato dalla propria autoreferenzialità, dall’egocentrismo disturbante.

Il dramma della morte, perennemente traslato dall’iniziale funerale di Prospero Gallinari a sé stesso, da Senzani per arrivare fino all’Aquila passando attraverso l’evocazione di una vecchia ideologia ormai avvilita (le immagini del Che), genera sì un conduttore di senso ma che non riesce – paradossalmente – a rendersi politico, universale.
L’invadente egocentrismo del regista deflagra in un fastidioso autoritratto che lo coglie in primo piano nell’abitacolo di un automobile e – per non mancare di clichè – alla guida, con le sue lacrime di dolore: la ricerca dell’inquadratura, che lo porta più volta a distogliere lo sguardo dalla strada per indirizzare correttamente la videocamera sul volto piangente, dissolve irrimediabilmente l’ultima possibilità di espressione di pathos.
Quel cellulare così sfacciatamente violento sul volto ormai pallido della Madre non trova consenso, ma solo distacco.

Sangue è forse un film dalle nobili intenzioni, che travalicano – senza dubbio alcuno – la desunta redenzione del personaggio di Senzani: Delbono vuole un film che parli della vita, della morte, dell’amore, della violenza, in maniera intima ma spontanea; le vicende che lo costellano non vorrebbero essere meri pretesti, ma elementi tra loro consanguinei, con una forte pretesa di universalità.
Tuttavia, Sangue non riesce a superare quel varco, il labile confine oltre il quale l’opera si compie e la collettività è chiamata alla partecipazione e condivisione intima del senso.
L’universale decade sotto il peso di un dramma egoico – seppur plurimo – che non viene sorretto nemmeno dalla poeticità o dalla bellezza.

Leave a comment.