Simbolo della pace
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Chi può fermare l’ipocrita industria delle armi e questa realtà, ancora intessuta di bombe e di sangue? L’umana coscienza o un sogno? E il sogno equivale a nessuno o alla certezza che possiamo essere migliori di quello che siamo?

Il tempo corre veloce e dieci anni per la storia non sono che un battito d’ali. Di conseguenza ora risulta difficile immaginare che all’uomo sia sufficiente un solo decennio per ritrovare l’originaria razionalità, ma è fondamentale credere che in questo caso la speranza non sia utopia o che nell’immediato futuro sia almeno possibile gettare le basi di una società senza guerre perché Albert Einstein aveva ragione: se ci saranno altri conflitti mondiali, il terzo ci porterà al giorno zero e il quarto si combatterà con le clave e con le pietre.

E allora lasciatemi pensare a un domani di armonia tra le genti perché io vorrei che dappertutto ognuno potesse stringere la mano al proprio fratello senza sospetti e senza timore, senza badare a veli e a religioni. Vorrei che dopo il tracollo dell’apartheid in Sudafrica le barriere crollassero davvero anche nel resto del pianeta e che il colore della pelle non fosse più una discriminante. Vorrei che la diversità di cultura fosse una ricchezza e che rappresentasse il volano per opportunità di confronto sempre nuove e non il pretesto per erigere traballanti baluardi di ignoranza. Vorrei che non ci fossero più ingannevoli missioni di pace perché è corretto chiamare ogni cosa con il proprio nome, anche quando ci si autoconvince che sia concepibile esportare democrazia e si nega il fascino squallido dell’oro nero. Vorrei che non si violasse più l’articolo 11 della nostra Costituzione e che effettivamente l’Italia ripudiasse la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Vorrei che non ci fossero più dittatori da rovesciare e rivoluzioni da innescare perché se nel 1762 Jean Jacques Rousseau scriveva nel suo illuminato Contratto sociale che l’uomo, pur nascendo libero, è ovunque in catene, oggi la birmana Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace e icona mondiale della non violenza, dimostra che l’oppressione non è per sempre e che tutto è in divenire. Vorrei che ai trecentomila minori con un’arma in pugno, ai quali in una ventina di paesi sono sottratte l’infanzia e l’adolescenza, fosse restituita la dignità e la gioia dei sorrisi. Vorrei che non fosse più messo in discussione il rispetto per la vita, in ogni sua forma, e che si rinunciasse definitivamente al nucleare perché a Hiroshima, a Nagasaki, a Chernobyl e a Fukushima il progresso si è fermato. Vorrei che il Mediterraneo si attraversasse per piacere e non per necessità e che nessuno fosse più costretto a scappare dalla propria terra e a inseguire per mare la speranza della sopravvivenza. Vorrei che nelle scuole, per evitare gli errori del passato, la storia fosse insegnata seriamente. Vorrei che si imparasse a guardare negli occhi chi suo malgrado ha partecipato a un conflitto e che in quegli occhi si imparasse a leggere.

Adesso possiamo ancora ascoltare le testimonianze degli ultimissimi reduci della seconda guerra mondiale, ma tra un decennio queste persone non ci saranno più. Facciamo in modo, quindi, che il loro sacrificio non sia dimenticato e impegniamoci affinché i loro racconti restino per sempre patrimonio dell’umanità perché negli anni Quaranta del secolo scorso internet non esisteva e la gloria, la condanna e la pura narrazione delle loro gesta o dei loro misfatti erano affidate principalmente alla voce. Niente si poteva paragonare a twitter e a facebook, il grido di dolore del civile moriva là dove nasceva e il soldato per non arrendersi doveva confidare solo sulla propria tenacia o, nella migliore delle ipotesi, su quella del compagno accanto. La mancanza di comunicazione spezzava i reparti militari e decideva la sorte di molte battaglie. Nei nostri giorni, invece, il coraggio di resistere e la voglia di cambiare le cose spesso attecchiscono proprio in rete e dalla rete traggono forza, dimostrando che lo strumento può avere un’utilità sociale. Le recenti e drammatiche vicende dell’Egitto e della Tunisia ne sono l’esempio più eclatante.
Vorrei che in quella piazza planetaria, nella quale tutti indistintamente saremo sempre più catapultati, si producesse cultura e si diffondessero i valori veri dell’esistenza. Vorrei che anche da lì si irradiassero in ogni dove i colori dell’arcobaleno.

Vorrei… perché ciascuno di noi, qualunque sia il Dio verso il quale volge lo sguardo, risponde a una logica. E la logica dovrebbe bastare per condurre gradatamente alla quiete. Se così non fosse, coloro che decidono a tavolino le sorti del mondo potrebbero trarre spunto da quanto nel 1795 Immanuel Kant affermava nel suo ottimistico trattato Per la pace perpetua: il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, si supera grazie allo Stato. Ai politici, dunque, il filosofo tedesco attribuiva una responsabilità morale tanto semplice quanto gravosa: istituire la pace.

Intanto il 2011 sta finendo e il 2012 è alle porte, la primavera araba ha lasciato un segno indelebile nella storia, un’eredità pesante da gestire in chi l’ha vissuta ed equilibri ancora troppo precari nei paesi che ha interessato. Una cosa, però, è certa: l’aspirazione alla libertà è ormai profondamente radicata e tra dieci anni sarà irrefrenabile.

1 thought on “Oggi la guerra, domani la pace

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