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La festa delle luci, è così che mi piace pensare al natale. Ho un abete in salone che profuma di bosco, un piccolo presepe artigianale che più che simbolo cristiano è ricordo della famiglia e piccoli pensierini incartati pazientemente, profumati di vaniglia e cannella che scintillano sotto l’andare e il tornare dei lumicini intermittenti. Poco importa che il sole tramonti presto: è Natale, la mia casa è un incendio di luci anche di notte.

Che poi pensi che quella dell’albero di natale sia una trovata moderna e invece scopri che no, le cose non stanno esattamente così. Nei bianchissimi paesi nordici (ma non solo) c’era una volta l’abete solstiziale. I popoli germanici lo utilizzavano per segnare il passaggio dall’autunno all’inverno, ma poi prese piede un’abitudine piuttosto luminosa: di bruciare l’albero per propiziare il ritorno della luce e del sole. La scelta cadde sull’abete non solamente perché ce ne dovevano essere in abbondanza, ma anche e soprattutto per via del fatto che era un sempre verde, un immortale, un albero che più di altri poteva essere augurio per un futuro florido e abbondante. Tu non ci crederai ma il ceppo natalizio lo avevamo anche noi, nella piccola Sardegna che anche a natale è d’oro e di sole. Si chiamava su troncu de xena, o sa cotzina de xena e veniva accesa la notte di natale. Era importante che rimanesse acceso per tutto il periodo di festa: illuminava e scaldava tutta la famiglia, forse invogliava pure il sole a tornare intenso ed estivo come piace a noi sull’isola.

Era intorno a sa cotzina de xena che la festa aveva inizio e fine. D’accordo, la vigilia forse non era un momento di abbondanza come è oggi, ma si festeggiava comunque.

Mi è stato tanto a lungo raccontato di bellissime serate davanti a su barrallicu che non ho potuto fare a meno di procurarmene uno. Lo conosci? Si tratta di una trottola dotata di quattro facce. Su ciascuna è incisa una lettera. Falla girare. Se ti capita una bella T puoi prendere tottu, se ti capita una M ti spetta mesu o mitadi, nel caso ti capiti una N mi dispiace ma ti toccara nudda, e peggio ancora se ti capita una P: non solo non prendi niente ma sei obbligato a ponni (mettere). Il piatto ovviamente lo si decide in base alle possibilità. Mio padre giocava con la frutta secca e mi racconta di serate piuttosto divertenti.

Chi preferiva rimanere davanti al fuoco a raccontare qualche storiella: spesso si spolverava per l’occasione quella di Maria Puntaborru nota anche come la Palpaeccia. Si trattava di donnine poco confortanti che gironzolavano la notte di Natale alla ricerca dei più piccoli con la pancia vuota. L’una li avrebbe infilzati con lo spiedo, l’altra avrebbe posto sul pancino una pesante pietra. Non c’è dubbio che si tratti di una variante della leggenda piuttosto recente: i capricci alimentari dei più piccoli d’altronde sono cosa moderna.

Che si giocasse a barralliccu o che si raccontasse qualche storia davanti al fuoco a mezzanotte si doveva essere tutti in chiesa ad ascoltare quella che in buona parte dell’isola era detta sa missa e pudda, la messa del primo canto del gallo.

A sentir le storie che si raccontano, pare che questa messa avesse uno squisito potere esorcizzante. Le donne in attesa di un bambino non potevano mancare a sa missa e pudda: nel caso in cui avessero in grembo un bambino deforme questo sarebbe sanato, quelle che invece sceglievano di non andare in chiesa probabilmente avrebbero partorito un bimbo deforme. Tutto qui? No di certo. La messa doveva essere decisamente particolare: le autorità ecclesiastiche si lamentarono spesso di chicchiericcio fra i banchi, gusci di noci volanti lanciati dai ragazzi alle ragazze per attirarne l’attenzione ma pure si lamentavano degli spari all’interno della chiesa, che sì dovevano essere un pelino fastidiosi.

Chi invece nasceva durante la notte di natale era un essere fortunato, e se non fortunato per lo meno fantastico. La notte di natale a mezzanotte nascevano le streghe, quelle che in campidano erano dette kogas, la nascita di un bambino nel vicinato la notte di natale avrebbe salvaguardato almeno sette case da disgrazie nell’anno seguente, chi nasceva la notte di natale non poteva perdere né i denti né i capelli e si riteneva che chi nascidi sa nott’è xena non purdiada asut’è terra[1].

Una notte magica, in grado di esorcizzare il male e di propiziare un futuro abbondante: quel che contava era trascorrerla in famiglia, davanti ad un ceppo che ardeva e a pancia piena, che solo così Maria Puntaborru non sarebbe passata a far visita alla famiglia.

Bona Paschixedda.

[1] Chi nasce la notte di natale non può marcire sotto terra.

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