Mobbing
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E’ sempre più evidente che, nell’epoca della Contemporaneità, che ha già ‘sorpassato’ quella post-moderna, descritta sul finire degli anni ’70 del secolo scorso dal filosofo francese Jean-François Lyotard nella sua opera “La Condition postmoderne: rapport sur le savoir” (1979), si siano andati imponendo ‘modelli’ industriali, sociali, politici, che non tengano più in conto la soggettività, l’individuo tout-court, ma soprattutto, il valore d’uso/di scambio di ogni singola persona, però, in un ‘abito’ spesso pervertito, quasi di ‘feticcio’ (come Marx aveva già a dire nel Libro I del ‘Capitale’, nel 1° capitolo 4° paragrafo “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano’), che tenderebbe a svilire il vero valore effettivo del lavoro e del soggetto che vi sarebbe implicato.

A tal proposito, ciò che sembrerebbe essere stato ‘partorito’ da tale atteggiamento, rispetto alle attività lavorative, sia in aziende private che in quelle pubbliche, sono dei particolari comportamenti che verrebbero messi in atto, verso un determinato soggetto lavoratore, sia in modalità ‘verticale’ (ossia, da un altro soggetto avente mansioni in organico superiori a colui che è in questione), sia in modalità ‘orizzontale’ (ossia, da uno o più individui che sarebbero nella stessa condizione del soggetto in questione, ma che, per una sorta di ‘pervertimento’ sociale, agirebbero verso questi in maniera subdolamente aggressiva).
Inoltre, sarebbe sempre più presente, in molti luoghi di lavoro, un atteggiamento divenuto quasi una ‘sindrome’ che avrebbe a che fare con una diminuita o assente partecipazione emotiva nel proprio lavoro, che si ‘risolverebbe’ spesso in una duplice sensazione di frustrazione/aggressività verso altri colleghi di lavoro, ritenuti quasi dei ‘nemici’ dal soggetto che attraverserebbe questa dimensione ‘dolorosa’.

Per la prima situazione di ‘aggressione’ lavorativa soggettiva, si parla di ‘mobbing’, mentre per la situazione stressante performativa, si parla invece di ‘burnout’.
Per quanto riguarda la prima questione, esistono, in tal senso, numerose e significative ricerche: il mobbing, che analizzano le violenze nei posti di lavoro, ossia tutto ciò che avrebbe a che fare con un comportamento, da parte di qualcuno, mediante parole offensive, gesti intenzionali, atti ‘diversi’ verso un altro soggetto, nel tentativo (purtroppo, spesso, riuscito) di apportare una serie di offese a questi, a vario titolo (personalità, fisicità, o dignità personale).

Il termine letteralmente indica l’assalto di un gruppo ad un individuo. Deriva dal latino “mobile vulgus” che indica il “movimento della gentaglia”, e dall’inglese “to mob” ossia “aggredire violentemente”.
Questi ‘attacchi’ verso una persona (che, prevalentemente, possono avere un carattere sessuale, ed in second’ordine, relativo al potere che può esprimere un individuo nelle sue funzioni professionali), possono essere in grado di creare seri problemi ai soggetti in stato di vessazione, facendo diminuire la loro produttività all’interno dell’azienda in cui prestano servizio, e agendo da fattori detrimenti per quanto riguarda l’atmosfera nella quale essi si muovono.

Quanto accade, in maniera significativa, è stato definito con un termine che viene condiviso dall’etologia, che starebbe ad indicare il comportamento aggressivo attuato da alcune specie di uccelli nei confronti dei contendenti intenzionati ad invadere il loro nido, dove quest’ultimi vengono accerchiati, spaventati, feriti, respinti. Altrettanto, nel mondo degli uomini, con modalità forse ancora più aggressive, nell’ambito lavorativo, un lavoratore può venire isolato, sabotato, deriso, sminuito, reso inutile sbeffeggiato, messo quasi in condizione di vergognarsi per ‘qualcosa’ della quale non ha nessuna colpa. Di conseguenza, diventerebbe così , il “capro espiatorio” (e, a tal proposito, per comprendere meglio questa dinamica, che risale fino alla Bibbia, e precisamente nel ‘Levitico’, sarebbe interessante confrontarsi con l’opera dell’antropologo francese Renè Girard che in una delle sue opere più famose, “Il capro espiatorio” (1982, 1987 Adelphi), ne descrive finemente l’intero processo, delineando anche quelli che sarebbero, in massima parte, i meccanismi della persecuzione e dei soggetti perseguitati, che, secondo l’antropologo, tenderebbero a ‘polarizzare’ un certo atteggiamento aggressivo verso di loro), e comincerebbe così ad avvertire un determinato disagio, a porre in discussione il proprio valore, ad avere un sentimento di insicurezza, che si paleserebbe con sintomi quali ansia generalizzata, stati depressivi o aggressività latente (anche autodiretta), con una pletora di sintomi rilevabili anche fisiologicamente.

Il soggetto in questione potrebbe anche tendere a “perdere le staffe”, lasciando così che una determinata situazione conflittuale degeneri, venendosi così a creare quella che è la situazione ‘principe’ di un azione perversa, ossia l’impossibilità reale di stabilire chi sia la vittima e chi il carnefice.

Verso tali conclusioni si esprimono le posizioni di Harald Ege, psicologo del lavoro, specialista in relazioni industriali, e dallo psicologo/psichiatra tedesco (ma naturalizzato svedese) Heinz Leymann, per il quale si potrebbero distinguere tre forme di comportamento ‘mobbizzante’:
1) Un gruppo di azioni verte sulla comunicazione con la persona attaccata;
2) Un altro gruppo di comportamenti punta sulla reputazione della persona attaccata, utilizzando strategie per distruggerla;
3) Le azioni del terzo gruppo tenderebbero a manipolare la prestazione della persona per punirla (Andrebbe anche chiarito che non sempre il comportamento di un dato gruppo, si può considerare come la ‘somma’ dei comportamenti dei soggetti che vi apparterrebbero; cfr M.F. Hirigoyen, “Molestie morali” (1998, 2000 Einaudi)).
Ecco che la prima reazione che nel soggetto mobbizzato tenderebbe ad elicitarsi, sarebbe quella di autocolpevolizzarsi.

Il soggetto oggetto di mobbing continuerà, molto probabilmente, a chiedersi in che cosa abbia sbagliato nel semplice svolgimento delle sue mansioni o nelle relazioni con i propri colleghi, tendendo a rintracciare in se stesso la motivazione di quanto sta accadendo. Successivamente, si rischia uno stato di ‘spersonalizzazione’ (tipica anche di alcune ‘pratiche’ perverse), ossia uno stadio transitorio nel quale la persona non riconosce più se stessa, quasi come se gli ‘sfuggisse’ la propria identità, non adeguandosi ad un reale ‘principio di realtà’.

Da tale situazione, starebbero proliferando sempre maggiormente le c.d. “cause di servizio”, che, in un certo senso, avrebbero portato un ‘contributo’ ad una migliore classificazione delle varie ‘forme’ in cui il mobbing si presenterebbe:
1) Mobbing ‘verticale’: la violenza psicologica viene posta in essere nei confronti della vittima da un superiore.
Nella terminologia anglosassone questa forma viene anche definita “bossing” (quando è l’azienda che agisce nei confronti dei dipendenti scomodi con l’intento di riduzione degli organici) o “bullyng” (quando i comportamenti vessatori sono messi in atto da un solo soggetto in posizione di superiore). Il mobbing verticale sembrerebbe essere, per esempio, il più diffuso nel nostro paese;
2) Mobbing ‘orizzontale’: l’azione discriminatoria è messa in atto dai colleghi del soggetto colpito;
3) Mobbing individuale: quando l’oggetto è il singolo lavoratore;
4) Mobbing collettivo: quando ad essere colpiti sono gruppi di lavoratori;
5) Mobbing dal basso sia individuale che collettivo: quando viene messa in discussione l’autorità di un superiore.

Gli atteggiamenti ‘mobbizzanti’ sono molto vari, e pur essendo passibili di incompletezza, se ne espongono alcuni:
a) Impedimento al lavoratore di esprimersi liberamente;
b) Isolare un individuo, bloccandogli il flusso di informazioni necessarie al lavoro, estrometterlo dalle decisioni, impedire che altri gli rivolgano la parola, negare la sua presenza, etc.;
c) ‘Aggredire’ la reputazione del lavoratore con il ricorso ad umiliazioni, ridicolizzazioni, calunnie, derisioni verso le sue convinzioni morali, religiose o altro, screditando si lui e che il suo nucleo famigliare;
d) Fargli diminuire la considerazione di sé privandolo dei c.d. ‘status symbols’, simulando errori professionali, attribuendogli incarichi inferiori o superiori alle sue competenze, criticando continuamente le sue prestazioni, etc.;
e) Mettere a rischio il suo stato di salute anche, con l’attribuzione di turni massacranti o mediante il diniego di periodi di ferie o di congedo;
f) Cambiare le sue di mansioni;
g) Tentativi e/o minacce di violenza.

Resta così molto aperto questo campo anche di intervento psicosociale, che porterebbe, nei casi più problematici, a far sì che si palesi l’intervento specialistico (psicoterapeuta, psichiatra), per permettere al soggetto in questione di ‘elaborare’ quelle che si mostrerebbero come ‘ferire narcisistiche’, affrontandole, da parte del terapeuta, con la giusta e dovuta ‘neutralità’ seppur non eccessiva, nonché con un adeguato supporto emotivo/cognitivo, che garantisca all’individuo ‘mobbizzato’ di ripristinare un adeguato ‘esame di realtà’, e di recuperare lo status di dignità di soggetto realmente responsabile del suo operato.

Un secondo problema, riscontrabile all’interno di un’azienda o di un qualsiasi luogo di lavoro, che può riguardare sia i quadri manageriali che i dipendenti, è quello del “Burn-out”.
La scelta di un lavoro che piace, che si è desiderati magari a lungo, darebbe la possibilità di “giocare” per tutta la vita, ma a volte tale “gioco” coinvolge a tal punto da corrodere, da bruciare (ingl. to burn), colui che vi è implicato. Ciò, più che mai, può accadere, quando il ‘transfert’ che viene dall’altro, con cui nel lavoro ci si relaziona, può evidenziare un malessere, una sofferenza, un disagio, o altre problematiche cocenti. Paradossalmente, più si fa del lavoro un impegno totalizzante su cui spendere ogni energia (cfr. il fenomeno dei c.d. ‘work-aholics’), un banco di prova sul quale imperniare il ‘senso’ della propria vita, del proprio valore, più si è esposti alla possibilità di ‘bruciarsi’.
La sindrome di burnout, con il suo termine, nasce nella letteratura specifica, nel 1974, ad opera dello psicoanalista americano Herbert J. Freudenberger, riferendosi a quella messe di donne/uomini, molto dinamici e risoluti, che nell’impegnarsi molto a fondo nelle cose che fanno, si lasciano coinvolgere così intensamente (perfino nelle cose intime), da non saper/poter riuscire ad uscirne più.

Quindi, correrebbero il rischio di burnout tutti quei soggetti che, autonomamente, si creino le condizioni per addivenire ad un ‘surplus’ di stress, non sapendo mai dire un ‘No’ alle situazioni, finendo così per ‘incendiarsi’.
Sono state anche poste delle differenze, rispetto a tale ‘sintomo’: per esempio, un altro psicoanalista, Harvey J. Fisher, ha proposto una distinzione tra burnout e ‘wearout’ (ossia, logoramento), mentre, più recentemente, è stata introdotta un’altra categoria, quella dei ‘rustout’ (arrostiti), che starebbe ad indicare, in senso negativo, quesi soggetti che, per arrivare ad essere considerati maggiormente, ‘posano’ come vittime dello stress, pur se ciò non sarebbe in stretta conseguenza con realtà pesanti e/o di alta responsabilità.

Esisterebbero alcuni tratti salienti da poter essere considerati come ‘indicatori’ di coloro che rischierebbero di ‘inciampare’ in tale sindrome:
a) Soggetti molto attivi;
b) Tendenti ad uno stato depressogeno, facili alla demoralizzazione;
c) Tendenti ad una certa instabilità interiore;
d) Poco inclini ad un rapporto sereno con l’ambiente circostante.
Inoltre, altri possibili ‘segni’ pro-diagnostici, potrebbero essere:
1) Un aumento impegno verso taluni obiettivi;
2) Una sensazione di stanchezza, sempre più presente, con alcuni correlati fisiologici (mancanza di sonno e/o di appetito);
3) Un certo abbassamento della prontezza cognitiva;
4) Una tendenza crescente alla demotivazione, che si può conclamare in una incapacità di iniziativa;
5) Una possibile ‘resistenza’ al cambiamento, con un pensiero che si paleserebbe come eccessivamente rigido.
La questione maggiore è che, spesso, può capitare ad un soggetto di non avere consapevolezza, o non di non aver effettuato una “esplorazione” di quanto al fondo possa motivare, e ci si può ritrovare in un’angosciante insignificanza, sentendosi attanagliati dalla tediosa ripetitività del quotidiano, e cercare varie “compensazioni” (alcool, droga, sesso promiscuo) che possano inficiare un’adeguata ‘entrata’ nel Simbolico.
Ne conseguirebbero una diminuita socializzazione, un impegno lavorativo decrescente o agito senza partecipazione, un esagerato scetticismo nei confronti di ogni forma di progetto (lavorativo o di vita), una subitanea disponibilità alla critica negativa di ciò che gli altri hanno fatto, fanno e faranno.

Da alcuni recenti ricerche, nel campo psicosociale, si è stabilito che la sindrome del burn-out, se trascurata, può trasformarsi in un disagio psichico a tutti gli effetti.
Come accennato sopra, tale sindrome parrebbe uno degli ‘effetti’ della richiesta di competitività così marcata nella Contemporaneità, laddove, per molti soggetti, la spinta ad un successo professionale sempre più crescente, diventa l’unico ‘target’ da convalidare, altrimenti, ci si sentirebbe come individui falliti.
Si dovrebbe così, una volta evidenziato questo “status” di cose, poter porvi rimedio mediante l’acquisizione attraverso percorsi vari (un supporto psicologico, anche nello stesso ambito lavorativo, se non una vera e propria psicoterapia, laddove i sintomi siano maggiormente invalidanti) della capacità di gestione del soggetto singolo o del gruppo, sulla base di naturali comportamenti relazionali e della gestione costruttiva dei conflitti, latenti e non.
Tutto ciò anche per tentare, soggettivamente, di trovare la propria idea di lavoro, di modificare la propria ‘cultura’ professionale, di enuclearsi dal pensiero dominante quest’epoca del successo ad ogni costo, operando quindi, una ‘sottrazione’ a schemi ‘preconfenzionati’ in maniera conformizzante alla moltitudine sociale, recuperando quanto di ‘singolare’ ci sia nelle propria etica personale, sia lavorativa che esistentiva.

1 thought on “Mobbing, burnout, ovvero del “dolore” dell’occupazione

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