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Un talento poliedrico, quello di Marco Tullio Barboni, discendente di un’illustre famiglia di “cinematografari”. Basti citare lo zio Leonida, magistrale direttore della fotografia, tra le figure principali del cinema neorealista, collaboratore di registi del calibro di Pietro Germi, Renato Castellani e Mario Monicelli, e il padre Enzo che, con lo pseudonimo di E. B. Clucher, ha diretto, tra gli altri successi, il cult-movie Lo chiamavano Trinità... con Bud Spencer e Terence Hill.

Un’infanzia passata nei set, spesso nelle vesti di comparsa in gloriosi film come “La Baia di Napoli”, “Ben Hur”, “Barabba” e “Django”, e una serie di esperienze e stage nei vari ambiti del mondo cinematografico, finché, negli anni ’80, il giovane Barboni comincia a firmare i primi soggetti e sceneggiature in diverse produzioni, seguendo tutta la lavorazione dei film, dall’ideazione al missaggio. Dopo aver scritto una quarantina di film ed episodi televisivi, nonché un’incursione “free lance” nella regia e la direzione di due cortometraggi e un videoclip musicale, sente l’esigenza di dedicarsi alla scrittura, per fissare sulla carta una vita da valente maestranza d’arte. Reduce dal Premio della Critica 2021 al Premio Letterario Internazionale Città di Cattolica e vincitore nella sezione narrativa edita all’VIII edizione del Premio Letterario Nazionale “Caffè delle Arti”, Marco Tullio Barboni si racconta a Mediterranea.

Marco Tullio Barboni

Cominciamo dal suo nuovo libro, “Matusalemme Kid. Alla scoperta di un cuore bambino” (Paguro Edizioni, 2021), un romanzo autobiografico che ci racconta di lei e della sua grande famiglia. Si cela tra le righe qualche retroscena del grande cinema?

“Matusalemme Kid – Alla scoperta di un cuore bambino” ha sicuramente una forte caratterizzazione autobiografica, racconta di me e della mia famiglia ed è senz’altro pieno di riferimenti al grande cinema, non solo italiano. Il tema centrale del libro è tuttavia un altro: il rapporto tra puer e senex indagato facendo incontrare il me adulto, Matusalemme, con il me bambino, il Kid. E poiché Carl Gustav Jung sosteneva che, al di là di tutte le differenze che possono esserci tra una vita e l’altra, vi è comunque una sostanziale identità riguardo ai capisaldi del rapporto puer-senex, chiunque può ritrovarsi in certe dinamiche. E potrà farlo tanto più se avrà mantenuto vivo il bambino che ha dentro di sé. L’intento è stato quello di rendere fruibile, con una leggerezza da non confondere con superficialità, un argomento solitamente appannaggio di una nicchia culturale circoscritta. Nella fattispecie, il contesto nel quale la vicenda si svolge è quello indotto dalla professione di mio padre: assistente operatore prima, operatore alla macchina poi e infine direttore della fotografia negli anni che vanno dal 1952 al 1964, cioè a dire dalla nascita del “me bambino” fino ai “suoi” dodici anni quando, con la pubertà, il bambino finisce di essere bambino”.

Marco Tullio Barboni durante una premiazione letteraria a Milano

Cosa le ha insegnato la sua gloriosa famiglia del duro lavoro delle maestranze che si cela dietro gli schermi del grande cinema? La fa soffrire il fatto che in Italia ancora oggi il lavoro degli artisti non sia adeguatamente valorizzato?

“Mi ha insegnato, in primo luogo, che il duro lavoro perde gran parte della sua durezza quando è svolto con passione ed entusiasmo. Confucio diceva: “Scegli il lavoro che ami e potrai dire di non aver lavorato nemmeno un giorno in vita tua”. Se rifletto su questa affermazione alla luce degli ottant’anni di cinema che vanno dagli esordi di mio zio Leonida e arrivano al secondo cortometraggio di mia figlia Ginevra, passando ovviamente per mio padre Enzo e per il sottoscritto, posso dire che probabilmente Confucio esagerava un tantino, ma non poi così tanto. Quanto alla poca considerazione riconosciuta a certe categorie di preziosi artigiani cui il cinema deve moltissimo, lo attribuisco alla scarsa consapevolezza dei fruitori di ciò che non passa davanti alla macchina da presa. E non mi riferisco solo al reparto fotografia ma anche agli scenografi, ai costumisti, ai montatori e via dicendo”.

Una scena dal film “Lo chiamavano Trinità” con Bud Spencer e Terence Hill

Nel libro si confronta col suo sé bambino. Cosa emerge dall’incontro ideale fra la sua anima infantile e la consapevolezza attuale alla luce di una vita ricca di viaggi, esperienze e incontri?

“In “Matusalemme Kid – Alla scoperta di un cuore bambino” il mio puer mi rimprovera di essere come sono affermando che se l’avessi ascoltato di più sarei una persona migliore e più felice. Ebbene, considerando la prevalenza di taluni elementi assolutamente encomiabili nel bambino, come, ad esempio, la costante voglia di scoprire, l’incapacità di coltivare rancore, l’attitudine ad empatizzare, il non attaccamento al ruolo e certe manifestazioni di amore incondizionato, non posso non riconoscere che quegli appunti non sono affatto senza ragione. Non a caso Neruda affermava che “chi perde il bambino che ha dentro di sé lo rimpiangerà per il resto della vita”. Con questo libro cerco non solo di non perderlo ma, anzi, di ritrovarlo”.

Dal romanzo è stato tratto un cortometraggio animato che mette in scena gli snodi più significativi della trama, godibile anche ad un pubblico molto giovane. Qual è invece il tipo pubblico a cui si rivolge il romanzo?

“Il cortometraggio animato è frutto di una felice coincidenza e cioè quella di essere il mio editore Michele Citro, tra le altre cose, anche insegnante di queste tecniche di racconto. Ne è scaturita l’idea di una sorta di originale “promo” del libro che mi ha consentito, tra l’altro, di sottolineare ulteriormente la dedica dello stesso a mio padre e a Bud Spencer. Entrambi sono stati dei formidabili e solidissimi adulti con un grande, grandissimo cuore bambino. Ed io sono certo che gran parte del loro straordinario successo sia dovuta proprio a questa caratteristica che li accomunava. Un motivo in più di riflessione per il lettore che non ha ancora completamente perso il bambino che è dentro di sé a cui il libro è, in primo luogo, rivolto”.

Da bambino lei è stato un assiduo frequentatore di set cinematografici, anche come comparsa. Conserva dei ricordi nitidi di quel periodo?

“Ne conservo di nitidissimi. Sorprendentemente anche di film che sono stati girati quando avevo quattro o cinque anni. Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che di quegli eventi se n’è continuato a parlare ancora in famiglia successivamente. Tuttavia io credo che gran parte del merito sia da attribuire all’intensità, alla curiosità e, non sembri eccessivo, alla felicità con le quali quelle esperienza sono state vissute”.

Quell’esperienza quanto ha contribuito a formare la sua visione del mondo di adulto?

“Lo ha fatto certamente. Ha, ad esempio, contribuito a non farmi identificare la celebrità con l’autorevolezza. In quelle circostanze ho conosciuto persone straordinarie prive di qualunque notorietà e personaggi famosi totalmente inconsistenti, talvolta anche umanamente. Naturalmente allora non lo avrei affermato in questi termini, ma al mio cuore bambino non è sfuggita quella percezione”.

Marco Tullio Barboni con E. B. Clucher sul set di “Trinità & Bambino… e adesso tocca a noi!”

Lei ha vissuto il mondo del cinema in ogni suo versante, dalla sceneggiatura alla produzione, estendendo il suo impegno culturale anche ad altri ambiti, dagli studi in Scienze Politiche alla scrittura di romanzi, con incursioni nella sfera musicale. Vive come una risorsa il fatto di possedere un approccio multiforme al reale?

“Per prima cosa devo doverosamente precisare che la mia “incursione” nella sfera musicale si è limitata alla direzione di un video per Franco Micalizzi: la potrei definire una “zingarata” con un amico. La musica è materia troppo alta ed importante, e soprattutto ne ho troppo rispetto, perché millanti competenze che non mi appartengono. Quanto agli altri ambiti, ho effettivamente avuto la possibilità di sperimentarne diversi, con una prevalenza, tuttavia, per quelli connessi alla scrittura. Il rischio poteva essere quello di risultare dispersivo, ma la voglia di esprimermi e di sperimentare ha sempre avuto la meglio. E alla luce dei fatti sono contento che sia stato così”.

Il regista Enzo Barboni, in arte E. B. Clucher, con Bud Spencer

I suoi precedenti romanzi hanno ottenuto numerosi premi, riconoscimenti e menzioni. L’ultimo lavoro esce in epoca pandemica e, per conseguenza, in un momento di crisi editoriale. Come sta andando?

“A giudicare dai cinque riconoscimenti conseguiti nell’ambito di altrettanti premi letterari (Premio Caffè delle Arti, Premio Città di Cattolica, Premio Mr Hyde Awards, Premio Lord Byron, Premio Switzerland Literay Prize) che mi sta regalando il solo mese di settembre, credo di poter dire benissimo. Certo, mi sarebbe piaciuto poter effettuare più presentazioni ma per gli eventi dal vivo il momento è quello che è e, con un trend simile, non mi pare davvero di potermi lamentare. Mi auguro semmai che il libro continui a raccogliere riconoscimenti anche nei prossimi mesi”.

Non si è mai crogiolato sugli allori e sta certamente pensando a nuovi progetti. Dove la condurrà nel prossimo futuro la sua creatività?

“Sto scrivendo un nuovo libro con una diversa formula narrativa rispetto ai precedenti. In occasione dei primi tre ho utilizzato una struttura dialogica per l’intero corpo della narrazione, caratteristica che ha inizialmente incontrato la diffidenza di molti addetti ai lavori salvo poi venire ampiamente accettata, tanto che nella motivazione dell’ultimo premio si apprezza l’utilizzo di questa “costruzione tipica della sceneggiatura” gestita da “abile regista della parola scritta”. Naturalmente tale opzione non è stata semplicemente un vezzo, ma piuttosto una scelta congruente con la materia di volta in volta trattata. Adesso, il tema che sto affrontando nel nuovo libro mi ha suggerito una forma diversa di narrare e, ancora una volta, la voglia di sperimentare ha avuto la meglio”.

So che ha in serbo anche progetti teatrali…

“E’ così. La stesura teatrale del mio primo libro …e lo chiamerai destino, che aveva ottenuto nel 2019 il Premio Tragos nell’ambito del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia intitolato alla memoria di Ernesto Calindri (riceverlo al Piccolo Teatro di Milano dalle mani della figlia di Paolo Grassi è stato un autentico onore) e era avviata ad essere portata in scena l’anno successivo, ha visto la sua realizzazione bloccata dalla pandemia che ha penalizzato il settore teatrale probabilmente più di ogni altro. Adesso che si comincia a rivedere la luce, spero proprio di poter riprendere il discorso e giocarmi questa sorta di wild card che il mondo del teatro mi aveva offerto”.

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