Casa ospite
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Articolo di Carmine Mangone

Aprire il territorio che si estende fra le nostre braccia, accogliendo un supplemento di mondo ogni volta –
L’abbraccio non è un recinto. Non si recinge il movimento che è dentro l’intesa. Ogni corpo nasce dall’affrontare collettivamente le proprie aperture cercando di non occludersi negli scambi d’intensità –
Opponendosi al carattere stanziale del pensiero, l’accoglienza non è inclusione, bensì affetto, comunanza, eventualità di un’unione che non si radica dentro un’idea fissa dell’unità, né tanto meno in apparati di domesticazione –

L’ospitalità è un contratto, un accordo tra le facoltà, i desideri, le necessità di coloro che lo contraggono e che se ne fanno carico –
Detto questo, si potrebbe credere che soltanto colui che chiede asilo sia subordinato alla necessità, ad un bisogno immediato. Tuttavia le cose non sono così semplici. Il bisogno di essere accolti non crea necessariamente uno spazio “nuovo” nel mondo degli altri, ma rivela semmai un luogo originario della condivisione, o, in altre parole, un piano di addensamento (di consistenza) di ciò che possiamo ancora denominare etica: condivisione della vita quotidiana, della morte e dei mezzi per sviluppare un senso unitario e com-unitario dentro i flussi della condivisione stessa. Stadio primitivo e assai semplice del fare comunanza, certo, ma che ne contiene già tutti i possibili sviluppi e le auspicabili bellezze –

L’ospite è la linea di fuga che ci riporta a casa –

Nel film Ferro 3 del regista sud-coreano Kim Ki-duk, il protagonista maschile s’introduce di nascosto in case temporaneamente disabitate e le vive rispettando spazi e cose dei proprietari. Anzi, in molte delle abitazioni, egli si ritrova addirittura a lavare i panni degli assenti o a ripararne gli oggetti rotti –
Abbiamo quindi un’intrusione nel territorio dell’Altro che conduce l’attore del movimento a verificare le mappe dell’esistente ricalcandole e ad occupare gli spazi degli assenti accogliendone tuttavia i “luoghi comuni”. Abbiamo cioè un’ospitalità senz’accordo, ma anche senza reale trasgressione. Un’ospitalità che si priva del suo stesso statuto e che, nondimeno, si pone come apertura sovrana sulla compresenza possibile –
In Ferro 3, l’ospitato surroga l’ospitante ignaro e ne viola i diritti senza però stravolgerne i codici o la gestione del territorio –
Ci sarebbe però da chiedersi, al cospetto di un simile paradosso, se si possa ancora parlare di ospitalità. Non si rivelerebbe qui, attraverso quest’intrusione rispettosa, benché illegale, un inusitato riaffiorare del vivente (e delle sue forze) oltre ogni nozione di diritto? Non si potrebbe forse dire che la Legge, restando fuori della porta, sia qui l’unica vera espropriata, pur lasciando intatto il territorio e gli elementi che vi erano soggetti originariamente? –
Ho scritto “intrusione rispettosa”. Il che non implica quindi un’invasione, una volontà di conquista o uno stravolgimento dell’intesa idealmente possibile –
Si sospende il contratto, lo si elude, ma solo dislocandolo incessantemente attraverso i movimenti che danno un senso al territorio e ai corpi che vi si muovono. Il contratto non muore, ma diventa altro. La staticità degli oggetti e l’arroccamento tendenziale del pensiero umano all’interno di relazioni “storicizzate”, lasciano il posto ad una ricerca del vivente (e della sua unicità) che si sviluppa lungo i territori, dentro le relazioni e nel lasciarsi abitare dall’Altro –
In parole diverse, qui parlo di una porta sempre socchiusa di fronte all’impossibile. E parlo di una porta, beninteso, non di una semplice feritoia –

Un tempo si parlava di “case chiuse”, indicando con questa locuzione aggettivale i luoghi dedicati alla compravendita dei corpi e del sesso; ossia quei luoghi dove la prostituzione veniva “marginalizzata” in un dominio (una domus) purché restasse funzionale alla complessiva valorizzazione economica del vivente (potrei anche dire: funzionale alla riduzione economica della parte maledetta di cui parla Georges Bataille) –
A mio avviso, la chiusura delle “case chiuse”, mi si scusi il gioco di parole, non ha rappresentato una reale apertura delle stesse, bensì un aspetto di quella che si potrebbe vedere come chiusura generalizzata e tendenziale di ogni idea di casa a beneficio di una massiccia valorizzazione degli spostamenti tra punti ben precisi del territorio –
Al capitale economico interessa in primo luogo la circolazione, lo scorrimento sempre più veloce di merci, corpi, informazioni. Le case devono restare chiuse. Si aprono soltanto quando diventano nodi essenziali alla circolazione. Tutto avviene sempre altrove. Bisogna correre, “trafficare”. Solo le autostrade della merce sono importanti. I panni sporchi si lavano in famiglia, soprattutto se non producono profitto –

Lo smantellamento delle ultime vestigia della cosiddetta società patriarcale, avvenuto in Occidente nella seconda metà del Novecento, e il tentativo (riuscito quasi alla perfezione) di ridurre il vivente dentro nuovi contenitori ideologici allargati (nazione, spettacolo in senso debordiano, irretimento digitale, ecc.), sta permettendo al sistema di dominio l’alloggiamento degli umani in case senza più fondamenta, intercambiabili, dove la memoria cede il passo ad una perenne attualità, e dove i luoghi comuni che facevano il corpo della comunanza si frammentano sempre più –
Case con centinaia di voci, ma senz’alcun soffio vitale. Loculi, martellamento di spettri alle finestre chiuse –

Ecco allora le probabili parole d’ordine da attuare senza perdere tempo: bloccare la circolazione per reinventare l’ospitalità; entrare nelle “case chiuse” per liberare i fantasmi dei residenti e anche i proprî (ancora Ferro 3, il finale); abitare il movimento per non farsi occupare dagli spazi che recintiamo o attraversiamo; fare breccia nei muri della “cittadinanza” –

Intrusione rispettosa e reciproca. Perché senza reciprocità non c’è una reale comunanza, non può esserci una ricombinazione collettiva e vitale dei luoghi comuni, e non ci sarà mai sperimentazione, oltrepassamento dei limiti da parte dei giocatori, ma solo un susseguirsi di guerre d’occupazione nel risibile dominio del possibile –

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