Guy de Maupassant
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E’ un binomio quello della genialità a braccetto con la follia, che già altri hanno sfruttato, eppure non ha perso e non perderà il proprio fascino. Perché la follia è un territorio insondato che spaventa eppure attrae, un poco come il fuoco attira la mano del bambino e dell’adulto, bruciandola. Ipnotica, suggestiva, affascinante e che pure fa orrore, ecco la follia presentata a parole.

“Chi sei tu che leggi? A quale schiera pensi d’appartenere? A quella degli sciocchi o a quella dei pazzi? Se ti fosse possibile scegliere, la tua vanità preferirebbe certo quest’ultima condizione…” Così apriva Flaubert il suo piccolo Memorie di un pazzo (1901), interpretando con una certa sagacia l’animo umano.

Eppure a parlare di follia, non è Flaubert che corre incontro all’idea, come foglia secca in autunno. Saltano alla mente piuttosto Van Gogh con le sue manie suicide, Schopenhauer con le sue ossessioni di persecuzione, Pirandello con la sua schizofrenia latente e Maupassant con le sue allucinazioni che ingannano perché somigliano fin troppo alla realtà raccontata.

Il primo Maupassant che si presenta, è il romanziere di successo, padre di Forte come la morte, Bel Amì, Pier e Jean, Una vita. Sulla novella Le Horla si inciampa quasi per caso, la si guarda come se non si comprendesse cosa si ha difronte, la si legge curiosi, scoprendo di un altro Guy de Maupassant.

Pazzo, era pazzo. Visse folle e morì giovane, ricco e famoso. Il medico che lo aveva in cura imputò la sua follia alla sifilide che lo divorava, altri preferiscono giocare la carta dell’eredità patologica. Non solo Maupassant, ma anche la madre ed il fratello trascorsero gli ultimi giorni di vita in un manicomio.

Soggetto ad una pazzia furiosa, così viene definito durante i suoi ultimi mesi, eppure creativo, immaginifico, genio, si genio da legare.

Ha squisita forma di diario la novella Le Horla, e si divora rapidamente con gli occhi, semplice da leggere disegna un mondo possibile, di tutti, all’interno del quale si aprono scenari illogici, che rompono con gli schemi, che interrompono il normale andare della vita. E’ per questo che una volta letta, la novella non la si dimentica più: perché ciascun lettore potrebbe esserne il protagonista.

Una novella misteriosa e simbolica fin dal titolo, del quale ancora non si conosce il significato. Gli vennero affibbiate molte, moltissime spiegazioni, eppure solo una pare soddisfacente: che sia contrazione di hors là e che quindi riporti in se il concetto di qualcosa che sta al di fuori, estraneo, straniero.

La sensazione d’essere seguito del protagonista prende consistenza per la prima volta nel roseto e poi all’interno della propria stanza, dove incontra Le Horla, l’inquilino nero. In nessuna delle due occasioni lo vede per davvero, quanto piuttosto ne intuisce la presenza percependo alterata la realtà in una rosa il cui gambo si piega e taglia da solo, ed in uno specchio che non ritrae la sua immagine pure postagli dinnanzi, come se fra l’una e l’altro vi fosse qualcosa: lo straniero, l’estraneo, Le Horla.

“Lo ucciderò, l’ho visto! …ebbene ci si vedeva come in pieno giorno ed io non mi sono visto allo specchio. Era vuoto, chiaro, profondo, pieno di luce. La mia immagine non c’era dentro, eppure io vi ero davanti.”

Più si legge la novella, più si scovano connessioni con il reale, con il biografico. Il protagonista del racconto prende a scrivere il proprio diario l’8 di maggio, data nella quale il suo carissimo amico Flaubert morì. La descrizione della sua stessa casa è una perfetta copia di quella che fu del amico mentore, la cui scomparsa dovette gettare Maupassant in uno sconforto dal quale si riprese con una certa difficoltà.

Ma la connessione che più sorprende è quella fra le visioni del protagonista della novella e l’autore. Il medico curante di Maupassant raccontò che il romanziere soffrì a lungo di visioni similari a quelle descritte nel racconto, a causa di non meglio specificate lesioni d’un nodo di cellule intracerebrali.

Fu probabilmente per questo che il pubblico iniziò a domandarsi, dopo la morte del romanziere, se per davvero Le Horla fosse un racconto figlio da una fervida fantasia o ci fosse dell’altro, ci fosse un pizzico di auto biografico come in tutti i romanzi del genio.

Potrebbe d’altronde essere senza fatica Maupassant il protagonista che non si arrende alla sua pazzia, che analizza le sue visioni in maniera razionale per fugare ogni dubbio di follia, e che pure giunge all’unica conclusione d’essere seguito, braccato, spiato da un inquilino che abita, invisibile ed inconsistente, la propria stanza. Lo chiama Le Horla, altri avrebbero potuto definirlo la follia creata dal suo genio.

“Sto impazzendo. Qualcuno ha ancora bevuto la mia caraffa stanotte; – o piuttosto io stesso l’ho bevuta! Ma, sono stato io? Chi sarà? Chi? mio Dio! Sto impazzendo! Chi mi salverà?

Prima di andare a letto, ho sistemato sul mio tavolo vino, latte, acqua, pane e fragole. Qualcuno ha bevuto…”

Le paure del protagonista sono quelle che potrebbero assoggettare chiunque: della morte, del buio, della notte, d’essere seguito, d’essere spiato. E’ forse per quello che le si sente tanto orribili: perché le si riconosce vicine, a portata di mano, amplificate e totalmente prive di raziocinio eppure possibili.

La sensazione di oppressione, di soffocamento è forse la più ricorrente. Il protagonista di cui Maupassant non si è curato di lasciarci in eredità alcun nome, percepisce a notte fonda qualcuno che gli si avvicina, che sale sul suo letto, che si china sul suo petto, che beve la vita dalle sue labbra e che stringe forte le mani contro il suo collo. Qualcosa di molto simile all’Incubo che qualsiasi cultura conosce, condivide e teme.

“…lo sento e ne sono consapevole… ma sento anche che qualcuno mi si avvicina, mi guarda, mi tocca, sale sul mio letto, s’inginocchia sul mio petto, mi prende il collo tra le mani e stringe… stringe… con tutta la sua forza per strangolarmi.”

Sembra quasi un artista dannato Maupassant, esattamente come altri suoi colleghi, ricchi, famosi eppure uccisi dal proprio genio, dalla propria follia. Della sua intimità forse possiamo avere un assaggio leggendo Le Horla e i molti altri racconti dell’orrore che scrisse nella fase finale della sua vita, che mettono in mostra una personalità creativa con i suoi angoli di luce e i molti altri anfratti di buio.

E a questo punto è impossibile non analizzare più da vicino la suggestiva connessione fra creatività e follia. Interessò molti che si occuparono delle strane evoluzioni della mente umana, ma alcuni diedero un quadro più chiaro d’altri.

La summa del pensiero di Freud, di Neumann di Jung chiarisce che il creativo dà libera voce all’espressione delle proprie parti nascoste, inconsapevoli; riesce a dar sfogo alle proprie immagini interiori, alla propria energia, al proprio inconscio tramite canali di comunicazione insoliti e originali: la pittura, la scultura, la poesia, la scrittura con le quali in molti casi si cura la propria anima tormentata. Esattamente l’incapacità di molti artisti all’adattamento alla propria personalità umana li confina in un destino personale insoddisfacente e dunque alla solitudine.

Lo sa bene anche il protagonista de Le Horla: “Certo la solitudine è pericolosa per le menti che lavorano. Abbiamo bisogno attorno a noi di uomini che pensino, che parlino. Quando rimaniamo soli per molto tempo, popoliamo il vuoto di fantasmi.” Eppure questo non impedisce a Maupassant di abbandonare la vita di relazione, la vita sociale, di votarsi alla solitudine che lo contraddistinse nella fase finale della propria vita.

Animale sociale, l’uomo confinato in solitudine perde il fondamento stesso della propria esistenza, che si basa sulla concezione dell’essere al mondo , sulla possibilità di essere pensato dall’altro. Sono appunto le conferme esterne a dare consistenza al senso di identità del singolo, ad indirizzarne l’evoluzione.

Maupassant che vide ridotta questa dimensione, esattamente come moltissimi altri geni creativi, dovette portare avanti una percezione dell’Io attraverso altri canali: quelli dell’investimento narcisistico di sé ad esempio, e della propria opera.

E purtroppo questo è il territorio all’interno del quale furono create le più grandi opere e le più sostanziose nevrosi, inguaribili depressioni, inquietanti allucinazioni. Si potrebbe dire quasi il dazio che l’artista geniale deve pagare quando l’opera diventa prolungamento di sé e unica maniera con la quale questo entra in contatto con la società.

Guy de Maupassant morì a 43 anni ancora non compiuti, inquilino folle della casa di cura del dottor Blanche a Pussy, lasciando a noi pagine su pagine d’arte e d’osservazione acuta del mondo.

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