Cittadinanza
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Sotto un certo punto di vista il nostro Paese è ormai diventato luogo di stabilizzazione per gli immigrati, passando così in quella che viene comunemente definita “seconda fase del ciclo migratorio”, quella cioè che vede sia la presenza di immigrati singoli sia di nuclei familiari, riducendo in maniera drastica la condizione di invisibilità sociale dello straniero.
In questo contesto, l’arrivo dei figli dal paese di origine, o la loro nascita nel paese d’arrivo, apre nuove aspettative sulla riuscita sociale dei figli, ponendo anche una riflessione del concetto di integrazione sociale.

Parlare di integrazione sociale significa concepire l’immigrazione come un fenomeno il quale, attraverso varie generazioni e fasi, giunge ad una piena cittadinanza sociale basata sul rispetto reciproco tra culture diverse e sulla possibilità per l’immigrato di partecipare e contribuire attivamente alla vita della società in condizioni di parità rispetto agli autoctoni.

Il fulcro principale di questo processo di confronto culturale e sociale nella società è rappresentato da bambini e adolescenti, i quali sono coloro che hanno contatti diretti con istituzioni e luoghi di socializzazione, come scuole, servizi sociali, tribunali, ospedali, tutti luoghi che, insieme con la stessa società civile, si trovano improvvisamente a dover gestire e convivere con una nuova figura, un nuovo cittadino, il minore straniero. Ogni minore ha un mondo alle spalle, una situazione diversa da caso a caso, un percorso migratorio diretto o indiretto, vissuto, subito o semplicemente respirato in famiglia per essere figlio d’immigrati. Tahar Ben Jelloun chiama i minori immigrati “ génération involontaire ” (generazione involontaria): «una generazione destinata ad incassare i colpi; questi giovani non sono immigrati nella società, lo sono nella vita… Essi sono lì senza averlo voluto, senza aver nulla deciso e devono adattarsi alla situazione in cui i genitori sono logorati dal lavoro e dall’esilio, così come devono strappare i giorni a un avvenire indefinito, obbligati ad inventarselo invece che viverlo».

Le migrazioni di bambini e adolescenti segnano profondamente la storia e l’identità personale di ciascuno di loro, provocando di sovente laceranti e inevitabili fratture. Tuttavia crescere tra due culture può anche costituire una opportunità se vista come occasione di appropriarsi di una doppia ricchezza. Tale opportunità deve essere però colta appieno, e i minori devono trovare le giuste condizioni per superare quelle difficoltà che si incontrano spesso in questa situazione.
Alcune di queste difficoltà dipendono dalla situazione sociale e migratoria in cui essi si trovano, ma anche da specifiche dinamiche legate proprio al crescere tra due culture. Sia per la situazione sociale che per quella migratoria, i minori stranieri si possono trovare in situazioni assai differenziate, favorevoli od ostacolanti in base a diverse condizioni, quali possono essere, ad esempio, la loro nascita in Italia da genitori con regolare permesso di soggiorno, condizione più favorevole rispetto a chi invece è immigrato con i genitori o si ricongiunge con essi in un secondo momento, o, ancora peggio, chi è figlio di genitori clandestini, chi è orfano o figlio di rifugiati.

Un caso particolare ricoprono i cosiddetti “minori stranieri non accompagnati”, giovani adolescenti che hanno tentato l’avventura migratoria da soli, talora in contatto con le organizzazioni criminali, e che si trovano a dover fronteggiare notevoli complessità non solo di natura giuridica, ma anche psicologica: quella di percepire se stessi come adulti mentre la società italiana li considera ancora, a tutti gli effetti, poco più che bambini. Le loro prospettive future risultano sicuramente più incerte rispetto agli altri, in quanto possono ottenere soltanto un permesso di soggiorno per minore età, ma una volta raggiunti i diciotto anni rischiano di essere espulsi o di cadere nell’illegalità.

I paesi di maggior provenienza sono la Romania ( il 37,2% dei minori non accompagnati sono di origine rumena) il Marocco ( 20,1% ) e l’Albania (16,8%). L’età dei minori è compresa tra i 15 e i 17 anni ( 82% ) di cui il 68% è fra i 16 e i 17 e l’ 84% di essi sono maschi.
I minori non accompagnati giungono clandestinamente, cercando rifugio dai loro connazionali in abitazioni di fortuna, oppure vengono accolti presso Centri di Pronto Intervento Minori o comunità di pronta accoglienza. Ricordo bene quando, nel 2009, venivano inseriti presso la Comunità per minori in cui prestavo servizio, tre minori provenienti dall’Algeria, tutti senza documenti e in attesa del permesso di soggiorno. Le maggiori richieste che presentavano i ragazzi riguardavano in primo luogo la regolarizzazione, poi il lavoro, escludendo a priori il rimpatrio, non volendo deludere le aspettative dei loro familiari. Mostravano spesso resistenza alla frequenza di corsi d’italiano o a corsi di formazione professionale, resistenza spesso aggravata dalla difficoltà di socializzazione, che finiva per demotivarli. Inizialmente erano forti le difficoltà di adattamento al contesto comunitario. Nel tentativo di farli diventare autonomi dal punto di vista culturale, nei modi di fare, nella lingua, ci trovavamo a dover richiedere dei canoni di comportamento ai quali però non erano in grado di rispondere adeguatamente e questo li portava a sviluppare atteggiamenti inizialmente conflittuali, in seguito assistenzialistici e di immobilismo, cosicché la comunità era diventata per loro una vera e propria sala di attesa, fino al loro trasferimento in un’altra struttura.
I minori stranieri hanno bisogno di essere aiutati nel far emergere un senso di doppia appartenenza: da una parte quella legata al paese di origine e dall’altra quella del paese d’arrivo. Forse è questo il vero segreto dell’integrazione.

Da questo punto di vista i luoghi principali per un intervento efficace sono la scuola, soprattutto, ma anche gli spazi d’aggregazione, i centri sportivi, ecc. Qui i minori hanno la possibilità di confrontarsi con la nuova realtà in cui sono immersi. In generale, è più utile intervenire a livello collettivo, piuttosto che sul singolo bambino. Interventi pedagogici personalizzati, in un contesto in cui il ragazzo è l’unico straniero, possono essere controproducenti perché sottolineano la diversità del soggetto rispetto ai suoi compagni, il che rappresenta un rischio. Mentre in un gruppo eterogeneo, un lavoro sulle specificità di ognuno può divenire un’occasione per la valorizzazione delle diversità tramite una condivisione delle stesse.

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