Esse precari stanca
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Lavoro, precarietà, stabilità, instabilità. L’uomo nasce, gioca ad impersonare un mestiere, sogna un mestiere…studia pensando che un giorno diventerà un/una…poi inizia a lamentarsi della mancanza di lavoro. Affina il suo sogno da bambino o lo abbandona e si immette nel turbine della ricerca di un lavoro – che se andiamo a vedere è un lavoro pure quello, costa energia, tempo, denaro che spesso non si possiede – per andare poi a finire spesso in un posto di lavoro che criticherà per la vita…ma sperando sempre che sia per la vita.

Il Tempo Indeterminato

Questa introduzione del dopoguerra che ha trasmesso la necessità spasmodica di sicurezza, sicurezza per mantenersi e pagare le rate di qualcosa che non si poteva avere quando la si è portata a casa. Il Tempo Indeterminato, frutto delle lotte di classe che, pretendendo giustamente i diritti per i lavoratori, hanno generato un congelamento del sistema lavoro nazionale dando vita all’Italiano Medio. E l’Italiano Medio è oggi quello cui non piace tanto rischiare, (superenalotto escluso) che ha perso parte della creatività che lo contraddistingueva un tempo, l’italiano che attende di terminare gli studi per immettersi nell’apparato pubblico o in una solida azienda per dichiararsi sereno, arrivato e pensare a come vivere o con cosa vivere il suo tempo libero.
I genitori di questa generazione che ha inventato il tempo indeterminato erano persone che vivevano non da precari, ma da flessibili. Seguivano il ritmo delle stagioni, lavoravano i campi, badavano al bestiame, erano sarti, fabbri, muratori, boscaioli…facevano tutti i mestieri che ora si trovano sono nelle statuine del presepe. Flessibili. Avevano un mestiere e lo vendevano al miglior offerente. Hanno accumulato, con umiltà e fatica, terreni, allevato decine di figli e qualcuno è riuscito pure farli studiare. Conoscevano l’arte dell’arrangiarsi, del re-inventarsi, avevano capacità d’adattamento. Poi questa capacità e conoscenza si è persa con una generazione o forse ne ha saltato qualcuna per iniziare lentamente a ripresentarsi nei giovani di oggi.
La generazione attuale si scontra però con una Italia non facile, una Nazione che ha perso completamente il significato del lavoro o che non riesce ad incontrarsi nelle diverse accezioni che gli si può attribuire.

Quale significato attribuiamo al lavoro?

Con questa difficile domanda Maria Letizia Pruna, docente di Sociologia economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari, ha aperto a Sassari la nona lezione della Scuola di Politica “Coloriamo il futuro delle nostre città” organizzata dall’Associazione Un’Isola.
Il lavoro come fonte di reddito o strumento di indipendenza; un mezzo per sentirsi utili o per l’auto-realizzazione? Una forma di socializzazione ma anche una buona base dell’identità sociale, così come una fonte di rispetto – dignità e uno strumento per acquisire potere. Decine le motivazioni che stanno alla base della ricerca di un lavoro.
Qualunque esso sia, qualunque sia la sua durata risponderà a uno di questi bisogni o a tutti e che piaccia o no finirà per diventare parte di noi.
“In Italia si usa il verbo essere per descrivere il proprio lavoro e non il verbo fare – spiega durante il suo intervento la professoressa Pruna – Ci si impersona nel lavoro svolto al punto da diventarne parte. L’azienda conferisce una porzione d’identità e il lavoratore finirà per assorbire pregi e difetti del marchio aziendale. Parte del suo orgoglio sarà legato al prestigio della compagnia di cui sarà dipendente”. Ovviamente nel caso di un lavoratore autonomo il legame con il lavoro è indissolubile.

La differenza con il passato sta però nel fatto che il lavoratore oggigiorno non svolge più un mestiere, mantenendo quindi la propria identità e le proprie capacità, riciclabili altrove – come accadeva ai nostri nonni – ma tende a fondersi con l’azienda che lo assume auspicando di conservare all’interno la sua mansione per la vita. Si è diffusa una paura, quasi un rifiuto, dei cambiamenti, determinata da una prassi culturale che tende ad allontanare o avere una più bassa considerazione di coloro che sono privi di un lavoro strutturato. Qualche anno fa uno che cambiava lavoro troppo spesso era uno che “non sapeva tenersi il posto”, la sua famiglia era vista come priva di sicurezza, senza la possibilità di progettare il proprio domani e la paura di sentirsi in dovere di aiutarla – così come un tempo facevano le comunità di agricoltori – tendeva ad allontanare il diverso, l’instabile. Oggi, se non fosse per la crisi e l’alto tasso di disoccupazione che ha messo tutti in allarme, anche quelli ufficialmente stabili, episodi di questo tipo accadrebbero ancora. “La dignità lavorativa non è uniformemente distribuita ma vittima di classi sociali. Il lavoro in Italia è rigido e precario – prosegue Maria Letizia Pruna – Manca di flessibilità. Precarietà è l’insieme, la sequenza di lavori a termine, intervallata da periodi più o meno lunghi di disoccupazione. Determina instabilità e incertezza”.

E la flessibilità? E’ la libertà di scelta o la capacità di adattamento che si ha al mercato del lavoro? Oppure l’elasticità mentale dei datori di lavoro nel saper cogliere ciò che di meglio c’è sulla piazza e spingere il dipendente a migliorarsi aspirando sempre a qualcosa di più invece che, come spesso capita, abbruttirsi in una mansione non propria?
E il dipendente è capace oggi di tali cambiamenti? O si è forse adagiato nel pensiero più semplice che vede il lavoro solo come fonte di reddito utile ad accumulare beni materiali?

“Oggi sono molteplici le cause che spingono a cercare un impiego – prosegue la professoressa Pruna nella lezione al Villino Ricci di Sassari – una base comune è il reddito, ma ci sono cause sicuramente più intime e sottili che sono un incentivo ancor maggiore. In questi anni è cresciuta notevolmente l’aspirazione al lavoro; donne che prima si occupavano solo della casa o dell’educazione dei figli oggi hanno necessità di un impiego per sentirsi complete e realizzate, vogliono mettersi alla prova e non si può non tener conto delle loro necessità. Al loro fianco abbiamo giovani e meno giovani che cercano di immettersi nei difficili e lenti meccanismi di assunzione – spiega la docente – L’offerta lavorativa non è diminuita, è aumentata la richiesta di persone che vogliono e possono lavorare e in queste persone sono le aspettative sociali il vero motore della ricerca. Bisogna decidere quali di queste non devono essere deluse, quali sono i valori irrinunciabili nella ricerca di un impiego.

La realizzazione, il giusto compimento di un percorso intrapreso con gli studi universitari, il perseguimento di un sogno in campo artistico”.
Con questi presupposti è possibile esser flessibili? O forse in Italia mancano le giuste politiche governative per reggere ad una tale mobilità nel mondo del lavoro?

“Rispondere con un reddito, con un’indennità sostitutiva alla chiusura di un’azienda non è fare una politica pubblica per rispondere all’assenza di un lavoro. Le politiche pubbliche devono rispondere a questa mancanza, così come ai bisogni che generano la ricerca di un lavoro – continua nel suo intervento la professoressa Pruna – Il denaro che viene elargito nelle situazioni di mobilità serve solo ad attenuare le difficoltà dovute all’assenza di reddito, di liquidità, non risolve certo il problema. Le politiche del lavoro creano occupati, non occupazione. Regolano, distribuiscono, sostengono occupazione e disoccupazione. Sono tutte le altre le politiche pubbliche che creano occupazione: quelle sociali, dei trasporti, dell’ambiente etc.. Disoccupazione e precarietà non sono emergenze ma sintomi di un cattivo funzionamento del sistema economico. E’ fondamentale quindi esaminare la quantità e qualità del lavoro che manca e con un progetto a lungo termine nei giusti settori si favorisce sicuramente la stabilità anche nella flessibilità lavorativa, anche se a parer mio non si è ancora pronti ad una tale rivoluzione”.

Non si è pronti o non lo si è più? E l’italiano sarebbe disposto a questi cambiamenti?
Chi non ha un lavoro è sicuramente meno libero, ma siamo sicuri che chi lo ha e ci sta male è più libero?

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