Vedova nera
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Articolo di Milena Fadda

Nell’immaginario della cultura mediterranea, la vendetta ha il volto di donna.

Da Medea alle detentrici dei saperi occulti, alle banditesse sarde, la donna ha percorso, nell’Europa del Sud, nelle varie epoche, tutte le fasi della vendetta. In Sardegna, sono madri e mogli a incitare le faide tra famiglie, in cui le macchie inflitte all’onore sono da lavarsi col sangue. Per la comunità barbaricina dell’entroterra sardo, l’onore non si può sottrarre alla vendetta, in un susseguirsi di azioni che esulano dalla giurisdizione statale e dalla sua autorità, in cui diventa impossibile riconoscersi. La vendetta è consumata arrecando un danno adeguato a chi ha procurato l’offesa.

Lo stato è repressivo, il Codice no, rappresenta la giustizia privata, non la sterile norma statale: è il regolamento di conti, cui tutti sanno di dover sottostare in santa pace. E’ il ripristino dello statu quo ante, in cui la comunità si autodisciplina e solo nell’autodisciplina può rinnovarsi, ciclicamente.

E qui, la donna istiga alla guerra personale, alla giustizia cui, in assenza del deus ex machina, bisogna provvedere da sé alla vendetta, che può configurarsi come organo effettivo della comunità, che si contrappone allo sterile sistema statale, che reprime l’idea di giustizia in un tessuto di regole estranee, che non riescono a comprendere le ragioni che dal caso personale portano all’universalità del Codice e della sua applicazione. Lo Stato è estraneo alla consuetudine, alla legge morale che guida la comunità, difendendola: pretende anzi, insensatamente, di sostituirsi ad essa.

Ed ecco apparire nell’immaginario collettivo la figura della Grande Madre, la terra primigenia che richiama l’uomo alla propria natura, ai propri doveri esistenziali, di custode della comunità e della sfera familiare. Ma la Grande Madre, per concedere i propri doni, ha bisogno del sacrificio, del richiamo al fango primordiale, del sangue.

La Grande Madre è Medea, genitrice che un tempo fu amante, dispensatrice di doni, che, in forza delle proprie arti oscure può sottrarre a piacimento all’umanità. I doni cui Euripide, Pasolini, Grillparzer e quanti ancora hanno tentato di sviscerare il mito si riferiscono, non sono altro che la progenie. Medea è l’ incubo dell’uomo (almeno di quello mediterraneo): donna diabolica che patteggia con l’oscurità, detentrice di saperi occulti che nel tempo ne hanno affinato l’animo, l’hanno resa scaltra. Seduce, viene sedotta e rinuncerebbe a tutto per il proprio uomo: alla patria, alla famiglia, alla casa. È determinata, nell’incitare alla conquista, al saccheggio, a imbracciare le armi, fomentatrice degli istinti in cui l’uomo riconosce la propria bestia interiore e vi si abbandona.

È genitrice: dà alla luce tre figli. Ma saranno figli dell’uomo i figli di Medea? O quella, con le sue oscure pratiche è riuscita, per caso, nel gioco della dissimulazione, a fingersi fedele e dedita agli obblighi domestici, mentre era, invece, in tutt’altre faccende affaccendata? Tutte domande che attanagliano l’uomo da sempre. E l’uomo che fa? Spinto dall’istinto di autodeterminazione, esclude Medea dalla propria esistenza, d’altronde lei è straniera, e raggiungere l’obiettivo di allontanarla non sarà difficile. Ma ecco che la terribile donna, assalita dalla solitudine e dallo straniamento, mette in atto la propria vendetta. Priva l’uomo della propria discendenza, perché i figli non sono che della madre, la quale, nell’estremo gesto, li libera della loro diversità, del loro status di estranei, figli di un’estranea.

La stessa Crimilde, nell’epopea germanica Das Nibelungenlied, è protagonista dell’ecatombe in cui vendica l’uccisione del marito Sigfrido. Perde la vita ma giustizia è stata fatta.

Molto si è detto ultimamente delle vedove nere del Caucaso, che nel martirio, compiono l’estremo gesto della vendetta, in missioni suicide. Si tratta di giovani donne che hanno perso la parte maschile dei propri affetti: padri, figli, fratelli, mariti, uccisi dalle forze russe in Cecenia. Si dice siano shahdika, “martiri”, alcuni le chiamano le fidanzate di Allah, alcune di queste si sono rese protagoniste della strage del teatro Dubrovka a Mosca, nel 2002. Si dice fossero manipolate e addestrate al compito, alla vendetta sanguinaria, ma molto di tutto ciò si perde nella leggenda.

Il volto della vendetta moderna, può anche non avere sembianze femminili, ma una cosa è certa, il motto shakespeariano “l’inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa” sembra recare con se una delle più terribili verità.

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