Vino e poesia
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Chissà perché l’essere umano è sempre attirato da ciò’ che è vietato. Che uno dei precetti dell’Islam sia il divieto di bere alcolici o comunque bevande fermentate è risaputo in Occidente e questo già dalle epoche più remote. Ne troviamo traccia in tante cronache medievali e soprattutto nella poesia cavalleresca che spesso usa l’antagonista del racconto, un saraceno e di conseguenza porta dettagli della sua cultura religiosa.

Ecco che nel Morgante di Luigi Pulci si parla del divieto del vino per i musulmani nel dialogo tra Morgante e Margutte: «E perch’ io vorrei ber con un ghiacciuolo, / se Macometto il mosto vieta e biasima, / credo che sia il sogno o la fantasima» (Canto XVIII, 116, vv. 6-8), questo accanto a tanti altri rimandi testuali. La poesia araba pullula di riferimenti al tema del vino come bevanda del peccato ma anche all’ebbrezza come fonte di ispirazione. Tralasciando la poesia pre-islamica della “Jahilya” che si discosta dal tema che s’intende sviluppare in questa sede iniziamo con una poesia.

Così rossa è la rosa che sulla gota splende
che sa ingannare il cuore.
Si imprime nello sguardo e lo cattura,
bellezza che altera illude chi ti guarda
e alla tua mano consegna in servitù il suo cuore.
Bellezza che vezzeggiando offende: che importa
se il pugno cui affido un cuore innamorato
ha dita come spine? Che importa se poi il cuore si fa liuto
e in musica convertono le dita il suo lamento?
E infine quel mio cuore si fa freccia
lanciata dalla mano d’un arciere che a morte lo stringeva:
del sangue del mio cuore dardeggiato
io me ne vanto, e rido.

Dall’incipit di questa poesia prende titolo la traduzione di Abu Nawass a cura di Leonardo Capezzone, pubblicata da Carocci per la collana Biblioteca Medievale. Questa poesia potrebbe essere considerata l’emblema di un’epoca della cultura arabo-musulmana dove il vino era sicuramente considerato frutto del peccato ma che tralasciava tuttavia un’apertura nella poesia di uno dei maestri della lingua, della stilistica e della retorica araba Abu Nuwass Abu Nuas Al-asan ben Hani Al-akami, conosciuto come Abu Nuwass (756 – 814).

Questo poeta non ha fatto altro che trasformare il vino e tutto il campo lessicale di esso in un motivo letterario nelle sue poesie. Il vino diventa rimedio, salvezza, bellezza, sazietà a volte anche fonte di felicità e di svago. Il poeta scende nel dettaglio e parla addirittura del processo viticolo dalla raccolta del frutto fino alla fermentazione. Non sfuggono quasa’d ‘poesie’ intere che descrivono il rituale del servire il vino. Egli associa l’idea dell’ebbrezza spesso all’idea della passione e dell’amore. Non censura dalla sua poesia effusioni, carezze e dichiarazioni. Non teme di ammettere la sua omosessualità quando descrive il garzone che gli porta il vino “Giovane, bello e pieno di vigore”. La sua opera maggiore è Al Diwan “il Canzoniere” dedicata per la maggior parte ad argomenti bacchici ed erotici.

Il nostro poeta dice che mentre l’amore porta sofferenza e morte il vino risuscita i morti. Abu Nuawass è stato l’artefice delle perfezione poetica criticato, minacciato ma protetto dai più potenti della dinastia Abbasside che dura cinque secoli (VIII-XIII) e dove la letteratura prende una dimensione oltre desertica e si diffonde dalla Persia all’Atlantico, dalla Mesopotamia al Sudan. In questo lasso temporale rappresenta il momento di grande fermento e splendore culturale delle scienze, delle arti, e della letteratura. I poeti dell’epoca abasside si confrontano con altri stili di vita e cercano di emulare e di imitare la poesia di Abu Nuawass.

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